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Troppo poco è cambiato

di Luisella
Dal Pra

Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla”  #unite #rompiamoilsilenzio

Già da bambina capivi che eri una preda, braccata da maschi che per diletto o per sentirsi più virili si rivolgevano a te con appellativi pesanti, ti infastidivano con quelli che loro consideravano invece dei complimenti: “A bona!” era quello che più spesso sentivo rivolgere a me e ad altre donne nelle strade di Roma degli anni Settanta.

A quelle “lodi” spesso i ragazzi facevano aggiunte lussuriose, volgari, accompagnate da azioni fatte con la lingua e altre oscenità, come muovere ritmicamente la zona del pube avanti e indietro a simulare un atto sessuale.

Quando passavi davanti ai bar non c’era scampo, nei tavolini all’esterno stavano seduti dei maschi che trascorrevano i loro pomeriggi a parlare di calcio e di donne e un bel fischio di apprezzamento o qualcos’altro non mancava mai, tanto per mostrare con strafottenza che eri un oggetto da guardare e valutare in base all’aspetto fisico.

Sugli autobus la manomorta e lo strusciamento erano diffusissimi, e guai a ribellarsi perché arrivava l’insulto: “Ma te sei vista! Sei ‘na racchia. Te piacerebbe!”

Negli anni Settanta, almeno nei miei ricordi era così e alla fine sembrava quasi normale quell’arroganza maschilista: era come una buca sul marciapiedi in cui era inevitabile inciampare.

E allora prendevi l’abitudine di attraversare frequentemente da un punto all’altro della strada per evitare certi bar in cui sapevi si trovavano i più squallidi e volgari.

Io vivevo in periferia, ero una ragazzina di quindici anni e mi piaceva portare la minigonna e così “era colpa mia” se gli sguardi si posavano su di me. Le donne adulte che spettegolavano tra loro facevano commenti pesanti sulle ragazze: “Certo se una va in giro in minigonna che si può aspettare? Alla fine, te la sei cercata”.

Questa era la logica delle madri, delle donne più anziane cresciute in una società che considerava normale il delitto d’onore, il matrimonio riparatore e la sudditanza femminile.

L’articolo 544 del Codice penale mostra chiaramente il clima culturale presente nella società dell’epoca: “Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530, il matrimonio, che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”.

È solo nel febbraio del 1996 che entra in vigore la legge 66, “Norme contro la violenza sessuale” che abroga gli articoli del Codice Rocco, risalente al periodo fascista, che definivano lo stupro delitto contro la moralità pubblica e il buon costume.

Considerare il reato di stupro come un crimine contro la persona, anziché come un affronto alla moralità pubblica, sottolinea la centralità del consenso nei rapporti sessuali. Durante la discussione della legge si avviò un ampio dibattito che avrà un impatto significativo sul cambiamento del clima culturale relativo alle disuguaglianze di genere e alla violenza contro le donne.

Alla fine degli anni Settanta fu trasmesso su Rai 2, in seconda serata, un documentario “Processo per stupro” registrato durante il processo presso il tribunale di Latina e realizzato da sei giovani registe, programmiste e filmmaker. Il documentario mostrò in tutta la sua crudezza le difficoltà e le sfide che le vittime di stupro dovevano affrontare nelle aule dei tribunali. A finire sul banco degli imputati non erano gli stupratori, ma le donne che denunciavano lo stupro e questa era la ragione per cui le donne non sporgevano denuncia.

Ripensando al passato, un cammino è stato fatto, grazie all’impegno attivo dei gruppi femministi, ma la violenza contro le donne continua e il numero crescente dei femminicidi lo mostra.

Alla base della violenza c’è una realtà complessa di oppressione, disuguaglianze, abusi, e mancato riconoscimento dei diritti.

È necessario un impegno da parte di tutti e tutte per attivare iniziative culturali, educative e sociali in grado di produrre un vero cambiamento perché, come ha ricordato il padre di Giulia Cecchettin, “da questa violenza si esce sentendosi tutti coinvolti, anche quando ci si sente tutti assolti”.

Luisella Dal Pra

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