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Tra caos e farsa: la crisi politica in Svezia

di Monica
Quirico

“Dramma in quattro atti”, “Svezia, il paese più femminista del mondo: vota per due volte in una settimana una donna come primo ministro” sono stati alcuni dei commenti che hanno accompagnato il caos in cui è precipitata la politica svedese negli ultimi giorni.

Forse il segno più evidente del clima a metà tra il dramma e la farsa è stata la risata incredula che, mercoledì 24 novembre, ha accolto in sala stampa l’annuncio di Magdalena  Andersson delle sue dimissioni, ad appena sette ore dalla nomina a primo ministro. Insomma, quello che doveva essere il coronamento (assai tardivo) del femminismo svedese è partito in salita. E forse è da qui che occorre partire; nel paese simbolo della sinistra riformista, che del femminismo ha fatto un brand da esibire a livello internazionale, soltanto nel 2007 è stata eletta leader del partito socialdemocratico una donna, Mona Sahlin, poco amata dalla base e spesso messa alla gogna sui media per scandali (come quello del Toblerone) che in Italia non avrebbero conquistato neanche un trafiletto sui giornali. Sahlin è ricordata come quella che ha perso le elezioni del 2010, spianando la strada all’egemonia del Partito moderato. Andersson, che è stata di nuovo votata come primo ministro ad appena cinque giorni dalle dimissioni, si trova ad affrontare una campagna elettorale (la Svezia va al voto nel settembre del 2022, salvo ulteriori scossoni) in salita, con un governo monocolore di minoranza che cercherà di catturare voti con il passepartout di legge e ordine,  una politica migratoria restrittiva, il contrasto ai cambiamenti climatici (inevitabile nel paese di Greta ma quanto di sostanza e quanto di facciata è da vedere) e, dulcis in fundo, il sacro Graal, il Welfare. Le priorità saranno in quest’ordine: basterebbe ciò per misurare l’arretramento epocale della socialdemocrazia svedese, sempre più indistinguibile dai partiti del centro-destra e sempre più incalzata, da un lato, dal Partito della sinistra di Nooshi Dadgostar, dei cui voti Andersson ha disperatamente bisogno, dall’altro, dai Democratici di Svezia di Jimmie Åkesson, che si erge a paladino… del Welfare.

Se dunque per un verso i socialdemocratici potranno sfruttare il governo monocolore per far risaltare al massimo la propria linea (ed è per questo che sono da alcuni considerati i veri vincitori della crisi), è altresì innegabile che il vincolo di attenersi, proprio nell’anno che precede le elezioni, ala legge di bilancio votata da due dei partiti ancora chiamati “borghesi” (i Moderati e i Cristianodemocratici) e altresì dai populisti di Åkesson produrrà non poche tensioni, nella base come nel gruppo dirigente.

La decisione dei Verdi di uscire dalla coalizione di governo con i socialdemocratici è stata presa proprio perché, hanno dichiarato i portavoce, non avrebbero più potuto guardare in faccia i propri elettori, se si fossero resi responsabili dell’attuazione delle politiche del centrodestra (a partire dalla riduzione delle tasse su benzina e diesel: con buona pace del clima). A catena, la loro mossa ha provocato le dimissioni di Andersson, la quale peraltro continua a ripetere che per lei non sarà un problema attenersi alla legge di bilancio degli avversari; legge che rappresenta una versione emendata di quella presentata dal governo, dunque non radicalmente diversa ma certo modificata in senso peggiorativo, soprattutto nelle aree più rilevanti: sicurezza, immigrazione, clima e redistribuzione delle risorse.

Andersson è stata ministro delle finanze in un governo come quello di Stefan Löfven che ha dovuto concedere non poco a due partiti del centro-destra, i Liberali e il Partito di centro, con cui aveva sottoscritto, nel 2019, dopo mesi di trattative, il cosiddetto “accordo di gennaio”, conditio sine qua non della sua sopravvivenza come governo bicolore (socialdemocratici e verdi) di minoranza. La crisi di governo aperta a giugno dal Partito della sinistra – che si è rifiutato di avallare la liberalizzazione dei canoni di affitto – ha portato al ripudio dell’accordo da parte dei Liberali (sempre più a destra) e di conseguenza a un maggior peso politico del partito di Dadgostar. Proprio questo “spostamento a sinistra” dell’agenda politica ha spinto il Partito di centro a non votare, mercoledì 25 novembre, il budget del governo, con la conseguenza che quello del centro-destra, appoggiato dai Democratici di Svezia, ha raccolto più voti.  Considerando questi precedenti, nessuno può illudersi che con Andersson i socialdemocratici “tornino alle origini”, o allo spirito di Palme, sempre evocato in occasione delle scadenze congressuali ed elettorali, per poi essere rapidamente riposto in soffitta appena terminato l’evento; i “sossar”, come sono chiamati in svedese con venatura polemica, sono ormai un partito senza visioni strategiche né soluzioni convincenti per gli esclusi dal banchetto del ricco paese nordico. A difendere il Welfare State sono rimasti il Partito della sinistra, che infatti ha chiesto dall’inizio, nel negoziato di questi ultimi giorni per la formazione del governo, un incremento delle pensioni più basse, e, tristemente, i populisti (sia pure nel contesto di una politica economica che è prettamente social-liberista).

Il nuovo governo sarà ricordato probabilmente più che come il primo guidato da una donna (con enorme ritardo peraltro rispetto agli altri paesi nordici), come quello che si è trovato ad attuare la prima legge di bilancio passata anche grazie al voto dei (criptonazisti) populisti di destra.

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