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Ticchettando verso la guerra: a proposito di un libro di Antonio Cantaro

di Francesca
Lacaita

L’orologio della guerra. Chi ha spento le luci della pace, di Antonio Cantaro, pubblicato quest’anno da NTS Media, è un libro affascinante, di cui s’interrompe la lettura solo malvolentieri. Si compone di interventi dell’autore fatti in varie circostanze nell’ultimo anno, quali incontri, seminari, commemorazioni. Una «sorta di involontario diario intellettuale», come lo definisce in apertura lo stesso Cantaro. Tuttavia, raccolti in un volume, quegli interventi perdono il loro carattere occasionale e, anche grazie agli spunti di riflessione che racchiudono, costituiscono insieme una bussola per orientarsi in questo mondo che, nel suo caos apparente, pare invece un orologio che ticchetta inesorabilmente, se pur inconsapevolmente, verso la guerra. Un mondo che – è l’assunto esplicito o implicito di tutto il libro – sta da parte sua cambiando. I paesi dell’area di maggiore estensione, dove vive la maggior parte dell’umanità, vogliono uscire dalla loro condizione secolare di miseria e soggezione (significativamente, stati come India e Cina, e non solo loro, hanno oggi un peso molto maggiore dei “non allineati” di un tempo), mentre i paesi più ricchi e potenti, a loro volta in declino, cercano di resistere alla prospettiva di una «Grande Convergenza» e di una «condivisione globale della leadership politica ed economica». Con tutti i mezzi, inclusi gli embarghi tecnologici. Le «guerre da globalizzazione» (nelle quali l’autore include anche quella attuale in Ucraina), combattute non solo sul piano tecnologico e commerciale, ma anche su quello militare, sono un chiaro sintomo della fragilità di questo ordine internazionale “liberale”, «oniricamente multilaterale, ma materialmente unipolare» (pp. 28-29).

In questo contesto l’autore vede nei due antichi contendenti del secondo dopoguerra «un nostalgico, perverso e tragico, desiderio di passato, di guerra infinita» (p 34). Nel suo attacco scellerato all’Ucraina, la Russia intende riscattarsi dalle percepite umiliazioni ad opera dell’Occidente e riaffermare il suo status di potenza alla pari di quella rivale, assieme a una sorta di dottrina di Monroe adattata alle sue circostanze, nell’ambito di una visione ideologica reazionaria che rinnega la stessa eredità illuminista e stacca la Russia dall’Europa per ricercare un destino “autenticamente” russo sulla base di valori “autenticamente” russi. Una visione, questa, condivisa allo stesso modo, a quanto pare, dall’Occidente, nella sua rappresentazione della guerra come di un conflitto di civiltà fra democrazie e autocrazie incommensurabilmente diverse, tanto da assumere valenze metafisiche di lotta tra Bene e Male. Viceversa, rileva Cantaro, «non sono le differenze che spiegano il conflitto quanto piuttosto le affinità. Due in particolare. Quella economica, che in un quadro di forte competizione globale per il controllo delle catene di valore e del know how tecnologico, genera conflitti sempre più acuti. E quella ideologica, con l’emergere di forti componenti nazionaliste e nativiste, ben visibili nelle dinamiche che hanno condotto al conflitto ucraino e che continuano ad alimentarlo» (p. 118). Nonché, pure, la «logica della competizione imperiale, della ricerca del vantaggio esclusivo, dell’assenza di cooperazione» (p. 117). Ovviamente le analogie si moltiplicano se si restringe il campo al confronto tra Russia e Stati Uniti: come ha detto la femminista pacifista americana Ray Acheson, in un’intervista che vale la pena citare qui, in quanto integra le parole di Cantaro:

«Dietro la crisi attuale c’è una storia di violenza militarizzata ed economica. La Russia e gli Stati Uniti hanno un approccio imperialista al di fuori dei propri confini interferendo, attraverso azioni militari ed economiche, in Paesi che ritengono essere all’interno delle loro “sfere di influenza”. Entrambi usano il militarismo, l’aggressione e i legami economici forzati per guidare la loro condotta nelle relazioni internazionali, ed entrambi affrontano l’ineguaglianza interna, la povertà e la resistenza attraverso azioni di polizia e punizione. I governi di entrambi i Paesi si criticano a vicenda per lo stesso tipo di comportamento: la Russia critica l’imperialismo statunitense, eppure invade e occupa i suoi vicini, bombarda i civili e si impegna in attacchi informatici contro infrastrutture critiche che danneggiano le persone comuni. Gli Stati Uniti criticano la Russia come un’autocrazia, ma negli ultimi decenni hanno rovesciato governi democraticamente eletti se solo minacciavano gli interessi degli Stati Uniti, costruiscono basi e si impegnano in guerre e operazioni militari in centinaia di Paesi in tutto il mondo, e investono miliardi di dollari in spese militari mentre molti dei cittadini statunitensi vivono senza assistenza sanitaria, alloggi o sicurezza alimentare. Entrambi i Paesi hanno rinforzato eserciti, alleanze militari e arsenali nucleari per sfidare l’altro. L’Ucraina, in questo contesto, è una pedina utilizzata da entrambe le parti».

E che ruolo ha l’Europa in tutto questo? Cantaro rileva il «doppio ruolo» del Vecchio Continente: quello «di vittima nella veste di Europa, quello di complice nella veste di Unione Europea» (p. 42). La retorica «unionista» ama «rappresentare l’attuale militarizzazione come l’occasione per un inedito e storico protagonismo dell’Europa come potenza geopolitica» (p. 42), e brandire un senso esclusivo d’identità sulla base di impalpabili “valori europei”; ma quanto più turgida è l’enfasi, tanto più spicca il contrasto con la realtà di un’Europa subordinata agli Stati Uniti, di fatto impossibilitata a immaginare un percorso autonomo, figuriamoci a perseguire quei progetti di ripudio della guerra, di convivenza pacifica e di un futuro diverso che avevano costituito l’aspirazione di molti dopo le carneficine della prima metà del XX secolo.

Cantaro dedica alcuni capitoli a figure e a momenti che rappresentano occasioni mancate per il continente europeo, e che in ogni caso non si potrà evitare di riconsiderare, se si vorrà un giorno raccogliere i cocci e riprendere la ricerca di vie diverse. Innanzitutto Michail Gorbačëv, con la sua visione di “nuovo ordine mondiale” fondato «su una cooperazione politico-economica fra Est e Ovest e fra Nord e Sud, basata sull’interdipendenza, la reciprocità e un’articolazione multipolare degli assetti mondiali» (p. 72). Un ordine, dice Cantaro citando Isidoro Davide Mortellaro, che vede la «compresenza di ‘differenze di sistema’ quale fattore di ‘arricchimento e avvicinamento reciproci’», e che ha al suo orizzonte «un disarmo preventivo e progressivo» (p. 73). Ad affermarsi sarebbe stato invece, per una serie di circostanze il “nuovo ordine mondiale” di George Bush senior, con l’universalizzazione della globalizzazione neoliberista, l’elaborazione di nuovi “concetti strategici” della NATO che superano definitivamente l’originario carattere difensivo dell’alleanza, e la continua espansione di questa a Est.

L’altra figura è quella di Bruno Trentin, di cui viene ricordato l’europeismo federalista (“Libérer et fédérer”, peraltro, era il nome del movimento resistenziale fondato dal padre di Bruno, Silvio, nella Francia occupata), teso alla pace e alla giustizia sociale. Un europeismo che viene contrapposto, da una parte, al «fondamentalismo geopolitico e geoeconomico», che «nega l’esistenza di una politica per il mondo, se non quella dei poteri costituiti, dei poteri forti» (p. 122), e che l’autore discute a partire dall’ultimo libro di Lucio Caracciolo, La pace è finita. E, dall’altra, alla “rivoluzione passiva”, alla visione neoliberale della persona e della società, che produce un’altra “Grande Divergenza”, quella tra ricchi e poveri, e che ha effetti centrifughi e disgregatori all’interno dell’Unione Europea. Due capitoli sono dedicati specificamente alla politica della UE, focalizzandosi in particolare sullo scivolamento dell’“ordine di Maastricht” verso l’economia di guerra.

C’è molto altro nel libro. Ad esempio, un ricordo di Enrico Berlinguer. Ad esempio, una discussione sull’“Occidente Mondo” a partire dal volume di Aldo Schiavone L’Occidente e la nascita di una società planetaria, cui fa da contraltare l’enciclica di Papa Bergoglio Fratelli tutti – in cui si invita a superare «quell’idea delle politiche sociali concepite come di una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i poveri» (p. 193). Sarebbe invero il primo passo per fermare il ticchettio verso la guerra e riaccendere le luci della pace. Nelle parole dell’autore, in conclusione:

«È il deficit di democrazia – la sua scarnificazione dalle classi popolari – il carburante di ineguaglianze ed inimicizie. […] La pace è frutto di costruzione, di riconoscimento dell’altro, non di imposizione unilaterale e unidirezionale. Anche nell’odierna civiltà planetaria l’universo è – e deve essere – un pluriverso. Ciò che oggi è di ostacolo alla pace non è […] la mancanza di un’unica leadership globale, ma, al contrario, l’assenza di una condivisione globale della leadership» (pp. 198-199).

Francesca Lacaita

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