Dal 1° gennaio la Presidenza del Consiglio dell’Unione Europea, organo intergovernativo al vertice delle decisioni dell’UE, è passata al Portogallo, seguendo la rotazione dopo il turno della Germania.
Introdotto nel 2009 proprio dal Trattato di Lisbona, il meccanismo di turnazione assegna ogni sei mesi ad un diverso stato membro la guida dell’organo, in stretta collaborazione con predecessore e successore nel cosiddetto “trio”, che fissa gli obiettivi a lungo termine e stabilisce un programma comune.
Le priorità della presidenza portoghese sono ispirate al suo documento: “Tempo di agire: una ripresa giusta, verde e digitale”, focalizzato su tre aspetti, sottolineati anche nel messaggio di benvenuto del premier Antonio Costa. Oltre alla “ripresa economica e sociale basata sui motori del clima e delle transizioni digitali”, c’è lo “sviluppo del pilastro sociale dell’Unione Europea […] per guidare le transizioni digitali e climatiche senza lasciare indietro nessuno”; ed infine il terzo pilastro con il “rafforzamento dell’autonomia strategica della Unione Europea” nelle relazioni con partner transatlantici e con l’area indo-pacifica, attraverso il vertice UE-India.
Particolarmente significativo in questa fase di pesanti ricadute socio-economiche della crisi sanitaria è senz’altro lo sviluppo del modello sociale europeo, fondato nei Trattati su quella “economia sociale di mercato” (art.3 TUE). Proprio il fallimento di una Costituzione dell’UE redatta per convenzione popolare; e la sua sostituzione nel 2009 con il Trattato di Lisbona, ha segnato una battuta d’arresto delle politiche a favore della coesione sociale. Mercato e moneta unica hanno così prevalso nel processo di integrazione, arrivando fino ai diktat eurocratici del 2010 sull’adozione di politiche di austerità, nei confronti di governi democraticamente eletti, con il ricatto dei memorandum di risanamento di deficit e debito, in cambio di tagli ai sistemi sanitari e di protezione sociale.
Non mancano quindi le suggestioni ed i ricorsi storici, nel mezzo di una seconda crisi socio-economica a distanza di dieci anni, in vista del vertice di maggio a Porto, dedicato proprio al tema sociale. L’intento della Presidenza portoghese è infatti la promozione di un’Unione basata sui “valori comuni di solidarietà, convergenza e coesione” nell’ottica di “un’Europa Resiliente”. A proposito, sono cinque le aree tematiche prioritarie, per l’adattamento dell’UE alla transizione climatica e digitale, con l’agenda sociale in cima alla lista, come pilastro principale della risposta europea al Covid-19. Dal suo discorso di insediamento, il governo portoghese vuole affrontare questioni quali l’uguaglianza di genere e la lotta alla discriminazione, nonché le politiche che affrontano la povertà e l’esclusione sociale, prestando attenzione alla protezione dei gruppi più vulnerabili.
È evidente che l’embrione di ammortizzatore sociale europeo sulle politiche attive per il lavoro, inaugurato con il programma SURE rappresenti un riferimento importante dopo anni di proposte rimaste nei cassetti dei palazzi di Bruxelles. Resta però ancora indefinito il Piano d’Azione che il Summit Sociale dovrebbe elaborare per l’implementazione di questo pilastro europeo. D’altra parte non può certo restare indifferente l’opposizione di stati membri del gruppo di Visegraad – come Ungheria e Polonia – e di altri paesi guidati dalla destra reazionaria, a qualunque affermazione dello stato di diritto.
Ancora una volta la centralità decisionale conferita nel sistema UE alla gestione intergovernativa sembra indebolire le ambizioni di un’Europa solidale e coesa, risentendo fortemente delle fortune elettorali nazionali. L’elezione fra poche settimane del nuovo Presidente della Repubblica in Portogallo distoglie senz’altro energie da progetti comunitari. Inoltre lo stesso governo socialista può contare su appena una manciata di alleati in sede di Consiglio, come l’analogo esecutivo spagnolo, o su alcune componenti socialdemocratiche presenti nelle maggioranze tedesche ed italiana, tutt’altro che granitiche.
In vista del contraccolpo della pandemia sul sistema produttivo e sull’occupazione, le ambizioni legittime a soluzioni condivise sembrano dover fare i conti con criticità strutturali dell’Unione Europea che, nella normale amministrazione mascherata all’occorrenza da austerità prima o risanamento espansivo poi, anche quando è “tempo di agire” non sembra in grado di andare oltre al mantra del “too little, too late”.
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