Nel nostro Paese proprio il governo di destra-destra dichiara la la Gestazione Per Altri/e reato universale, un giorno su tre muore una donna per mano di un maschio familiare (fidanzato, marito o ex che sia), si prova a svuotare del tutto la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza permettendo agli abortisti di entrare negli ospedali e nei consultori pubblici (quei pochi rimasti dopo anni di folli politiche austere imposte dal capitalismo neoliberista), si prova a costruire egemonia culturale sulla triade “Dio, patria, famiglia”.
Ebbene, mentre tutto ciò accade c’è chi se ne esce a dire che “il patriarcato non esiste più”.
Non commentiamo nemmeno una simile boutade.
Tuttavia, la storia ci insegna che l’egemonia culturale si costruisce anche mettendo in circolo idee che trovano via via un rinforzo in ambienti anche differenti e lontani fra loro (e sul concetto di patriarcato così è successo).
La destra sta provando a costruire la sua egemonia culturale, in particolare sulle donne e sul loro corpo, sui soggetti sessualmente non conformi, sulle persone immigrate. Riteniamo necessario non regredire, continuare a portare avanti le posizioni di un femminismo non essenzialista e legato alla prospettiva dell’analisi materialista della nostra storia di oppressione.
Abbiamo pensato dunque utile pubblicare nella nostra rubrica un’intervista di Ilaria Santamaria, futura filologa, alla prof. Stefania Arcara, docente dell’Università Catania.
Un’intervista nella quale la docente richiama la filosofa francese Cristine Delphy che sul patriarcato ha scritto un testo fondamentale “Il nemico principale. Economia politica del patriarcato”, nel quale svela la natura strutturale del sistema patriarcale, che ha dimensioni non solo culturali ma economiche e sociali.
Nel libro Delphy riflette sul sistema di sfruttamento e dominio delle donne che è appunto il patriarcato evidenziando come esso si fondi su un’economia politica precisa: il modo di produzione domestico. Un’economia politica che pervade di sé il modo di intendere le relazioni familiari, le spiegazioni idealistiche e naturalistiche della subordinazione delle donne, la sociologia mainstream e perfino la politica progressista. Il pranzo è servito.
Paola Guazzo e Nicoletta Pirotta
In Italia, ogni tre giorni, una donna viene uccisa da uomo. Ogni tre giorni una madre, una sorella, un’amica è vittima di una violenza maschile difficile da arginare. Il 25 novembre è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile sulle donne, un’occasione preziosa per fare il punto della situazione e per ricordarci che la lotta contro la violenza di genere non è solo necessaria ma urgente.
Sulla questione, abbiamo intervistato Stefania Arcara, esperta di critica letteraria femminista e professoressa associata di Letteratura inglese e Gender studies presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania.
Prof.ssa Arcara, quando e dove si colloca la radice storica, sociale e culturale della mentalità violenta che porta gli uomini a considerare le donne come oggetti e a ucciderle? Crede ci sia un tassello rotto o mancante nella nostra società? E dove si può collocare questo punto di rottura?
Per rispondere a una domanda così complessa, la teoria politica femminista novecentesca ha elaborato una serie di precise analisi che è impossibile riassumere in poche parole (all’Università di Catania il corso di Gender Studies è dedicato proprio a ripercorrerne la storia e le idee fondamentali). Sintetizzando, il concetto chiave è quello di patriarcato nel suo significato elaborato per la prima volta dal femminismo degli anni Settanta. Non si tratta di semplice “mentalità”, ma della struttura sociale, materiale ed economica in cui viviamo. È un sistema sociale in cui gli uomini – come gruppo o classe – beneficiano dell’oppressione delle donne – come gruppo o classe. Esistono precisi rapporti di produzione (il “modo di produzione domestico” individuato da Christine Delphy) basati sull’appropriazione individuale e collettiva della classe delle donne da parte della classe degli uomini. La violenza, nelle sue molteplici forme e gradazioni, è una parte normale e normalizzata di questo sistema sociale. Normale nel senso che risponde all’obiettivo di conservare le gerarchie tra uomini e donne; normalizzata nel senso che il sistema non si basa esclusivamente sulla coercizione fisica ed economica, ma necessita anche di forme di legittimazione che lo facciano apparire giustificato, anche agli occhi delle dominate. Dunque, per normalizzazione della violenza intendo un’ampia gamma di discorsi che la giustificano, la eufemizzano, la nascondono o la dissociano dalle sue cause strutturali, rendendo vane e inefficaci le misure di contrasto. È quello che accade, per esempio, quando l’intero problema è spostato sul piano psicologico. Prima dell’avvento del femminismo, la violenza di genere era ignorata, minimizzata, o data per scontata, cioè naturalizzata, come effetto collaterale delle relazioni d’amore eterosessuali (gelosia, passione, ecc.) – e in parte lo è ancora oggi. Il movimento di liberazione delle donne, quel movimento di massa transnazionale che ha segnato la storia della seconda metà del ‘900, ha fatto della lotta alla violenza maschile una questione politica, e dalla nascita dei primi centri antiviolenza si è arrivati all’istituzione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile sulle donne. Questa violenza – ricordiamolo – si manifesta con una frequenza che equivale a una strage (in media una donna uccisa ogni tre giorni, secondo i dati del Ministero dell’Interno). Se, poniamo, un uomo fosse ucciso in media da una donna con tale frequenza, non si esiterebbe a parlare di terrorismo e si dichiarerebbe l’immediato stato di emergenza. Eppure, malgrado la gravità della situazione sia sotto gli occhi di tutti, le vite delle donne sono in fondo considerate sacrificabili e il discorso pubblico tende a commemorarle retoricamente con le panchine rosse e a occuparsene ritualmente solo intorno alla data del 25 novembre, quando si moltiplicano le iniziative di “sensibilizzazione”. Queste ultime sono immancabilmente orientate verso la discussione della “mentalità” e degli “stereotipi”. Alcune indicano come soluzione l’educazione scolastica: pur motivate da buone intenzioni, esse tendono così a ridurre la violenza patriarcale a questione esclusivamente culturale e psicologica. Ora, la dimensione ideologica del patriarcato va conosciuta, descritta e indagata, ma non può essere isolata dai rapporti sociali materiali ad essa sottesi. Solo il movimento femminista (in anni recenti risorto a livello internazionale come Ni Una Menos/Non Una di Meno) e alcune coraggiose ragazze (come la sorella di Giulia Cecchettin) hanno pronunciato la parola “patriarcato” e denunciato la violenza come questione sistemica. Poi si tratta, certo, di andare oltre lo slogan: capire come funzioni di fatto questo sistema di rapporti di potere basati sul genere e di conseguenza provare ad agire per una trasformazione radicale della società.
Spesso la violenza verbale precede, accompagna, e segue quella fisica. Il linguaggio può veicolare la di genere? Qual è il rapporto tra linguaggio e violenza?
Credo che ogni donna al mondo abbia fatto esperienza di qualche forma di violenza verbale a lei rivolta, in quanto donna, da un uomo. Ogni bambina o adolescente che si muove nello spazio pubblico impara presto cosa voglia dire la sessualizzazione a cui viene sottoposto il suo corpo, reso oggetto dello sguardo e dei commenti sessisti di qualunque uomo passi per strada. Più in generale, il linguaggio veicola l’ideologia patriarcale che giustifica l’inferiorizzazione o l’appropriazione delle donne da parte degli uomini. Penso non solo ai casi individuali di aggressione verbale, o manipolazione psicologica della partner, tipiche delle dinamiche di violenza domestica; per fare solo due esempi su grande scala, basti pensare alla misoginia di cui è intriso quell’umorismo fatto a spese delle donne che sentiamo circolare quotidianamente e al linguaggio che associa sesso e violenza diffuso dalla potente industria pornografica a livello globale.
Che ruolo giocano le scuole e le università nella lotta contro la violenza maschile contro le donne? Secondo lei, le istituzioni culturali possono fare la differenza? O la soluzione risiede altrove?
Le istituzioni culturali non sono entità a sé stanti, ma stanno dentro la società e tendono a riprodurne l’ideologia dominante: al loro interno, tuttavia, possono svilupparsi analisi critiche e pratiche culturali che servano da strumenti per una presa di coscienza delle donne. Personalmente ritengo che questa non sia però una ricetta magica, né l’unica soluzione al problema, ma solo uno dei percorsi che possono contribuire a sollecitare una lotta più ampia. Da docente di Studi di genere – specialmente in una fase storica in cui questo giovane ambito di studi è gravemente sotto attacco – mi piace immaginare un movimento femminista che, alleato con le lotte lgbtqia+, diventi più forte e abbia una chiara visione politica, alimentato da giovani donne, studentesse o docenti che abbiano acquisito consapevolezza anche all’interno della scuola e dell’università.
Lei è una studiosa e una docente di letteratura. Secondo lei, quanto può essere utile la letteratura nella comprensione delle questioni di genere? E quali letture consiglierebbe a chi vuole avvicinarsi all’argomento?
Potenzialmente tutti i testi letterari contengono spunti per riflettere sui rapporti tra i generi e può essere molto istruttivo, per cominciare, anche solo uno sguardo critico all’uso che i “Grandi” della storia della letteratura hanno fatto dell’idea di “Donna” (nel senso del mito patriarcale di cui parla Simone De Beauvoir). D’altra parte, grazie all’avvento della critica letteraria femminista negli ultimi decenni, oggi possiamo apprezzare ancora di più le numerose autrici che nelle loro opere hanno messo o mettono a tema criticamente il rapporto tra i sessi e in qualche modo hanno anticipato, o adottano consapevolmente, una prospettiva critica rispetto al patriarcato. Per limitarmi al mio ambito, la letteratura inglese, penso ai romanzi di Virginia Woolf e ai suoi saggi femministi (Una stanza tutta per sé e Le tre ghinee) e, andando indietro nel tempo, a grandi romanziere quali Jane Austen e le sorelle Brontë, o alla commediografa protofemminista del Seicento Aphra Behn. Tutte letture di sorprendente attualità.
Articolo completo: Violenza maschile, prof.ssa Arcara: “Non solo mentalità, ma struttura sociale ed economica”