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Stato, magistratura e società. Svolta autoritaria o trasformazioni organiche?

Riprendiamo da napolimonitor.it, con lo stesso titolo, l’articolo di Luigi Romano e Gaia Tessitore –

Alcune domande non trovano sempre risposta. A noi, per esempio, ne gira in testa una da quando abbiamo rivisto una scena di Specchio riflesso di Nanni Loy. Sul ponte Mazzini, sul cui sfondo nitidamente si intravede il casermone di Regina Coeli, si vede un uomo senza lacci che si tiene il pantalone sgualcito, indossa una canotta sporca e si muove in modo sospetto. L’uomo è Nanni Loy e, per questa puntata del suo documentario, in onda negli anni Sessanta, interpreta un evaso dal carcere romano. Ferma un passante, un signore distinto che indossa giacca e cravatta, e gli chiede aiuto per nascondersi perché non sa dove andare. L’uomo gli risponde: “Ma si te cercano nun lo di’ che te cercano, se no te trovano…”. E poi, in modo paterno: “Nun rimane’ qua sopra, proprio qua davanti. Cerca de anna’… vattene da n’altra parte”. L’evaso gli chiede: “Ma posso veni’ con lei?”. L’uomo distinto non può trattenersi, in fondo sta andando al lavoro e non può portarlo a casa. La discussione termina con un paio di monete date in elemosina e con la medesima raccomandazione: “Nun lo di’ che te cercano, se no te trovano”. Alla fine, ci siamo chiesti: ma se provassimo a immaginare la stessa scena oggi, su un qualsiasi ponte nei pressi di qualsiasi carcere, esisterebbe un dialogo e quali potrebbero esserne i contenuti?

Facciamo un passo indietro. C’è stato un periodo, tra gli anni Cinquanta e i Settanta, in cui il ruolo istituzionale di una parte della magistratura riusciva a bilanciare le spinte che provenivano dal governo e dagli apparati di polizia, e che miravano a reprimere le manifestazioni di piazza – a sinistra, sia chiaro – e qualunque altra forma di protesta. D’altronde, erano gli anni del tentativo di espungere dal codice penale, redatto da Alfredo Rocco e firmato da Mussolini, ancora oggi in vigore, i reati così evidentemente contrari alla Costituzione (un esempio: “Delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe”) da non poter essere proprio tollerati, pena una schizofrenia legislativa irrisolvibile. Tra il 1969 e il 1974 si andò sviluppando un fenomeno di “riformismo giuridico” che, sotto la spinta delle lotte operaie e studentesche e di alcune pronunce della Corte costituzionale, vide l’approvazione in Parlamento di alcuni provvedimenti di assoluto interesse per il nostro discorso: fu limitato il fermo giudiziario che consentiva alle forze di polizia di trattenere sotto la propria custodia, in attesa del provvedimento dell’autorità giudiziaria, il soggetto gravemente indiziato di un reato (legge 5 dicembre 1969 n. 932); si vietò alla polizia di interrogare gli arrestati e i fermati e furono ampliati i poteri del difensore nella fase dell’istruzione (l. 18 marzo 1971 n. 62); fu disciplinata, con maggiore rigore, la possibilità di disporre intercettazioni telefoniche (l. 8 aprile 1974 n. 98). Da ultimo, venne approvata, con la legge 108 del 1974, la delega al governo per la redazione di un nuovo codice di procedura penale per adeguarlo ai dettami costituzionali e liberarlo dall’ideologia fascista. In quello stesso periodo, settori progressisti della magistratura sostenevano una proposta referendaria per l’abrogazione delle norme del codice penale sui reati politici, di opinione e sindacali. Tra le norme da abrogare c’erano l’associazione sovversiva (art. 270), l’interruzione di pubblico servizio o di pubblica autorità (art. 331), l’oltraggio a pubblico ufficiale (art. 414, comma 3), l’istigazione a disobbedire le leggi (art. 415). Al comitato promotore era sfuggito forse il reato di devastazione, saccheggio e strage (art. 285), recentemente rispolverato dalla Corte di Cassazione per l’attentato alla caserma di allievi carabinieri di Fossano. In ogni caso, il referendum naufragò e queste norme innervano ancora il sistema punitivo.

In quella stessa fase, però, facendo leva sulla “questione criminale”, si cominciava ad affacciare nei programmi dei partiti di maggioranza il tema dell’inasprimento delle pene e della riduzione degli spazi di garanzia in ambito processuale penale. Il 15 gennaio 1975, l’onorevole Fanfani tenne una relazione alla direzione nazionale del suo partito declinando parole d’ordine come “urgenza”, “dilagare di vecchia e nuova criminalità”, “ordine pubblico”, “sicurezza dello stato”. Il Corriere della sera, con un articolo a firma di Beria D’Argentine, commentando quanto detto dal segretario Dc, parlava di uno “stato di guerra”. Lo stesso giornale ospitava una lettera del questore di Milano che chiedeva alla magistratura di ridurre l’uso della libertà provvisoria. In alcune procure, come quella di Napoli, si salutava con favore un intervento normativo emergenziale, chiedendo più aggiornati strumenti per affrontare il pericolo del terrorismo e della criminalità diffusa. Non si stava soltanto preparando il terreno per una stagione di leggi d’emergenza, ma si gettavano le fondamenta di una nuova idea. L’obiettivo di questa ampia manovra era rafforzare la tutela del bene giuridico “sicurezza personale del cittadino”, ampliando i poteri delle forze di polizia. Timori furono espressi da alcuni intellettuali, come Stefano Rodotà che su Repubblica (il 16 dicembre 1979) scrisse: “Ecco allora qual è la vera natura dell’operazione compiuta dal governo: consapevole della propria debolezza, esso ha effettuato una rilevante delega di poteri all’arma dei carabinieri, in primo luogo, e poi ai poliziotti che gestiranno in splendida solitudine il fermo di polizia. Se usiamo il termine ‘dimissioni’ non solo nel senso di ‘abbandono formale di una carica’ ma anche di quello (registrato dai dizionari) di ‘rinuncia a esercitare un potere’, ebbene le dimissioni del governo ci sono già state…”.

Era chiaro, non solo agli organismi militanti, ma anche agli ambienti giuridici istituzionali, che le norme emergenziali si giustificavano in vista dello scontro e della rivincita sul movimento operaio. Se questa operazione da un lato incrementava l’armamentario in dotazione, dall’altro valorizzava i lati oscuri del “Codice Rocco”, che offriva (oggi, come allora) un impianto sistemico di guerra per la “difesa sociale” contro due nemici dello Stato: i militanti politici e i soggetti marginali, considerati una mina vagante contro la proprietà, l’ordine pubblico e il decoro.

In tale mutamento di prospettiva ebbe un ruolo importante la classe imprenditoriale, che da un lato riorganizzava la produzione puntando su automazione e decentramento, dall’altro si scagliava contro quella parte di magistratura che metteva in discussione il potere padronale nei luoghi di lavoro, rivendicando la propria autonomia nei confronti dei poteri di controllo e repressione statali. A questa aggressività faceva da contraltare la debole opposizione delle organizzazioni sindacali: in molte occasioni la Confederazione Unitaria appoggiò senza remore le nuove norme emergenziali (come quelle approvate dopo il sequestro Moro). Ci si spinse a proporre, in un maldestro tentativo di accreditamento istituzionale da parte di alcune rappresentanze del Pci, in un’assemblea alla Face-Standard nel marzo 1978, la costituzione nelle fabbriche di squadre di vigilanza anti-terrorismo, come pure fecero esponenti della Cgil a Milano, nello stesso periodo.

Dagli anni Ottanta, in seguito alla sconfitta del movimento di opposizione nelle fabbriche, nelle università e nei quartieri, lo strumento penale diventava il cardine della gestione di tutte le opposizioni e le marginalità. Nei primi anni Novanta si registra un incremento enorme del numero di detenuti come risultato della partecipazione dell’Italia alla war on drugs sancita nella convenzione Onu del 1988 che, di fatto, modificava l’approccio che fino a quel momento aveva caratterizzato la legislazione anti-droga: si passava dalla prevenzione e cura degli stati di tossicodipendenza a una criminalizzazione con minaccia di pene elevatissime per punire un fenomeno a lungo considerato una questione medica e di integrazione sociale.

Il sistema si dotava di nuovi reati e con l’introduzione delle ostatività per l’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione inframuraria (l’elenco è ampissimo e va dai reati di criminalità organizzata a quelli contro il patrimonio, fino all’immigrazione clandestina) prendeva forma un girone infernale carcerario sempre più articolato. Nel 1992 si è pure aumentato il quorum per concedere l’amnistia e l’indulto che, di fatto, avevano governato fino a quel momento il mondo dell’esecuzione penale: dal 1948 al 1990 si possono contare ventuno provvedimenti di questo genere.

Oggi il catalogo dei nemici pubblici è in continuo aggiornamento, alimentato da continue emergenze e con un filo conduttore preciso: colpevolizzare chi rimane indietro, perché ognuno può e deve mettere in gioco le proprie possibilità, assumendosi la responsabilità delle proprie scelte, senza l’aiuto di nessuno. Se non ce la fai, significa che non lo meriti, come è facile dedurre dai discorsi pubblici e istituzionali, per esempio sul reddito di cittadinanza. L’attributo della cittadinanza spetta solo ai meritevoli e questi solo vanno protetti. Il sistema penale, intanto, si cimenta in nuove prove muscolari che colpiscono i legami sociali: i sindacati combattivi diventano associazioni con finalità estorsive; i comitati di lotta per la casa sono associazioni a delinquere, così come i movimenti dei disoccupati organizzati che appaiono, in diverse inchieste, quali congregazioni dedite a reati di guerriglia urbana, nonché contigue alla criminalità organizzata (lo stigma pret-a-porter di ogni opposizione sociale nel meridione).

Fortunatamente, non tutte le contestazioni delle procure stanno trovando effettivo riscontro in termini di condanna, ma ciò che qui si vuole sottolineare è la criminalizzazione delle condotte e il tentativo di isolarle dal contesto politico. La guerra cominciata con la legge Reale, continuata negli anni Novanta con nuovi strumenti, si è intensificata a tal punto da coinvolgere tutte le sfere delle relazioni umane. Oltre a questa estensione, la soglia della tutela penale è arretrata fino alla valorizzazione del grado di probabilità con cui è verosimile che una singola azione abbia provocato un certo accadimento. Inoltre, di frequente, nelle nuove fattispecie di reato la sanzione penale viene applicata per mera inosservanza della norma, in assenza di valutazione del danno concreto, come nel caso della comunicazione e diffusione illecita dei dati personali (da uno a sei anni di carcere!).

La religione della sicurezza, totalmente inefficace ad assicurare le tutele propagandate, crea di fatto soggettività sempre più esposte, marginali e ricattabili. D’altra parte, la pressione sulle strutture contentive (carceri, Cpr, istituti manicomiali) è difficilmente gestibile se non attraverso repentini collassi e recupero violento dell’ordine. Per questo riteniamo che non si tratti di singole svolte autoritarie o contingenti torsioni illiberali, ma di una trasformazione organica del rapporto tra stato e società, secondo nuove relazioni di forza che rispecchiano da un lato le esigenze della riorganizzazione del lavoro, dall’altro le difficoltà di comporre con il paradigma neoliberista le contraddizioni attuali.

Una volta preso atto di questa congiuntura, sul piano teorico è necessario riappropriarsi di una critica capace di confrontarsi con questa ridefinizione della “autorità” a tutti i livelli; sul piano delle lotte diventa importante costruire legami che riempiano di contenuti politici un’esistenza sempre più solitaria, schiacciata sull’affannoso piano della sopravvivenza. Forse in questo modo potremo riuscire a rispondere oggi all’evaso Nanni Loy con la stessa premura dell’uomo distinto sul ponte Mazzini.

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