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Stato bi-nazionale o due stati per due popoli: quale soluzione per la Palestina

di Franco
Ferrari

Ha sollevato un giustificato interesse un articolo sulla questione israelo-palestinese di Vera Pegna, scrittrice italiana di origine ebraica, nel quale dopo una serie di considerazione storiche e di attualità viene rilanciata l’idea della formazione di un unico stato nella Palestina storica (tale come era considerata fino al 1948). Una prospettiva che viene evidentemente contrapposta a quella dei “due Stati per due popoli”, sulla base della quale si dovrebbe formare uno stato palestinese nei territori occupati da Israele nella guerra del 1967. L’articolo è scritto dal punto di vista dell’ebraismo antisionista e penso che meriti di essere discusso nel dettaglio. Dirò di una serie di elementi che non trovo convincenti.

Discutibili ricostruzioni storiche

Innanzitutto ci sono una serie di ricostruzioni storiche che mi sembrano non corrette e a volte troppo schematiche.

1) E’ quanto meno inesatto fare riferimento al Matzpen come unica formazione politica antisionista in Israele. Il partito conosciuto come Matzpen, il cui nome ufficiale era Organizzazione Socialista in Israele, formato nel 1962 da dissidenti del Partito Comunista Israeliano, ebbe un orientamento critico sia sulle posizioni internazionali di questo partito, sempre vicino all’Unione Sovietica, sia sulla visione che questo aveva di Israele e del sionismo. Matzpen metteva l’accento sulla necessità di “de-sionistizzare” Israele come condizioni per dare una soluzione solida al conflitto. Al suo interno si formarono correnti politiche diverse sia maoiste che trotskiste, le quali dopo pochi anni dalla formazione dell’organizzazione, cominciarono a scindersi e a dar vita a propri partitini. In parte Matzpen raccoglieva l’influenza della “nuova sinistra” a livello globale e inizio a declinare con essa per poi scomparire. Resta per alcuni come riferimento intellettuale di una specifica posizione politica anti-sionista.

Nell’articolo di Vera Pegna viene però totalmente ignorato il ruolo assai più significativo dei comunisti israeliani, e credo che questo sia conseguenza non di mancata conoscenza ma del fatto che le tesi sostenute dai comunisti non sono inquadrabili in una semplificazione binaria del conflitto. Infatti i comunisti israeliani sono contemporaneamente avversari ideologici del sionismo e sostenitori del riconoscimento dell’esistenza di Israele in quanto stato (rimando per questo al mio precedente articolo).

2) Vera Pegna parla ancora di un establishment askhenazi (gli ebrei provenienti da Europa e Stati Uniti) dominante in Israele. Sarebbero questi a sostenere l’equazione fra palestinesi e terroristi, a disprezzare tutto ciò che è arabo e a vivere come un incubo la “levantinizzazione” di Israele. In realtà la crisi di questo establishment è iniziata nel 1977 quando le elezioni vennero vinte dal Likud che contro quell’ establishment si batteva e che per questo raccolse il consenso di molti ebrei di provenienza mediorientale. Questi, una volta arrivati in Israele, si trovarono spesso a vivere in condizioni disagiate e anche ad essere considerati con un certo disprezzo dagli ebrei israeliani arrivati dall’Europa. L’unico spiraglio di riconoscimento alla possibilità di uno Stato palestinese è venuto dall’interno di quella parte del mondo ebraico-israeliano, mentre l’opposizione più radicale ha il suo consenso fra le altre componenti di Israele, soprattutto gli ultimi arrivati. Come succede quasi sempre sono quelli che stanno più in basso nella scala sociale ad essere più facilmente preda della demagogia sciovinista e razzista.

3) Trovo anche un po’ troppo lineare la ricostruzione del rapporto tra sionismo e imperialismo. È vero che il sionismo ha sempre cercato di installarsi utilizzando l’appoggio delle potenze coloniali (secondo alcuni storici anche cercando l’accordo con i nazisti) ma i rapporti non sono stati per nulla lineari. I sionisti ricorsero al terrorismo contro i britannici e Israele è nato all’Onu fondamentalmente per il sostegno dell’Unione Sovietica di Stalin e con le armi cecoslovacche, unico Paese ad aggirare l’embargo deciso dalle potenze occidentali. Poi la leadership israeliana scelse di diventare la fortezza dell’imperialismo occidentale dentro un Medio Oriente arabo che invece con l’imperialismo occidentale cercava di rompere. Ma anche qui non bisogna introdurre troppo determinismo nelle vicende storiche. La storia non è solo “una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla”, anche se in certi momenti lo sembra, è fatta anche di meccanismi strutturali che vanno indagati. Ma l’eccesso di determinismo riduce lo spazio della politica, ovvero la possibilità, come scriveva Marx, che gli uomini (oggi diciamo gli uomini e le donne) hanno di fare la storia anche se in condizioni non decise da loro.

Natura e sviluppo del sionismo

Anche la rappresentazione del sionismo mi sembra eccessivamente semplicistica. Esisterebbe un “Progetto sionista” sempre uguale a se stesso che procede linearmente nell’arco di oltre un secolo. Inoltre questo “Progetto”, che prevede l’occupazione di tutta la Palestina storica e la cancellazione della memoria della presenza palestinese (araba), sarebbe tenuto segreto. Questa è la parte meno comprensibile del’articolo dato che esistono partiti e mezzi di informazione sionisti, Likud incluso, che hanno sempre proclamato la volontà di costituire l’Eretz Israel, ovvero di occupare permanentemente, quelle che chiamano Giudea e Samaria.

Il nocciolo centrale del sionismo era l’idea che la questione ebraica (antisemitismo) fosse risolvibile solo attraverso la costituzione di uno Stato ebraico (anzi “giudaico” secondo la formulazione del fondatore Theodor Herzl). Gli ebrei sarebbero diventati un popolo come gli altri e quindi non avrebbero più essere oggetto di discriminazione, persecuzione, ecc.

All’inizio non era nemmeno scontato che questo Stato si dovesse costituire in Palestina. Si parlò anche di una soluzione ugandese presto accantonata. Quando nacque il sionismo era nettamente minoritario nel mondo ebraico dove prevalevano le spinte assimilazioniste, oppure in Russia, Polonia e altre realtà, la visione portata avanti dal Bund, organizzazione antisionista, socialista, favorevole però all’autonomia politico-culturale dei lavoratori ebrei che dovevano dotarsi di una propria organizzazione separata (su questo ci fu lo scontro con Lenin al congresso della socialdemocrazia russa del 1903).

Il sionismo come tutte le correnti nazionaliste non è di per sé omogeneo. C’è stato il sionismo per un lungo tempo egemone laburista-costruttivista, con prevalenti radici nell’est Europa, affiancato e contrastato dal sionismo revisionista di Jabotinski con molte simpatie per il fascismo mussoliniano, fino a consistenti frange suprematiste che si configurano come una sorta di “Ku Klux Klan” ebraico. C’è il sionismo religioso in qualche caso persino più fondamentalista di Hamas e c’è stato un sionismo marxista che si era organizzato nel movimento “Poale Zion” e il suo principale teorico in Ber Borochov.

C’è una tendenza propria ad ogni nazionalismo che lo spinge in due direzioni pericolose: quella espansionista-imperialista e quella etnicista. Se prendiamo la storia italiana e il movimento risorgimentale abbiamo il passaggio da Garibaldi, patriota italiano ma anche eroe dei due mondi e simpatizzante dell’Internazionale (nonché massone, ideologia universalista borghese) al garibaldino Crispi, fautore dell’espansione coloniale dell’Italia in terra d’Africa. Ma non si può fare derivare meccanicamente Crispi da Garibaldi.

Naturalmente il sionismo contiene in sé due problemi difficilmente risolvibili. Il primo è che mentre gli italiani il loro Stato l’hanno costituito a casa propria, i sionisti lo hanno costituito a casa d’altri, inventandosi la favola, che cita anche Vera Pegna, della “terra senza popolo per un popolo senza terra”. D’altra parte quasi tutti i nazionalismi si basano su una più o meno grande invenzione della propria storia (come per l’Holodomor ucraino).

L’altra contraddizione insita nel sionismo è che dovendo costituire uno Stato di ebrei o uno Stato ebraico (salto sulla spiegazione della distinzione che pure è rilevante) si attiene all’idea dello Stato etnico. E quindi entra in contrasto con l’idea moderna di Stato che si basa sul riconoscimento dei propri cittadini a prescindere da “razza, religione, ecc.” Gli israeliani, per paradosso, si sono dovuti porre l’interrogativo che si erano posti i nazisti (per ragioni opposte, da un lato pensando di difenderli e dall’altro per perseguitarli e sterminarli): chi è ebreo? Seguendo la voce di Wikipedia in Israele per dimostrare la propria “ebraicità” bisogna dimostrare (essendo di trasmissione matrilineare) che si era ebrei almeno a partire dalla bisnonna, ma nel caso di ebrei etiopi bisogna risalire di 7 generazioni.

Pur evidenziando le contraddizioni esistenti nell’ideologia sionista che certamente complicano la possibilità di soluzione del conflitto in Medio Oriente, ritengo discutibile, sia dal punto di vista di una corretta ricostruzione storica che per le conseguenze politiche che se ne possono trarre, la costruzione di un sionismo sempre identico a sé stesso e tutto teleologicamente predeterminato verso un’unica metastorica finalità: l’occupazione di tutta la Palestina storica e la cancellazione di qualsiasi presenza arabo-palestinese.

Uno stato o due stati?

Avendola già fatta anche troppo lunga accenno solo sommariamente alla questione più legata all’attualità politica, sulla quale varrà la pena di tornare. Quale deve essere l’obbiettivo finale del movimento nazionale palestinese: stato unico binazionale o formazione di un secondo stato a fianco di Israele? Premesso che sarebbe bizzarro che decidessimo noi come devono autodeterminarsi altri popoli resta però l’interrogativo. E questo influisce sull’azione politica e sulle forme della solidarietà, doverosa, con il popolo palestinese.

Per rispondere a questa ci sono due questioni di principio da assumere in premessa. La prima è il rifiuto degli stati etnici, la seconda è il riconoscimento e l’applicazione del diritto all’autodeterminazione dei popoli.

Benché Israele nasca, come scrisse Maxime Rodinson, come “fatto coloniale”, non c’è dubbio che oggi gli israeliani siano un “popolo” che insiste su un territorio e come tale debba avvalersi del principio di autodeterminazione. Lo stesso evidentemente vale per i palestinesi e questo è un diritto, non una concessione subordinata al fatto che i palestinesi si “comportino bene”. Per molti israeliani, per loro natura, i palestinesi non possono “comportarsi bene” e quindi non potranno mai avere il “premio” dello Stato sovrano.

Oggi l’ipotesi dei “due popoli, due Stati” è fortemente indebolita e come sottolinea Vera Pegna come dicono tutti gli osservatori onesti dalle politiche israeliane, dalle politiche di annessione della parte araba di Gerusalemme est e dagli insediamenti di 700.000 coloni (sul numero esatto ci sono valutazioni diverse) nei territori occupati nel ’67. E questo è fuori di dubbio. Non si vede però come questi ostacoli svaniscano nell’ipotesi dello Stato unico se non, nella forma che la stessa autrice ammette, dell’utopia.

D’altra parte l’esistenza di due Stati non implica affatto l’esclusione di forme possibili, in un futuro che appare molto lontano, di confederazione o addirittura di unificazione in un unico Stato. Al momento però questa ipotesi appare ancora più difficile della realizzazione dei due Stati. Pensiamo alla difficoltà di coesistenza tra protestanti e cattolici nell’Irlanda del Nord e quanto lungo sia il percorso di una possibile riunificazione dell’isola in un unico Stato. Ancora oggi i protestanti celebrano la battaglia di Boyne del 1690 nella quale Guglielmo d’Orange sconfisse il cattolico Giacomo II.

I conflitti etnici, soprattutto quando sono stati caratterizzati da un elevato grado di violenza, e si mescolano ad altri elementi come quelli religiosi (chi può mettere in discussione il possesso di una terra se te l’ha promessa dio in persona?), possono richiedere tempi lunghi per essere riassorbiti e solo se cambiano gli aspetti strutturali e non solo quelli ideologici e di senso comune. La soluzione dei due Stati ha ancora alcuni vantaggi. Corrisponde alla soluzione legittimata dalle disposizioni dell’Onu. Ha il sostegno, almeno a parole, di tutte le maggiori potenze ed è quella che corrisponde al principio di autodeterminazione dei due popoli. Che poi venga utilizzata, come denunciano i comunisti israeliani, solo per coprire ipocritamente la realtà di fatto dell’occupazione israeliana è incontestabile ma non sufficiente per escluderla.

Dal punto di vista palestinese gli ostacoli principali sono rappresentati dalla debole rappresentatività e dalla mancanza di una strategia dell’ANP per uscire dallo stallo in cui si trova (e forse anche dalla volontà di farlo) e dalla divisione che si è prodotta tra Fatah e Hamas. Senza una ricomposizione unitaria su una linea chiara e realistica del movimento di liberazione nazionale palestinese, l’unico Stato realmente esistente e che tale resterà per un lungo su tutto il territorio della Palestina storica tempo, non può che essere quello israeliano che dispone della forza e della brutale determinazione necessaria ad imporra la propria soluzione.

Franco Ferrari

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