Riprendiamo con lo stesso titolo da monitor-italia.it le riflessioni di S. Portelli a partire dal volume Dopo la gentrificazione. Un quartiere laboratorio dalla crisi economica all’abitare temporaneo, di Alessandro Barile, Barbara Brollo, Sarah Gainsforth e Rossella Marchini, presentato al laboratorio politico Granma di Roma (via dei Lucani, 11), insieme a Le nuove recinzioni. Città, finanza e impoverimento degli abitanti, di Stefano Portelli, Luca Rossomando e Lucia Tozzi –
Ci sentiamo tutti in un “dopo” indefinito, in cui i paradigmi del passato non funzionano più, ma quelli del futuro sono un mistero. Negli ultimi tre anni, la casa editrice Nottetempo ha pubblicato Dopo il turismo di Lucia Tozzi; Castelvecchi, Dopo il capitalismo di Paul Mason; Il Mulino, Post-crescita di Tim Jackson; Einaudi ha appena pubblicato un libro con sottotitolo Vademecum dopo l’apocalisse, e quello di Ilaria Capua pubblicato da Mondadori si chiama direttamente Il dopo. Anche il libro Dopo la gentrificazione di Alessandro Barile, Barbara Brollo, Sarah Gainsforth e Rossella Marchini (Derive Approdi, 2023) parte dall’idea che sia finito un processo urbano, economico e sociale che avevamo imparato a conoscere – la gentrificazione –, in una delle zone che ne era diventata l’emblema, il quartiere romano di San Lorenzo; e si chiede che cosa succederà dopo. Curiosamente, anche la raccolta di scritti postumi dell’urbanista Sandra Annunziata, pubblicata l’anno scorso, porta il titolo Oltre la gentrification (Edit, 2022). Queste pubblicazioni mi danno l’occasione di ragionare un po’ su questo fenomeno, soprattutto a partire dalla mia partecipazione a un congresso internazionale di studi sulla gentrificazione che si è svolto a fine ottobre all’università di Boston. Sempre per restare sul dopo e sul prima: uno dei testi di cui si è annunciata l’uscita al congresso si chiamava Before Gentrification di Tania-Maria Golash Boza, sulla creazione delle diseguaglianze che hanno reso possibile la gentrificazione a Washington DC. Molti interventi al congresso si interrogavano sulle radici, sulle origini, del fenomeno di cui qui invece ci sembra di vedere la fine.
Dopo la gentrificazione si concentra su una “comunità concreta” (è il nome della collana), il quartiere di San Lorenzo a Roma; un quartiere di cui ci siamo già occupati sia su Monitor che sulla rivista Lo stato delle città (qui un estratto di un mio articolo del 2019, e qui un articolo più recente di un autore del libro). San Lorenzo è la prima periferia della capitale, il primo quartiere oltre le mura aureliane (“San Lorenzo fuori le mura” si chiama la sua chiesa), e il primo creato espressamente per gli operai, accanto al cimitero del Verano. Per questo è anche uno dei più importanti “margini d’Italia”, come li ha definiti David Forgacs in un libro che porta questo titolo e che inizia proprio con un capitolo su San Lorenzo. Costruito a fine Ottocento con l’obiettivo “di stipare il maggior numero di persone possibile e produrre il canone di affitto più elevato possibile per metro quadrato”, sin dalla sua nascita era già “noto come il quartiere peggiore di Roma”, “associato, nella mente dei ricercatori sociali, alla criminalità, alla prostituzione, alle malattie”. Quando Maria Montessori vi aprì la sua prima scuola nel 1907, le sembrò che “un lutto recente gravasse su la popolazione che si aggirava per le strade muta, con aspetto stuporoso e quasi spaventato”. L’anno prima Sibilla Aleramo, incontrando alcune donne del quartiere, sudicie e vestite di stracci, si chiedeva: “Da quali profondità di orrore sorgevano le tremende apparizioni?”. Un’indagine sulla malavita a Roma nel 1898 descrive “dovunque, sulle mura, scritti e graffiti orribili, negli angoli ragnatele, in terra, sulle scale, sudiciume d’ogni genere”. Ma per Forgacs queste descrizioni ci parlano più dello sguardo borghese degli osservatori che del “degrado” degli osservati: ed è buffo che in La storia di Elsa Morante (Einaudi, 1972), che si ambienta durante i bombardamenti di San Lorenzo, la parola “degrado” è usata solo per il potere, per il fascismo e per la borghesia, “massima perversione che infettava il mondo”. Degradati erano i proprietari dei palazzi di San Lorenzo, che cavavano il sangue dai loro inquilini, non i poveracci che venivano salassati.
Il libro ripercorre alcune tappe del progressivo “imborghesimento” (è la traduzione più adatta del termine gentrification), che non è avvenuto solo nella forma dello spostamento di famiglie ricche nelle case abitate da famiglie povere: si sono moltiplicati prima gli appartamenti per gli studenti, poi gli alberghi e le residenze per turisti, i negozi si sono specializzati su questa clientela transitoria e i proprietari immobiliari hanno imparato a estrarre il massimo profitto. Ovviamente, gran parte dei residenti sono andati via. Nonostante la mancanza cronica di dati che affligge chi cerca di fare ricerca su Roma, Sarah Gainsforth nel suo capitolo mostra che San Lorenzo ha continuato a perdere popolazione anche dopo la crisi del 2007, quando in tutta Roma i residenti sono leggermente aumentati; ad andare via sono state soprattutto le famiglie (pp.132-133). Di nuovo Elsa Morante, ne La storia: “La borghesia segue la tattica della terra bruciata. Prima di cedere il potere avrà impestato tutta la terra, corrotto la coscienza fino al midollo”. Nella lettura corrente della gentrificazione, però, il cosiddetto “degrado” che si osserva diffondersi nei quartieri non si associa a questa sistematica estrazione di valore da alcune parti della città, bensì alla sua mancanza; la gentrificazione è continuamente opposta al degrado, come se ne fosse un rimedio, anziché la causa. Ma siamo in un’epoca in cui le industrie petrolifere presentano le soluzioni per le catastrofi che hanno creato; non può stupirci che gli investimenti immobiliari vengono fatti passare per soluzioni ai problemi che provocano.
Il primo capitolo, scritto dall’architetta Rossella Marchini, parte dalla nascita di San Lorenzo e arriva alle nuove spinte dell’università Sapienza e della speculazione finanziaria sul quartiere negli anni Duemila, forse sorvolando troppo sull’epoca chiave degli anni Settanta, Ottanta e Novanta, ma concludendo con un’interessante descrizione di alcuni tentativi di “pianificazione del basso” traditi dalle amministrazioni locali, tra cui, naturalmente, l’episodio dello sgombero del Cinema Palazzo nel 2020. Il capitolo di Alessandro Barile, storico e sociologo, descrive la “studentificazione” contemporanea attraverso stralci di interviste ai residenti, per lo più delusi dalle promesse di miglioramento che la retorica municipale associava agli investimenti della gentrificazione. Nel terzo capitolo, Sarah Gainsforth osserva l’aumento dell’offerta degli appartamenti mediati da agenzie immobiliari e degli alloggi temporanei affittati tramite piattaforme digitali, un tema su cui aveva già scritto il libro Airbnb città merce (Derive Approdi, 2019). La diffusione di queste modalità di abitare di breve periodo, analizzata anche nel capitolo finale della geografa Barbara Brollo, rende la permanenza difficile non solo per le famiglie, ma anche per gli studenti, che erano stati invece gli agenti della fase precedente della gentrificazione. Questo è uno dei punti chiave: la gentrificazione ha bisogno di mutare sempre forma, e anche gli equilibri economici che crea sono mutevoli.
Le mappe alla fine del libro danno l’idea della quantità di investimenti immobiliari a San Lorenzo dopo la crisi del 2007-2008: su un territorio di mezzo chilometro quadrato e ottomila abitanti ufficiali, si contano ventitré tra ristrutturazioni e nuovi palazzi sin dal Piano casa del 2009, e tredici alberghi. È vero che la crisi finanziaria globale ha segnato un cambio di ritmo nel processo di gentrificazione, anche se non solo a San Lorenzo e non solo a Roma; ma anche se i cantieri si sono fermati per qualche anno, il sistema bancario che finanziava gli investimenti si è ristrutturato, e in breve è partito un nuovo ciclo di finanziarizzazione, costruzioni e investimenti. Enormi accorpamenti di capitali hanno sostituito gli investitori locali, portando speculazione e gentrificazione a un livello ancora più alto. L’esempio di Communia, una delle occupazioni di San Lorenzo, è significativo: il proprietario dell’immobile, il cavalier Santarelli, è un costruttore che possiede un pezzo di terreno semiabbandonato su via dei Lucani, proprio dove nel 2018 fu stuprata e uccisa la quindicenne Desirée Mariottini. Mentre i media dibattevano su questo crimine attribuendolo al “degrado”, e non alla volontà dei proprietari immobiliari di tenere i loro terreni abbandonati in attesa di massimizzare i profitti, Santarelli riuscì a costruire una nuova palazzina nella zona; ma nel 2020 dichiarò bancarotta, e le sue proprietà andarono ai creditori, in questo caso Banca Marche, che le ha infilate in un maxi-pacchetto di crediti deteriorati, poi finito nelle mani del maxi-fondo immobiliare statunitense Cerberus Capital Management. A garantire per la cessione dei crediti, c’era Cassa Depositi e Prestiti; che gestisce in forma privata tutti i risparmi postali del paese, e che nello stesso periodo stava cedendo il terreno di fronte per la costruzione del maxi-albergo The Student Hotel.
Per questo ho grossi dubbi quando gli autori descrivono la crisi del 2008-2009 come un evento che avrebbe “inceppato” il processo di gentrificazione a San Lorenzo, arrestandola, portandola su un binario morto, infine facendola fallire (p.7, p.84, p.89); oppure quando il caos del presente viene descritto come sintomo di questo fallimento, come effetto della fine della gentrificazione. È vero che il quartiere contrasta con l’immagine standard dei territori “riqualificati” con i locali alla moda, le strade curate e la cultura nelle piazze. Nella zona dove hanno investito Cerberus e The Student Hotel un perenne ingorgo a quattro corsie inquina quotidianamente il grande viale di Scalo San Lorenzo, su cui incombono le due corsie sopraelevate della Tangenziale est, che versa gli scarichi degli ingorghi proprio all’altezza delle finestre dei palazzi. Da un lato sorge l’enorme cantiere dello studentato di lusso, già riconvertito in albergo, sui terreni ex pubblici dell’ex Dogana; dall’altro si estendono le baracche e fabbrichette abbandonate di via dei Lucani, teatro dell’omicidio del 2018. Ma tutto questo è gentrificazione: è l’effetto dell’abbandono delle fabbriche, dovuto alla terziarizzazione; della pressione immobiliare, dovuta alla studentificazione; delle nuove costruzioni, dovute alla turistificazione; della ristrutturazione degli investimenti, dovuta alla crisi finanziaria globale. I ricercatori riuniti a Boston sembravano avere piuttosto chiaro, dopo decenni di osservazione del fenomeno, che lo stereotipo della famiglia benestante che si trasferisce nel quartiere povero, con le amministrazioni che li assecondano portando “cultura” e “bellezza”, non è che un caso particolare, poco più che simbolico ormai, di un processo molto più complesso, che ha mille facce, e che difficilmente arriva a un termine. La fine della gentrificazione è stata annunciata durante le crisi del 1973-1974, del 1981-1982, del 1991-1992, del 2008-2009 e ora del 2020; invece si è sempre rigenerata, in forme nuove e ancora più dannose. È il capitalismo a essere resiliente; oppure, come dice Loretta Lees, una delle organizzatrici del congresso di Boston, la gentrificazione è un ciclo continuo, su cui è impossibile fare previsioni. Quello che sicuramente possiamo fare è scavare nel prima, trovarne le radici, e anche questo libro ci aiuta.
L’imborghesimento di un quartiere viene sempre presentato come un’iniziativa spontanea di alcuni cittadini, dovuta al loro gusto verso i quartieri popolari; e dei gusti non si disputa. Tuttavia, è ormai chiaro che essa parte sempre dall’iniziativa pubblica (state-led gentrification) che disgrega le strutture urbane preesistenti per aprire la strada alla classe più abbiente e agli investimenti. Lo svuotamento del centro di Roma non è un vezzo degli abitanti che hanno deciso di spostarsi fuori: è l’effetto degli sventramenti mussoliniani e poi democristiani, dell’abbandono programmato di alcuni quartieri, e di piani regolatori che miravano a estendere la città a beneficio dei proprietari immobiliari e terrieri. Naturalmente poi segue una fase di laissez faire, in cui i gentrificatori sono lasciati liberi di prendersi i quartieri – ma sempre con l’ausilio della polizia e dei tribunali, pronti a espellere i residenti meno abbienti; non c’è gentrificazione senza sfratti e senza polizia. Quando questo processo è saturo, ci saranno nuove costruzioni, che faranno salire ancora i prezzi (newly built gentrification) senza necessità di espellere abitanti; oppure, nuove forme di estrazione di rendita come la tourist gentrification, o l’arrivo di una classe ancora superiore che scalzerà i primi gentrificatori (hypergentrification), come avviene ora a San Lorenzo con gli studenti. Il motore di queste forme diverse è sempre il rent gap, identificato da Neil Smith, e cioè la frizione tra due parti di città vicine, una in cui le case o i terreni si possono comprare a poco prezzo, e un’altra in cui si possono vendere (o affittare) a prezzi più alti. Per alimentare questo differenziale di rendita c’è bisogno di attirare capitali, ma anche di “degrado programmato” (benign neglect) che fa scendere i prezzi. Perciò, i due lati di via dello Scalo di San Lorenzo sono un esempio da manuale di gentrificazione: da una parte piovono milioni per creare un maxi-albergo, e cento metri più in là una quindicenne viene stuprata in una crackhouse. Non sono né contraddizioni né segni di un fallimento. Una delle zone di New York dove i prezzi stanno salendo più rapidamente è il Bronx: che è stato lasciato nel degrado per decenni, tagliando i fondi ai vigili del fuoco fino a far bruciare mezzo quartiere (lo spiegano i coniugi Wallace in A Plague on Your Houses, Verso, 2001); nel frattempo si completava la costruzione di una maxi-autostrada che tagliava il quartiere a metà per connetterlo con Manhattan e segregare ulteriormente i suoi residenti. Questo è il “prima” della gentrificazione, le dinamiche pubbliche e private che hanno creato le condizioni perché avvenisse.
La gentrificazione è la riappropriazione della città, ma da parte dei capitali, non delle persone: “a back to the city movement by capital, not people”, come scrisse Neil Smith; e la si ritrova più nella produzione del valore immobiliare che porta nuovi investimenti, che nei comportamenti specifici delle persone che ne vengono attratte. Il valore si può creare in tanti modi: ristrutturando un vecchio appartamento della nonna per venderlo a una famiglia più ricca; oppure affittandolo a stanze per gli studenti; oppure dividendolo in due monolocali da mettere in Airbnb; oppure reinvestendo i proventi nell’acquisto degli appartamenti vicini, fino ad avere un intero palazzo per gli affitti brevi; oppure sfrattando un laboratorio artigianale in affitto per rivendere l’immobile a un investitore; oppure presentando un terreno abbandonato come un’occasione di affari, per ottenere credito da una banca; oppure organizzandosi con altri investitori per avere licenze edilizie, magari sfruttando il panico del “degrado”; oppure mediando per la privatizzazione di un blocco di case popolari; oppure usando fondi pubblici come quelli di Cassa Depositi e Prestiti per attirare investimenti stranieri guadagnando sulla mediazione e sull’aumento di valore dei terreni circostanti. Ognuna di queste opzioni è un mondo a sé, e crea forme diverse di “degrado” sul corpo della città, primo tra tutti, naturalmente, l’espulsione dei residenti, che è la ragione principale per cui dobbiamo sempre essere contrari alla gentrificazione, qualunque forma essa prenda.
Spesso, accademici e ricercatori si specializzano ognuno su un pezzo di questo corpo, convinti che sia il centro del problema (per questo non sono d’accordo quando, a p. 105, si sostiene che Airbnb e le piattaforme siano la trasformazione urbana principale degli ultimi dieci anni), o che sia così diverso dagli altri pezzi da non essere più gentrificazione, o da dover prendere un altro nome: di recente, per esempio, Javier Gil ha scritto che per gli affitti brevi bisognerebbe parlare di short term rental assetization, e non di gentrificazione: tecnicamente è vero, ma è un peccato abbandonare il termine, proprio ora che attivisti e abitanti di mezzo mondo lo usano per identificare le trasformazioni dei loro quartieri. L’immagine dell’abitante più ricco che si sposta nel quartiere popolare, oggi, è soprattutto un simbolo, una metonimia, dei continui movimenti dei capitali che mirano a riprodursi a spese della città, e della devastazione sociale e urbana che provocano questi movimenti: gentrificazione è un modo per rendere visibile, concreto, un fenomeno astratto e difficile da afferrare.
Al di là dei nomi, comunque, quello che conta, e questo libro aiuta a farlo, è mantenere una visione complessa del fenomeno, che ha tante facce e che dev’essere studiato da esperti di tante discipline. La gentrificazione non è nell’arrivo del nuovo inquilino nell’appartamento della nonna, né negli studenti, turisti o abitanti temporanei; ma nella continua estrazione di valore dalla città, sopra le teste e sopra i corpi delle persone che, di volta in volta, ne sono gli strumenti o le vittime – e, a volte, entrambe le cose. Ad alcuni tocca prima, ad altri “dopo”.