Il tema che è stato posto al dibattito da Transform! Italia e sul quale provo ad intervenire può essere così riformulato: ai fini della costruzione in Italia di ciò che manca, ovvero un soggetto politico con dimensioni e influenza di massa, quale può essere il rapporto migliore con la storia della sinistra italiana ed in particolare con il suo soggetto più importante: il PCI?
Penso che la domanda posta sia utile e abbia anche risposte tra loro molto diverse ma possa servire a impostare questioni che non riguardano solo il passato, o il confronto tra le biografie personali, quanto la stessa strategia e modo di essere di una “offerta politica” che si ponga obbiettivi di progresso radicale e trasformazione sociale.
Per provare ad affrontarla articolo il ragionamento in tre ambiti che in parte si sovrappongono e in parte richiedono una specifica autonomia di ragionamento e sono questi:
- la questione dei fondamenti
- l’immaginario sociale
- la logica dell’azione politica
La questione dei fondamenti
Ritengo che al di là dell’evoluzione storica, dei cambi strategici e dei mutamenti organizzativi, nell’esperienza e nella natura del PCI ci fosse un nocciolo di elementi fondamentali che ne hanno costituito l’identità. Questi possono essere raggruppati con tre termini, certamente di non facili definizione e ricchi di possibile sfumature, ma sostanzialmente ben identificabili: socialismo, internazionalismo, classismo.
Sostanzialmente queste tre idee-forza, benché ridefinite nel tempo, sono rimaste in gran parte presenti quasi fino alla fine del PCI. Sono state rimesse in discussione non solo per effetto del crollo sovietico ma in una certa misura già prima, all’interno del partito, per una serie di ragioni che ovviamente non è qui possibile richiamare nemmeno sommariamente e che ovviamente non sono legate solo alle vicende interne ma ad una serie di cambiamenti sociali complessivi.
Il primo interrogativo nel rapportarsi storicamente con la storia della sinistra italiana consiste nel misurarsi con questi elementi del paradigma fondante. Ciò che costituisce, per citare un autore recentemente scomparso, ma evidentemente con tutt’altre finalità e contesto dal presente articolo, un “nucleo di principi non negoziabili”.
Il PD, dopo una serie di evoluzioni, nasce dalla confluenza di correnti politico-ideologiche (cattolico-democratiche, liberali, social-liberali, ecc.) che non hanno mai condiviso quel paradigma, anzi lo hanno fieramente combattuto, con quella parte maggioritaria del PCI che ha ritenuto indispensabile assumere nei suoi confronti un atto di cesura radicale.
Si consideri ad esempio il recente manifesto programmatico del partito, pur considerato più a sinistra di quello fondativo. Se si prova a fare una ricerca testuale non compare la parola “capitalismo” (tanto meno la parola “classe” e questo poteva essere più scontato”). Anche se si accenna al “nostro sistema socio-economico”, questo sistema è senza nome. Il che ha una logica. Parlare esplicitamente di “capitalismo” implica già lasciare la porta aperta ad una serie di interrogativi: quali sono i caratteri fondamentali del capitalismo? esiste una relazione tra i grandi problemi sociali, ambientali dell’umanità e la natura del capitalismo stesso? il capitalismo è una formazione sociale storica che così come è nata può anche essere superata? è l’unica forma sociale possibile o si può operare consapevolmente per l’affermazione di un’altra forma sociale migliore? E così via.
Quindi si può contestare il capitalismo? Difficile contestare ciò che non viene nominato e quindi per ciò stesso non esiste. La società che c’è si può certamente migliorare ma è dato storico ineluttabile, secondo la logica della “fine della storia”. Potrebbe essere al massimo assalita dall’esterno, da società autoritarie dalle quali ci si deve difendere anche attraverso l’uso della forza armata e così via.
Quindi dal punto di vista del PD la rottura col paradigma attorno al quale si è costituito e operato per circa 70 anni il PCI è un dato acquisito ed evidente.
A sinistra del PD esistono certamente formazioni politiche, minoritarie, che oggi si collocano in relazione di maggiore o minore continuità con quel nocciolo di principi fondamentali. Il raffronto con questi, che li si condivida o li contesti, è un primo elemento fondamentale per definirsi rispetto ad un patrimonio storico.
Occorre tenere conto che vi sono stati e vi sono altri punti di contestazione che non possono essere sottovalutati e che circolano o sono stati fatti propri anche da correnti politiche radicali e non solo dalla sinistra liberale.
La stessa idea della necessità di “fondamenti” è oggetto di critica. Questi rimandano alla esistenza di una “grande narrazione” ed il tempo della “grandi narrazioni” è ormai declinato, si sostiene. A questo filone di pensiero si potrebbe opporre la considerazione che in realtà nel mondo di queste “grandi narrazioni” ve ne sono diverse ed alcune hanno anche preso vigore negli ultimi anni. Non solo quella dominante liberista, ma il nazionalismo a sfondo etnico, il fondamentalismo religioso, il cospirazionismo, per citare le maggiori. Dal che si potrebbe derivare che la teoria della fine della “grandi narrazioni” non abbia ostacolato la diffusione di “grandi narrazioni” reazionarie, ma solo di quella fondata su un’idea di progressismo radicale e di trasformazione sociale. In pratica, la nostra.
Il secondo tipo di obiezione è stata espressa soprattutto negli anni ’80 in relazione al dibattito del Partito Comunista. In sostanza, si diceva, l’idea di perseguire una forma di trasformazione sociale strutturale, benché graduale (“il socialismo”) qualcosa che restava del tutto vago e indefinibile, ostacolava la possibilità di operare per un concreto piano di “riforme” praticabili e utili alle classi lavoratrici. Si proponeva così un modello di adattamento alle esperienze socialdemocratiche soprattutto quelle scandinave. Perché, ci si chiedeva, inseguire una fantomatica e futuribile gallina e non impegnarsi per avere invece uova migliori e più grandi?
A questa obiezione, a distanza di una trentina di anni si può rispondere non tanto sul piano strettamente teorico, quanto direttamente basandosi sull’analisi scientifica dei processi reali. Il “riformismo rivoluzionario” ha saputo produrre vere riforme che hanno migliorato le condizioni di vita delle classi lavoratrici e con esse fatto avanzare le condizioni generali della società. Il “riformismo riformista” non solo non ha prodotto nuove riforme, ma ha baldanzosamente contribuito a distruggere anche le conquiste ottenute nella fase precedente.
Insomma dissolta la vecchia gallina, per quanto potesse essere solo immaginaria, una sorta di idea platonica o ideale regolativo kantiano, di uova non se ne sono più viste.
Esistono forze politiche minoritarie che si ricollegano, in modi diversi e con diversa coerenza e capacità di innovazione al paradigma classico, ma questo può essere solo un punto di partenza che richiede di esaminare altri due ambiti di riflessione.
L’immaginario sociale
Utilizzo questo concetto, prendendolo in prestito dall’ultimo libro di Marco Damian,i per intendere qualcosa che non è esattamente un’ideologia, cioè una visione organica e tendenzialmente coerente della realtà, ma qualcosa di più elastico e frammentato che serve per comunicare una serie di idee e valori alla più vasta opinione pubblica.
Nel testo con cui Transform! Italia ha voluto aprire questo dibattito si è richiamato al modo con il quale il tema del rapporto continuità/rottura col passato è stato impostato dal partito di Giorgia Meloni. Una scelta in cui l’ancoraggio al passato della destra (neofascista) italiana è considerato come un valore e come tale presentato all’elettorato. La difesa simbolica della “fiamma tricolore”, l’esaltazione della leadership politica di Almirante, ecc. Fratelli d’Italia, dopo qualche oscillazione iniziale, si afferma per rivendicare la continuità di una presenza storica, in contrasto invece con quanto avvenuto nell’altra parte del campo, sia col PD che con i 5 Stelle.
Meloni, paradossalmente, è l’unica leader di partito che potrebbe rivendicare la nota formula: “veniamo da lontano, andiamo lontano” (avendo probabilmente ragione anche per il futuro, temo).
Fratelli d’Italia può applicare questa strategia grazie a due elementi. Il primo è che ritiene (con qualche ragione) di aver mantenuto inalterato un nocciolo di principi ideologici fondamentali (nazionalismo etnico, conservatorismo sociale, occidentalismo anticomunista, gerarchizzazione sociale, militarismo, anti-illuminismo e così via) con la destra missina. In secondo luogo, altra scelta rilevante, mentre non rivendica la continuità con il fascismo del ventennio, di cui il neofascismo post guerra non è una mera ripetizione, rifiuta di diventare antifascista. Mentre molti di coloro che sono stati comunisti sono diventati anticomunisti.
Il PD ha approvato formalmente, al Parlamento europeo, previa una grossolana falsificazione storica delle origini della seconda guerra mondiale, l’equiparazione di comunismo e nazismo e anche l’incoraggiamento a perseguire penalmente coloro che continuano a richiamarsi anche in modo puramente simbolico al comunismo.
Questa preso di posizione, pur particolarmente significativa, non esaurisce il rapporto del PD con la storia di una delle formazioni politiche di origine, ma ha evidentemente un forte significato simbolico. Della storia del PCI si può accettare di recuperare aspetti minori come un certo stile amministrativo, ricondotto alla continuità col riformismo pre-comunista, o la figura di Berlinguer, solo nella misura in cui venga ridisegnata attorno agli aspetti morali piuttosto che politici (“una brava persona che faceva politica per convinzione e non per interesse”, e così via). Piuttosto omaggio del vizio alla virtù che non vera rivendicazione di continuità storica. Nel terzo ambito di analisi però riprenderò un aspetto che consente invece di costruire un percorso di collegamento con il passato storico tra PD e PCI.
Per la sinistra di trasformazione il rapporto con la storia del PCI è piuttosto contrastato. Una parte della fu estrema sinistra condivide sostanzialmente la visione criminalizzante delle vicende di quel partito, la sua caratterizzazione di “male assoluto”, responsabile di quasi tutti le cose che in Italia sono andate male. Ancora oggi, a trent’anni dalla sua scomparsa, è oggetto di anatema.
Un altro approccio è quello della cesura storica irreversibile. Quella del PCI, ma anche del resto della sinistra di ispirazione operaia e socialista, è stata una bella storia ma è finita irreversibilmente sotto il peso di una sconfitta epocale. Non ci sono nemmeno materiali utili da recuperare per una nuova costruzione. E questo viene considerato un punto di partenza dal quale non si può prescindere.
Vi sono poi quelle tendenze, che a me sembrano oggi prevalenti, che ritengono che ci si debba ricollocare in continuità storica con altre correnti della sinistra, non successive ma coeve al PCI. Elaborazione e pratiche politiche rimaste ai margini per vari motivi e che oggi potrebbero costituire la nuova base teorica da cui partire per ricostruire un soggetto politico di sinistra.
Questo approccio rischia poi di confondersi con un altro, quello del culto sacrale del passato, solo che anziché rivolgersi alla storia del PCI, considerata una storia vincente, ritiene che sia necessaria una seconda occasione per le tradizioni che si sono rivelate perdenti e che potrebbero in una qualche misura recuperate impatto ed essere reinserite nel corso della storia.
Restando sul terreno più definito dell’immaginario sociale, cioè di quell’insieme di elementi comunicativi che si rivolgono al senso comune, piuttosto che alla dimensione più strettamente teorica, ci si deve chiedere se il rifiuto di ogni continuità, in particolare con la storia del PCI, che è quella che ha avuto la più ampia dimensione di massa, sia condizione necessaria per operare efficacemente nel presente.
Il ragionevole dubbio, quanto meno, è che la cancellazione della storia abbia favorito un vuoto nel quale si sono potute espandere anche nel campo sociale che dovrebbe essere della sinistra, idee e visioni politiche di tipo reazionario o anche solo di ripiegamento subalterno sull’esistente. Si siano, in pratica abbandonate delle “casematte” valoriali, in mancanza delle quali gli avversari abbiano potuto determinare nuovi e a loro favorevoli rapporti di forza.
Da questo però non deriva, ritengo, una visione “parrocchiale” della continuità storica, per cui ognuno difende e perpetua una specifica tradizione a prescindere e contro le altre, ma la necessità di accoglierne la pluralità, sia quella che si esprimeva dentro il PCI che al di fuori di esso.
La logica dell’azione politica
Per logica dell’azione politica intendo una serie di atteggiamenti, nessi e metodi che in una certa misura precedono e inquadrano specifiche scelte programmatiche o individuazione di priorità che possono essere più strettamente contingenti ad una determinata situazione.
Diverse logiche possono essere esaminate in relazione all’individuazione del terreno d’azione principale ad esempio privilegiando quello elettorale-istituzionale (tipico del PD) rispetto all’intervento sui conflitti sociali o, per riferirsi ad alcuni correnti della nuova destra francese, quello cosiddetto “metapolitico”, della determinazione delle idee prevalenti nel dibattito pubblico.
Nell’insieme si tratta di verificare come si intreccino tra loro vari aspetti: modalità comunicative anche non verbali, stili di leadership, capacità di analisi della realtà, rapporto tra la volontà soggettiva e le condizioni oggettive e così via. Quindi non tanto singole iniziativa ma lo schema complessivo sottostante che in una certa misura le determina e le indirizza.
Nel caso più specifico della sinistra radicale mi pare che si possano individuare, ovviamente semplificando e schematizzando, due diverse logiche d’azione: la politica di massa e la politica della nicchia militante.
Non si tratta semplicemente di una dimensione quantitativa. Essendo le forze e la capacità di influenza politica e sociale poche inevitabilmente queste si rivolgono ad un ambito più limitato. Né può essere fatta derivare solo dagli effetti di un contesto complessivo più difficile per determinate idee e posizioni che pure indubbiamente esiste.
Ritengo che oggi nelle varie forze della sinistra radicale tenda a prevalere la seconda logica politica. Questo determina evidentemente una serie di conseguenze importanti e una crescente difficoltà a competere con le offerte politiche dominanti che riescono ad essere credibili anche verso quei settori di società che pure per molti aspetti condividono temi e punti di vista della sinistra radicale.
Una parte dell’effetto di trascinamento dall’area di consenso, di militanza e di insediamento sociale che fu del PCI è rimasta al seguito dei progressivi mutamenti introdotti dalla maggioranza di quel partito, sulla base del fatto che esso offriva comunque una continuità con la capacità di produrre politica di massa. Questo è risultato più importante alla fine della coerenza rispetto ai fini originari e ha retto in una certa misura anche al progressivo spostamento delle classi di riferimento del partito da quelle dominate a quelle dominanti.
Si può criticare evidentemente quella parte di opinione pubblica di sinistra che ha partecipato alle primarie del PD, puntando sulla vittoria della Schlein, da molti punti di vista e tutti piuttosto validi: dalla questione dei fondamenti, all’illusorietà in aspettative di cambiamento che poi non arrivano mai, persino alla capacità minima di quel partito di sapere “battere la destra”. Resta il fatto che quell’elezione ha comunque prodotto un “fatto politico”, per quanto si possa ritenere superficiale, cosmetico e così via, ma che comunque non ha lasciato l’insieme dell’assetto politico italiano uguale a quello precedente. Nella percezione di chi ha sostenuto la candidata alle primarie del PD e anche per molti di coloro che non l’hanno votata, il giorno dopo non è uguale al giorno prima.
Il problema delle forze della sinistra radicale è che in genere non riescono a produrre “fatti politici”. Ci si dovrebbe chiedere se, appunto, questo sia solo frutto di una debolezza derivata dalle vicende degli ultimi decenni, dall’assetto istituzionale, dalla poca spinta di movimenti conflittuali, tutte cose vere ed indubbie o ci sia un problema più sostanziale riconducibile a quella che ho chiamato “logica dell’azione politica”.
Si sarà già capito che propendo per questa seconda lettura. Questo rimanda però anche al punto di partenza di questo intervento: il rapporto tra la prospettiva e il passato. Le correnti politico-ideologiche oggi prevalenti nella sinistra radicale si ricollegano principalmente a tendenze che per la loro formazione originaria tendono a produrre politiche di nicchia militante. Di cui non si deve certo disprezzare il ruolo nel tenere vive alcune tematiche sociali, nell’intervenire in conflitti e movimenti che altrimenti resterebbero del tutto fuori dall’arena politica e così via, ma che non risultano essere in grado di produrre politica di massa per limiti oggettivi e non certo per cattiva volontà.
Non c’è dubbio che la più grande esperienza che in tal senso si sia prodotta in Italia per decenni diversi, anche se non unica, con tutti i suoi limiti, contraddizioni e scelte criticabili, è stata quella messa in campo dal PCI. Non si tratta di ripetere scelte politiche o forme organizzative che ormai sono fuori dal contesto in cui viviamo. Si tratta di capire quale metodo e quale logica in quei determinati contesti abbiano saputo produrre politica di massa. Elementi che in una qualche misura restano, a mio parere, ancora validi, purché ovviamente le si sottoponga a vaglio critico. A trent’anni dalla scomparsa del PCI, le varie correnti politico-ideologiche che si erano poste in alternativa, se non in aperta opposizione, a quel metodo di rapporto tra analisi della società, capacità d’iniziativa e insediamento di massa, non sono state grado fino ad oggi di fornirci una prospettiva strategica che non resti rinchiusa dentro la prospettiva di una nicchia militante più o meno larga.
Né credo che questo problema possa essere risolto solo dall’attesa di qualche sommovimento sociale che dal basso spinga inesorabilmente verso l’alto una proposta politica che poi non sia in grado di fornire anche a quell’ipotetico movimento una propria visione strategica.
Possibili “casi di studio”
Questo schema analitico si può applicare ad esperienze concrete per verificarne la validità’? Forse sì. Faccio due esempi, sempre dovendo procede in modo molto sommario, richiamando due concrete esperienze di partiti della sinistra radicale di altri Paesi, diversi tra loro, che negli ultimi anni hanno avuto un certo successo: Podemos e il PT Belga.
Podemos, rispetto alla tripartizione che ho indicato, si è posto come forza di radicale innovazione. Sul piano dei fondamenti ha messo in discussione sia il tema “socialismo”, non più visto come mutamento qualitativo della struttura del sistema sociale, quanto processo di progressiva e radicale estensione della democrazia (secondo la visione Laclau/Mouffe) che il tema classe, considerato ormai da archiviare e da sostituire con il soggetto “popolo”. Non un “popolo” inteso come confluenza e articolazione di più classi sociali tra loro alleate, quanto di una diversa definizione della soggettività politica basato sul rapporto amico/nemico e su una costruzione prevalentemente discorsiva.
Anche in rapporto all’immaginario sociale, Podemos ha accentuato gli elementi di cesura nelle forme comunicative, simboliche ecc. piuttosto che su quelle di continuità.
In terzo luogo ha sicuramente teorizzato e prodotto un sostanziale mutamento di logica di azione politica. Di fronte all’emergere di un nuovo movimento radicale (il 15M), la leadership politica e intellettuale di Podemos non ha ritenuto che si potesse semplicemente raccogliere un’onda ed incanalarla in forme di azione politica pregresse ma fosse necessario un mutamento di logica e di metodo. Quanto questo sia poi risultato del tutto efficace e adeguato è ovviamente oggetto di una possibile valutazione critica che qui non è possibile fare, ma in ogni caso, è importante sottolineare questo metodo politico.
Per quanto riguarda il PTB, abbiamo una diversa risposta, pur in una prospettiva di revisione critica della propria esperienza storica. Da questo punto di vista si tratta di un partito che continua ad assumere gran parte del nocciolo fondamentale sopra richiamato. Ha modificato nel discorso pubblico il proprio rapporto col passato rompendo con una visione di setta ideologica collegata ad una specifica interpretazione del maoismo, per assumere una visione più inclusiva, assumendo come propria storia un insieme di esperienze comuniste, socialiste e del movimento operaio nel suo complesso.
E soprattutto ha anch’esso compiuto consapevolmente una scelta di rottura sul piano del metodo dell’agire politico per riuscire ad articolare una presenza di massa e non più rivolta solo ad aree militanti sostanzialmente residuali e di scarsa influenza.
Conclusione
Il ragionamento fin qui esposto presenta evidenti limiti di schematismo rispetto ad una realtà che, come sempre, è ben più complessa. Non consente di produrre facili ricette politiche che diano soluzione ai problemi che abbiamo di fronte. Per altro la politica non è solo una sfera di applicazione della razionalità ma anche un ambito nel quale si esprimono sentimenti, richieste di senso, fiuto politico e anche una certa dose di fortuna. Potrebbe favorire però un dibattito meno ripetitivo e meno schiacciato sul contingente e anche più chiaro nel mettere a confronto le diverse prospettive senza escluderne pregiudizialmente alcuna. Questo almeno è il modesto intendimento con il quale è stato scritto.
Franco Ferrari