La necessità di imporre, con la forza della legge, un salario minimo orario e, a fortiori, mensile, si rende improrogabile di fronte al dilagare di forme di lavoro precario che in Italia hanno assunto, in molti casi e sotto ogni aspetto, il profilo del rapporto servile e le fattezze ineccepibili di uno sfruttamento che senza alcuna esagerazione può definirsi “schiavile”.
La mancata introduzione di una norma legislativa capace di estendere, con efficacia generale (“erga omnes”), i risultati economici dei contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative ha contribuito ad aprire una voragine in un mercato del lavoro da “far west”, un esteso territorio caratterizzato da leggi proprie e spietate, un discount delle braccia dove il lavoro si acquista a prezzo politico, dove è lecito contrarre e applicare “contratti pirata” che portano la firma di sigle sindacali e datoriali semisconosciute.
I dati Cnel certificano che sono centinaia questi contratti collettivi, tanto farlocchi quanto perfettamente operanti, che danno luogo ad una rincorsa al ribasso nei trattamenti economici e normativi del lavoro, un vero e proprio dumping di manodopera a cui nessun governo, sino ad ora, ha posto (ha voluto porre) rimedio. Sicché è rimasto sostanzialmente lettera morta il fondamentale primo comma dell’articolo 36 della Costituzione, quello in cui si legge che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Quale sia il livello retributivo che consenta di raggiungere, in applicazione della Legge fondamentale dello Stato, la prescrizione anzidetta non è ancora dato di sapere. Tutto è affidato ai rapporti di forza fra le parti dove, non di rado, a fronteggiarsi sono il singolo lavoratore o la singola lavoratrice da una parte, e il singolo padrone dall’altra, plastica rappresentazione di una perfetta asimmetria sociale; oppure dove il confronto si svolge fra gruppi di lavoratori, fra loro slegati, e agenzie che forniscono servizi di vario genere e che operano nei confronti dei propri dipendenti con l’eleganza (e la voracità) di “libere volpi in libero pollaio”.
Serve dunque definire un livello retributivo minimo, al di sotto del quale nessuno possa lavorare senza che gli sia inferta una violenza esistenziale ed una lesione della dignità personale.
Le ragioni per le quali padroni e destra politica si oppongono a questa misura sono talmente evidenti che non merita indugiarvi troppo. Altrettanto inutile è soffermarsi su proposte di salario minimo talmente basse da essere ascrivibili alla volontà dei proponenti di legittimare per legge forme di sottosalario al di sotto del limite di sopravvivenza.
Proviamo allora ad occuparci di chi ha fatto proposte almeno degne di essere considerate, ed esaminiamole nella loro materialità, il solo criterio che può dare conto della loro efficacia o dei loro limiti, partendo dalla pdl sottoscritta da Pd, M5S, SI, Azione, Europa verde e +Europa.
Il testo colloca la soglia a 9 euro lordi orari, da applicarsi a tutte le tipologie di lavoro, anche alle collaborazioni.
In Italia ci sono ci sono 4.578.535 lavoratori e lavoratrici che guadagnano meno di 9 euro lordi l’ora. In questa fascia rientrano più del 90% dei lavoratori domestici, il 35,1% di chi lavora in agricoltura e il 26,2% dei dipendenti delle imprese private. E, in particolare, il 38% delle persone con meno di 35 anni e il 26% delle lavoratrici.
La novità rispetto allo stato legislativo attuale sarebbe dunque l’istituzione di un salario minimo di garanzia negli ambiti di attività che risultassero non coperti dai contratti nazionali.
La proposta di salario minimo si estenderebbe anche all’ampio settore del mondo del lavoro italiano composto dai cosiddetti “parasubordinati” e anche dagli stessi autonomi o che tali risultano nelle statistiche solo in ragione della mascheratura formale di un rapporto in realtà del tutto subordinato, quale, per esempio, quello dei rider o di chi ha un contratto di co.co.co.
Pd, M5s, SI, Azione, Europa verde e +Europa sostengono di utilizzare come riferimento il salario minimo previsto dai contratti sottoscritti dalle maggiori organizzazioni sindacali e ritengono che la loro proposta rappresenti dunque anche un “rafforzamento” della stessa contrattazione.
Ma a cosa corrisponde, in moneta sonante, la proposta delle opposizioni parlamentari?
Vediamo più precisamente: 9 euro lordi l’ora (pari a 1547 euro mensili) significano, al netto delle ritenute fiscali e previdenziali, 6 euro netti l’ora e quindi 1037 euro mensili.
Un passo in avanti rispetto a chi ignora totalmente il problema? Certamente sì, e qualche merito credo vada ascritto alla nostra solitaria campagna, di cui poi dirò.
C’è ovviamente da discutere se questi livelli di retribuzione minima consentano di vivere un’esistenza libera e dignitosa.
Ma vi è un altro problema, non meno rilevante, con cui fare i conti.
Bisogna infatti sapere che esistono non pochi contratti collettivi, sottoscritti dalle confederazioni Cgil, Cisl e Uil, che prevedono, per quanti/e sono collocati/e nei livelli più bassi dell’inquadramento professionale, livelli retributivi persino più bassi dei 9 euro lordi previsti da questa proposta.
C’è al riguardo un esempio di questi giorni, quello del Ccnl dei Servizi fiduciari, scaduto nel 2016 e rinnovato solo nel maggio 2023. Trascuro, per decenza (e perché l’argomento porterebbe altrove), la circostanza che dopo 7 anni di carenza contrattuale è stato concordato un aumento mensile di 140 euro spalmato in 6 rate, l’ultima delle quali a metà 2026! Mi soffermo solo sul fatto che in due diverse occasioni, su istanza di alcune lavoratrici del settore, la sezione lavoro della Corte d’Appello di Milano, nel 2022, ha stabilito che “ove la retribuzione prevista nel contratto di lavoro, individuale o collettivo, risulti inferiore ad una soglia minima, la clausola contrattuale è nulla”. Il tribunale ha cioè stabilito che un Ccnl, come quello Servizi fiduciari, sebbene “sottoscritto da organizzazioni sindacali e datoriali di cui non è in contestazione la rappresentatività nel settore, non è di per sé sufficiente a far ritenere la misura di detta retribuzione, sic et simpliciter, conforme all’art. 36 della Costituzione”.
L’autorità giudiziaria si è cioè spinta sino a dichiarare la nullità della clausola contrattuale del Ccnl “ove, sulla base di uno scrutinio improntato a particolare prudenza, risulti che detta retribuzione non sia proporzionata alla qualità e quantità del lavoro prestato, e/o insufficiente ad assicurare una esistenza libera e dignitosa alla lavoratrice”.
Insomma – scrivono i giudici della Corte d’Appello – un Ccnl firmato dai sindacati confederali non è garanzia di un salario dignitoso e, nel caso in ispecie, non lo è un contratto che prevede una paga di 5 euro all’ora.
La Corte si è spinta dunque fino a dichiarare, in forza della Legge fondamentale dello Stato, che ove la retribuzione prevista nel contratto collettivo risulti inferiore a questa soglia minima, la clausola contrattuale è nulla e, soprattutto, che “il giudice adegua la retribuzione secondo i criteri dell’art. 36, con valutazione discrezionale”.
Questa importantissima sentenza ci rimanda ad un nodo cruciale che riguarda tanto il ruolo del sindacato, gravemente offuscato, per non usare termini più impegnativi, quanto il senso della nostra proposta, quella di un livello retributivo orario lordo minimo di 10 ore.
Ricordo, solo di passaggio, che in Germania il salario minimo orario è di 12 euro, ma la Dgb ha chiesto di elevare l’importo a 14 euro e il ministro del lavoro Hubertus Heil dell’SPD ha dichiarato di condividere la necessità un “aumento significativo”, mentre la Nupes propone che in Francia il salario minimo netto mensile non sia inferiore ai 1400 euro.
Ora, vale anche per noi, naturalmente, il criterio più sopra utilizzato per la proposta delle opposizioni parlamentari.
Dieci euro lordi equivalgono ad un salario orario netto di 6,7 euro. Su base mensile, si tratta di 1730 euro lordi, che al netto delle ritenute fiscali e contributive danno una cifra di 1160 euro. In questo caso il numero dei contratti collettivi nazionali che portano la firma di Cgil, Cisl e Uil e prevedono emolumenti inferiori per lavoratrici e lavoratori collocati nel livello più basso dell’inquadramento professionale crescerebbe ancora. Questo spiega la contrarietà che alberga nel sindacato e nella stessa Cgil (ma non nella sua minoranza) alla misura da noi proposta, poiché essa, pur in queste non straordinarie proporzioni, metterebbe in crisi l’intero inquadramento professionale e la relativa scala retributiva a partire dai livelli più bassi esigendone una generale rimodulazione verso l’alto.
Chi nel sindacato si oppone all’introduzione di un salario minimo legale lo fa perché teme entri in crisi la propria autorità salariale e perché diverrebbe manifesto il dato da tutti e tutte conosciuto e cioè che le retribuzioni in Italia sono le più basse d’Europa.
Si tenga presente che in tutti i paesi europei Ocse dal 1990 ad oggi il salario medio annuale è aumentato. In alcuni casi in maniera molto evidente. Non in Italia, l’unico paese europeo in cui i salari sono diminuiti, precisamente del 12 per cento nello stesso arco di tempo, come conferma il Global Wage Report 2022-2023 appena presentato dall’Ilo, l’Organizzazione Internazionale del lavoro.
Introdurre la misura del salario orario minimo ad un accettabile livello (i 10 euro, appunto) significherebbe dunque anche spingere il sindacato a rivedere le proprie politiche salariali e ad abbandonare l’impianto culturale concertativo che le ha completamente incistate dentro le compatibilità dettate dal sistema d’impresa, vero dominus delle relazioni sindacali nel nostro paese.
C’è infine un ultimo aspetto, non meno cruciale dei precedenti, che merita un’attenta valutazione.
La pdl delle opposizioni parlamentari prevede l’istituzione di una commissione tripartita, composta da una parte da rappresentanti dello Stato (uno del ministero del Lavoro, uno per Inps, uno per l’Istat e uno per l’Ispettorato nazionale del lavoro), dall’altro le parti sociali comparativamente più rappresentative (datori di lavoro e sindacati in egual misura) che avrebbe come compito principale quello di monitorare la situazione ma, soprattutto, di aggiornare periodicamente il trattamento economico minimo orario.
La proposta si presta a due critiche di fondo.
In primo luogo non si vede come un dispositivo di legge possa obbligare le parti a negoziare “periodicamente” l’adeguamento di un salario minimo fissato per via legislativa. Non è mai successo e non succederebbe domani. Non serve Nostradamus per comprendere che Confindustria innalzerebbe le barricate e ben difficilmente si verrebbe a capo della questione. In secondo luogo, se il salario minimo viene introdotto attraverso una legge dello Stato, dev’essere lo Stato medesimo a garantire, attraverso l’istituzione di un meccanismo di rivalutazione certo ed automatico, la congruità e l’equivalenza nel tempo della retribuzione minima, sottraendola alle incertezze e volubilità della negoziazione. Dunque la soluzione non può che stare in un meccanismo di indicizzazione legato alla dinamica di prezzi al consumo, una riedizione, aggiornata e corretta, della vecchia scala mobile.
Qualcuno se ne ricorda ancora?
Dino Greco