Angelo Vivante socialista e la Finis Austriae
Era nato l’11 agosto 1869, i suoi genitori provenivano da Mantova e facevano parte della comunità ebraica; visse nel crepuscolo di un mondo che stava per finire e che, utilizzando le parole di Franz Werfel non sarebbe esistito più, non dopo la Grande Guerra, e nell’esprimere la sua tristezza Vivante manifestava, più che uno stato d’animo, la consapevolezza di una irrimediabile dissipazione che nessun evento avrebbe mai saputo rielaborare.
Quindi noi scorriamo le pagine di quanto scrisse in “ Irredentismo Adriatico” nel 1912, non un testo esclusivamente politico ma una elegia funebre che è anche lascito consapevole di un tempo irripetibile. Trieste col primo grande sciopero generale nel 1897, che bloccò del tutto la città aveva fatto pervenire a Schonbrunn il più preoccupante dei segnali d’allarme per la tanto decantata stabilità dell’impero, della sua coesione sociale, della ultrasecolare dedizione della città adriatica alla dinastia asburgica.
Se anche la “fedelissima” si ribellava- sentenziò allora qualcuno nella capitale -, il tempo della fine non poteva essere lontano. Periodizzando, quello del 1897 non sarebbe l’ultimo ma fu il più forte e significativo segnale d’allarme che il centro ricevette dalla periferia, prima dei moti del 1902 e che ovviamente rimase inascoltato, anzi venne stravolto nelle sue implicazioni, dalla neghittosa superficialità del ceto dominante del tempo, e dalla dispotica nequizie del governo conservatore, che scelse anziché il dialogo, le riforme sociali, l’apertura democratico-federalista dello Stato, le più anacronistiche politiche di restaurazione sociale e di repressione poliziesca contro gli operai ed i movimenti nazionali.
Lo sciopero dei fuochisti del Lloyd che si svolse nel febbraio 1902 fu la miccia che diede fuoco alle polveri e che destabilizzò la “pax austriaca”. Angelo Vivante scrisse “Irredentismo adriatico” proprio a partire da quel fatto ed il libro che per sottotitolo recitava: “contributo alla discussione sui rapporti austro- italiani e quindi dei rapporti fra la nazione italiana “riunita in un tutto politico” e le nazionalità varie – compresi gli italiani della Giulia – che dalle alpi Orientali, dai Carpazi, dal Danubio e dalla Sava gravitavano più o meno intensamente, sulla costa orientale adriatica, ecco, quelle pagine indagavano, con ammirevole meticolosità, fotografandone le zone oscure, la realtà geopolitica ed i nascenti contrapposti nazionalismi.
“Ventiquattro paesi, notate bene,non province, non dipartimenti governativi ed amministrativi, tracciati con la riga, ma formazioni organiche originarie, la cui storia spesso risale fino all’emigrazione dei popoli ed anche all’epoca romana.”
Le connessioni ed i problemi della convivenza fra diverse etnie e gruppi etnici e nazionalità richiedevano consapevolezza su più versanti “…altre meno incivili forme di consociazione umana matureranno nel grembo della storia e i confini scellerati spariranno veramente dagli emisferi“ scriveva.
Vivante era socialista, pacifista e credeva nei valori della solidarietà internazionalista e di classe, non resse il dolore e lo strazio che sopraggiunse quando nel 1914 scoppiò la guerra ed anche l’Italia entrò in conflitto, dopo aver rotto l’alleanza con l’Austria e schierandosi con le nazioni del Patto di Londra. E pensare che gli austriaci erano venuti in nostro soccorso dopo il terremoto di Messina del 1908, ci fecero avere centinaia di case fatte in legno da falegnami tirolesi e stiriani; Rilke era ospite a Duino dai principi Thurm und Taxis, Stifter scelse Trieste per finire la sua vita, Hamerling ci aveva insegnato..
Il libro del Vivante si articola in quattro capitoli, nel primo si descrive la storia politica della città e dell’entroterra dal 1799 al 1861, nel secondo si elencano cittadini, vicende, episodi politici, tra i quali ad esempio la nascita “esogena”dell’irredentismo (Imbriani) e si cita la vicenda Oberdank, nel terzo il Vivante esamina il fattore nazionale che intrecciava la questione etnica e quella politica confrontando i problemi del proletariato (multietnico) di Trieste con quello dell’etnia italiana; e constatava come la città fosse da tempo cosmopolita e disdegnasse soprusi o forzature nazionaliste, e peggio le tendenze separatiste. Nel quarto predomina l’analisi del “fattore economico” la creazione della rete ferroviaria, lo sviluppo del commercio marittimo, la nascita dei cantieri navali e dell’industria, ed egli accenna alla superiorità, per importanza economica e politica di Trieste nei confronti di Venezia e di tutti gli altri porti italiani! e cita Marx che sull’importanza del porto di Trieste aveva scritto nel 1857.
Vivante, nel 1905 lasciò il lavoro presso “Il Piccolo” quotidiano fondato dall’imprenditore Teodoro Mayer, tra i più attivi esponenti della Comunità ebraica triestina, per dedicarsi pienamente all’impegno politico nel gruppo dirigente del partito socialista. Non sappiamo in seguito a quale diverbio ruppe con la Comunità ebraica, cui apparteneva ma non rinnegò mai la sua fede politica e si impegnò nelle battaglie che il Partito Socialista portava avanti; nel 1906 cominciò a scrivere per Il Lavoratore (1), giornale di cui divenne caporedattore e si presentò come candidato alle elezioni locali. Fu quindi spesso polemico con l’irredentismo e difese quanti come lui volevano uno stato federalista ritenendo possibile una evoluzione democratica dell’Istituzione Imperiale.
Lo scoppio della guerra e poi l’ingresso dell’Italia nel conflitto lo colpì profondamente, come una smentita definitiva delle sue speranza e del venir meno del suo contributo a una politica di pacificazione e di riforma in senso federalista dello stato plurinazionale austriaco. Lo smarrimento per quanto stava accadendo, le notizie che giungevano dal fronte serbo e da quello russo dove si combatteva contro le truppe zariste allorquando nella fortezza di Leopoli vennero catturati o decimati migliaia di soldati, anche nostri concittadini inquadrati nell’Infanterieregiment n. 97 ”Georg Freiherr von Waldstätten”, furono per lui causa di depressione, sconforto, smarrimento ed erano certo notizie troppo dolorose che nessuna anima consapevole avrebbe saputo o potuto tollerare.
Fu quindi ricoverato nella struttura ospedaliera di san Cilino per l’aggravarsi di una crisi depressiva; ma qui si gettò dalla tromba delle scale dell’ospedale psichiatrico di Trieste e morì dopo pochi giorni di agonia dopo, il 1° luglio 1915.
(1) IL Lavoratore esce ancora oggi come periodico della Federazione triestina del Partito di Rifondazione Comunista di Trieste
Post Scriptum
Quello che si verificò negli ultimi giorni del gennaio 1918, con lo sciopero generale di massa nella cintura industriale di Vienna, che mobilitò oltre centomila operai della cintura industriale fu l’atto ufficiale e definitivo della sconfitta politica e militare dell’Impero. Insomma, verrebbe da dire, schematizzando gli avvenimenti, che se uno sciopero preannunciò la catastrofe, un altro sciopero la compi’.
Forse Werfel avrà ripensato anche a questo episodio mentre scriveva le novelle del “Crepuscolo di un mondo” ?
Può darsi, visti i malinconici accenti con cui scrisse quasi vent’anni dopo questo passo: “ Può darsi che abbiate ragione, non so. Io ad ogni modo provo un’impressione molto strana quando rivedo i paesi e le città, che una volta appartennero al mio vecchio mondo. Certo le Alpi del Tirolo, i laghi del Salzkammergut, i dolci orizzonti della Boemia, gli altipiani selvaggi del Carso, le rigogliose contrade dell’Adriatico, i palazzi di Vienna, le chiese di Salisburgo, le torri di Praga, tutto questo è rimasto lo stesso, almeno nel suo aspetto esteriore. Eppure no, anche l’aspetto
esteriore io stento molto a riconoscerlo immutato. Forse che non fa parte di esso lo spazio nel quale si sviluppa, l’aria che lo penetra, la luce che lo anima e, più di tutto il resto, l’occhio che lo abbraccia? Ciò che si è mutato, che si è mutato anche al di fuori dell’elemento umano, è ben
difficile da esprimere. Non voglio dire che tutte queste regioni e città abbiano perduto un determinato splendore. Forse è piuttosto un velo che hanno perduto, un velo benefico, un velo di Maia che celava molte cose. Questo però io so con certezza: una volta lì stava il mio mondo, col
quale ero particolarmente legato. Col più lontano villaggio di pastori nei Carpazi io sentivo ancora una certa parentela, non so perchè. Ora anche il luogo più vicino mi è estraneo, la mia propria città, la mia propria strada, la mia propria casa; non so perchè, in un senso molto complicato, sono diventato senza patria.”
(1)
Franz Werfel, nato a Praga, vissuto a Vienna, esule negli Stati Uniti, scrisse queste parole come prefazione ad una serie di racconti, ed è noto per l’epica narrazione de “I 40 giorni del Mussa Dagh” che esaltava la resistenza degli Armeni e ricordava il loro genocidio, “L’impero austriaco”, più di un saggio era un’accorata lamentazione dell’epoca in cui viveva, di quell’anno 1936, quando l’ombra nera della svastica stava per stendersi come una cappa di ferro e di piombo su ancora quanto rimaneva dell’antica Austria mitteleuropea. Anch’egli come Vivante, rimasto privo del suo mondo scelse però di andare altrove per sopravvivere. nel 1942 un altro scrittore austriaco, Stephan Zweig, esule in Brasile, scelse di darsi la morte piuttosto che assistere alle tragedie del secondo conflito mondiale ed alla possibile vittoria dell’hitlerismo.
Adalbert Stifter
Una epigrafe posta sulla facciata dell’ex Hotel de la ville sulla Rive di Trieste – l’edificio guarda il mare -, ricorda che nel luglio 1857 vi fu ospite Adalbert Stifter, uno tra i più grandi ed ammirati scrittori austriaci del tempo… “ Lo scrittore e pittore austriaco Adalbert Stifter (1805-1868) poeta ispirato alle bellezze della natura visse in questo palazzo durante il suo soggiorno a Trieste nel giugno 1857.Dedicato dal Governo regionale dell’Austria Superiore. Trieste 10 novembre 1989”.
Effettivamente Stifter, forse suggestionato dalle ottime impressioni avute dall’imperatrice Elisabetta, in visita (non ufficiale) alla città adriatica nel novembre 1856 e che vennero riportate dai più diversi organi di stampa, si era deciso di concedersi qualche giorno di riposo ed aveva così’trascorso a Trieste alcune indimenticabili giornate con la moglie Amalia e la figlia adottiva Juliana. Ed il 20 giugno, da alcuni giorni in città, si era recato in carrozza ad Opicina per poter ammirare la città dall’alto. E di ritorno ad Oberplan, a Klagenfurth – le circostanze non sono chiare- Stifter e la moglie adottarono Josefine, una piccola orfana, una trovatella, che divenne la loro seconda figlia. Proprio in quel’anno era stato pubblicato il romanzo “ La stagione tarda”, il suo capolavoro. Ma è il suo epistolario, quanto mai denso di note, noterelle, citazioni e appunti vari, che è in grado di darci un quadro complessivo del suo mondo interiore e spiegano l’evolversi della sua complicata esistenza che, da quanto scriveva, era agli antipodi del suo normale, quotidiano stato d’animo. Ben diverso dal “biedermeier “ che la critica posteriore gli avrebbe troppo frettolosamente attribuito. La sua figura è quantomeno “ autonoma “ e singolare, così come la sua vita ci racconta. La moglie, Amalia, era figlia di un ufficiale portabandiera, aveva avuto un’infanzia condizionata dai diversi spostamenti, per motivi di servizio,del genitore. A lei era sinceramente affezionato, però era stata una scelta di ripiego, in quanto egli a suo tempo avrebbe voluto sposare Fanny Greipl, una giovane di cui era perdutamente innamorato, ma che i suoi (di lei) genitori avevano destinato ad altri. Da quella prima delusione, si pensa fosse nata in Stifter la sua propensione all’alcol. ma intervenne, per fortuna, l’assennata ed energica Amalia Mohaupt, modista in un atelier viennese, incontrata nella capitale che lo convinse a distrarsi ed a levarsi dal cuore quel peso.
Stifter era nato a Oberplan, nel distretto di Cesky Krumlov, nella Boemia meridionale. Figlio di una famiglia contadina – il padre aveva lasciato l’aratro dei campi per lavorare in un opificio di tessitura e poi mettendosi in affari aveva saputo procurare alla famiglia una certa agiatezza – al piccolo Adalbert fu possibile accedere agli studi e frequentò nel 1818 il ginnasio benedettino di Kremsmunster. L’abbazia era stata fondata nell’alto medioevo, nel 777 ed ospitava entro le sue mura una fornita biblioteca. Qui Stifter lesse non solo di patristica e omiletica ma anche narrativa contemporanea: Herder, Goethe, Schiller e qui realizzò i suoi primi tentativi artistici cimentandosi nella lirica e nella pittura, da allora egli convisse con questa doppia personalità creativa: fu scrittore e pittore.
Nel 1826 Stifter aveva raggiunto Vienna, per compiervi gli studi universitari. Qui, come si è detto nel periodo in cui convisse con Amalia, iniziò a scrivere resoconti giornalistici e brevi articoli che poi avrebbe recuperato e stampato in una raccolta (“Vienna e i viennesi” ) nel 1844.
Dal 1830 al 1840 avendo sviluppato una certa perizia nelle arti figurative, si dedicò prevalentemente al paesaggismo e cercò di far fortuna con qualche esposizione o mettendo in vendita le sue tele, ma l’esito non fu dei più felici. Cercò quindi,nel 1832 Stifter di trovarsi un posto di insegnante all’Università di Praga, e poi al liceo di Linz. Possiamo infine datare nel 1835, regnante Ferdinando I°, le ragioni che indirizzarono Stifter a sviluppare la sua vera inclinazione, la scrittura, che non poteva non derivare dalle letture da cui egli si era inopinatamente allontanato, e che però aveva, infine, ripreso. Erano quelle opere, su cui si sarebbe formato il suo background culturale, i testi ormai classici del romanticismo: Tieck, Novalis, forse anche Joahann Heinse, quanto mai eccentrico, che demistificava la ristrettezza della morale comune, o i testi di Kaspar Lavater come il Geheimes Tagebuch, le cui pagine indagavano, un secolo prima della psicanalisi, le stigmate della contraddizione e del sentimentalismo dell’animo umano con fine sottigliezza psicologica. Nel 1837 Adalbert e Amalia si erano sposati sposano a Vienna, forse ispirato dalla moglie cominciò scrivere, di più e melio.
La sua prima novella fu “il Condor” che comparve nel 1840 sulle pagine della “ Wiener Zeitschrift” un giornale culturale e di moda austriaco pubblicato a Vienna che aveva una discreta platea di lettori (uscì dal 1816 sino al 1849). Nello stesso anno vedeva a luce il suo primo romanzo “ Fiori di campo”. Tra il 1844 e il 1850 Stifter diede alle stampe sei gruppi di “ Studien” (“ bozzetti“) che ancora oggi esprimono il meglio della sua produzione novellistica (non risultano a chi scrive traduzioni in lingua italiana ). Il leit motiv della narrazione stifteriana è quindi il paesaggio austroboemo da lui tanto amato, dove nelle notti buie il cielo è sempre stellato e le tenebre sono fugate dalle luci dell’alba, dai raggi del sole, dai colori dell’arcobaleno come egli ebbe modo di ricordare nel racconto breve “L’eclissi dell’8 luglio 1842”. Ma Stifter, schiettamente cattolico, non deviava in cerca di innovazioni o trasgressioni sia pure letterarie, e nell’eccellere tra gli altri scrittori del tempo non andava oltre il sentimentalismo oleografico e compiaciuto tipico del piccolo-borghese che si ripiega sulla propria individualità guardando alla propria esistenza monotona e tranquilla. Ed è in buona compagna: di Gotthelf, Grillparzer e Morike ad esempio; “ scrittori del Biedermeier” oscillanti tra la bonomia salottiera e bohemien contadina.
Ma Stifter primeggiava su tutti gli altri. La sua vena idillica, elegiaca, naturalistica, si tradusse progressivamente in composizioni che egli realizzava con innata celerità compendiandosi in una più completa produzione che, nell’arco temporale che va dal 1844 al 1850 lo fece conoscere ed apprezzare rendendolo famoso in tutta l’Austria. Il Principe di Meetternich gli affidò l’educazione del suo figlio maggiore. A Vienna gli si apersero le porte di tutti i più famosi club e circoli letterari ed egli divenne così amico di Franz Grillparzer drammaturgo e poeta (costui nel 1848 aveva finito di comporre “Libussa” la storia della mitica fondatrice di “Zlata Praha” ) e di Anastius Grun che, nato a Auersperg (Lubiana ) nel 1850, mentre Stifter otteneva un impiego come ispettore per le scuole elementari a Linz, dava alle stampe “ Die Volkslieder aus Krain “, i Canti popolari della Carniola.
In “ Cristallo di rocca” egli descrive il suo paese natio con queste parole: “. nelle alte montagne della nostra patria c’è un paesino con un campanile piccolo ma molto appuntito, che col rosso di cui sono dipinte le sue tegole spunta dal verde di tanti alberi da frutti e per questo suo color rosso si vede di lontano nell’azzuro smorto e vaporoso dei monti “ E’evidente la descrizione di Oberplan. Nel 1854 cominciò però a soffrire di disturbi nervosi, accompagnati da crisi depressive e sconforto, ma non era lo spleen dei francesi gli era stata diagnosticata una cirrosi epatica. E già soffiva anche di disturbi nervosi per cui nell’anno succesivo furono necesari alcuni viaggi di cura a Lackenhäuser nonché nella stessa Oberplan e Friedberg.
Al suo editore, Gustav Heckenast aveva scritto una lettera nei giorni in cui si era fermato a Trieste.” ho visto il mare. Non posso spiegarle aparole la sensazione che ho avuto. Tutto ciò che avevo visto sinora sulla terra, le Alpi, i boschi, le praterie, i ghiacciai etc, si riduceva a niente in confronto alla magnificenza del mare.
Nel 1858 mentre peggiorava la sua salute, minata dalla cirrosi, Stifter ebbe a subire due gravi lutti, che fecero precipitare la sua vita in un abisso di dolore da cui non sarebbe più riuscito a riprendersi: la morte della madre ed il suicidio della figlia adottiva Juliana. Nonostante tutto continuò a scrivere, il suo ultimo lavoro fu dedicato a ad un cavaliere vissuto nel XII secolo, Witiko.
Ma. cosa vide Stifter quella mattina del 28 gennaio 1868, quando scelse di togliersi la vita con un colpo di rasoio ? Le montagne della Boemia o il mare di Trieste ? La sala di lettura dell’abbazia benedettina o l’albergo di Trieste? Ebbe tre lunghissimi giorni per pensarci, rimanendo sofferente in una stanzetta dell’ospedale comunale di Linz, mentre il cancro e la cirrosi continuavano a tormentarlo debellando le ultime resistenze del suo corpo. Recriminando perché la sua mano, in quella occasione aveva tremato, e patì sino alla fine, solo, sperando di poter scorgere l’ultimo lembo di luce tramontare a Oberplan.
Jan Drda
Jan Drda era nato a Pribram, un piccolo borgo della Boemia centrale il 4 aprile 1915. Scrittore, dopo la seconda guerra mondiale si affermò tra i migliori rappresentanti della nuova generazione letteraria, orientata a a sinistra e per il rinnovamento della nazione. Aveva iniziato scrivendo novelle ma si era affermato con un romanzo, nel 1940, dal titolo “La cittadina sul palmo della mano”, una realtà frammista a favola con cui aveva saputo descrivere realisticamente la vita di un piccolo centro, e successivamente il racconto d’avventure “Il vagabondaggio di Petra Sedmilhare”,nel 1943.
Nel 1949 era stato nominato presidente dell’associazione Cecoslovacca degli scritori. Sono noti i suoi racconti sulla lotta partigiana, soprattutto “Nema Barikada/ Barricata muta”, del 1946 che esaltava la resistenza popolare antinazista che trovò il suo culmine nell’esecuzione di Reynard Heydric “la besta bionda”, l’ideatore della “soluzione finale” per il popolo ebraico a Wansee.
Notevoli nel 1941 il dramma “Come anche noi li rimettiamo”,e il romanzo psicologico “Ziva Voda” che racconta il percorso di crescita interiore di un giovane boemo, un vero e proprio bildungsroman in cui assistiamo alle varie tappe, dal periodo dell’infanzia a quello dell’adolescenza del protagonista, Jeník, e poi la maturazione del suo percorso indirizzato all’estetismo artistico. Il lettore quindi può vivere, immedesimandosi nel vissuto del giovane uomo, le perdite, le delusioni, gli incontri e le personalità che concorrono a formare il carattere e l’indole della sua anima. La favola drammatica “Giochi con il Diavolo” fu portata sulla scena nei teatri e “Dalskabaty, il villaggio del peccato, ossia il diavolo dimenticato”, del 1959 divenne un film nel 1976. La sceneggiatura e la regia di questo film vanno menzionate perché accentuano ancora di più questo aspetto non secondario della prospettiva di Drda, la cura e l’attenzione quasi amorevole al mondo popolare dei piccoli artigiani, dei piccoli contadini e dei lavoratori della terra, per non parlare delle comunità che vivono nella nuova realtà sociale di trasformazione progressiva. Il graduale “declassamento” del vecchio diavolo,che simula la sconfitta borghesia, se da un lato ne umanizza le sembianze rendendocelo simile, dall’altro lo stigmatizza come incarnazione delle nostre miserie e perduranti bassezze e opportunismi mentre nel paese le giovani generazioni costruiscono il socialismo. Drda ebbe insomma il merito di creare (inconsapevolmente?)una fiaba popolare che oggi non potrebbe venire più nemmeno pensata.
Jan Drda inoltre non nascose mai le sue simpatie comuniste, fu a capo del comitato d’azione del Fronte nazionale del Sindacato degli scrittori cechi ed aveva aderito al PCC sin dai tempi della clandestinità, ben prima della vittoria finale con la Liberazione di Praga nell’aprile 1945. Non sappiamo se conobbe o frequentò il milieu poetico/politico dove si trovavano a convivere altri, meno famosi ma più meditabondi e critici creatori di favole, incubi e leggende, come Vladimir Holan, Josef Hora. Benjamin Klicka, Josep Kopta, etc. Certamente il suo nome compare accanto a quello degli altri scrittori del “ realismo socialista” che non possiamo non menzionare: per l’appunto Vaclav Rezac, e poi Miroslav Hanus, Alena Beranskova, Jan Octenajek, Karel Placnik, Zdenek Pluhar, Alexei Pludek.
Nel 1948 Drda firmò l’appello degli scrittori e poeti comunisti “Avanti! Non un passo indietro!”, ricoprì importanti incarichi culturali e politici e nelle elezioni del 1948 venne eletto all’Assemblea nazionale per il PCC nella circoscrizione elettorale di Praga. Drda aveva sostenuto e supportava il pronunciamento dei Consigli di fabbrica e delle Commissioni operaie a sostegno di un governo progressista guidato da Klement Gottwald che così divenne presidente . Fu poi eletto in parlamento nel 1954 e dal 1949 al 1956 fu presidente della Associazione degli scrittori cecoslovacchi. Drda infine si oppose all’intervento “normalizzatore” del 1968 che stroncò la Primavera di Praga e alla successiva occupazione sovietica, per cui venne licenziato dal suo incarico nel 1969. Il 25 agosto 1968, sul Rude Právo, aveva scritto un articolo in merito all’arrivo dei soldati sovietici, ed all’atteggiamento da tenere nei loro confronti, intitolato “Non torcere loro un capello, non dare loro una goccia d’acqua”. Molte persone seguirono questo messaggio e interpretarono creativamente questa indicazione, infatti spostarono tutta la segnaletica stradale, da Michle e dai rioni periferici, sino a Piazza Venceslao; molte auto ebbero sgonfie le ruote e si misero i tram come barricate, ostacolo ai carri armati. nessuno diede un bicchiere d’acqua agli invasori, che con quella stolida prova di forza avevano distrutto e reciso un legame di solidarietà che teneva assieme la storia della resistenza antifascista cecoslovacca e l’amicizia con il paese dei Soviet. Per lo strazio e lo strappo che allora si consumarono Drda morì per un infarto il 28 novembre 1970 al volante della sua auto mentre da Dobris si recava a Praga. Al suo funerale parteciparono circa duemila persone. Una targa bronzea ne ricorda la figura in piazza Jirasek, nel centro di Praga.
Marino Calcinari