Non si era mai visto che un amministratore delegato della Rai, o un suo equivalente, intervenisse con un comunicato non per far conoscere la posizione dell’azienda rispetto ad una vertenza sindacale, ma per dichiarare e precisare la “linea politica” del Servizio pubblico radiotelevisivo.
La censura si era già vista, invece. Anche in passato. Ma mai così “spudorata” e arrogante, neanche all’epoca del controllo democristiano della Rai. Anche perché allora ad ogni tentativo di censura seguivano mobilitazioni di autori, intellettuali, giornalisti, sindacati.
Non si era mai visto un consiglio di amministrazione silente e quindi corresponsabile nei confronti di una dichiarazione così grave.
Non si era mai visto un conduttore o una conduttrice ritenere di dover così supinamente dichiarare la propria, e a suo dire anche la nostra, condivisione di quella linea politica. Tra parentesi: se invece avesse avuto il “coraggio” di dialogare con Ghali esprimendo e argomentando le proprie legittime opinioni sarebbe stato uno straordinario – nel senso di non ordinario – esempio di una televisione plurale e pluralistica.
Ma la cosa ancora più grave, a mio parere, è che non si era mai visto un servizio pubblico radiotelevisivo assumere esso stesso il ruolo di soggetto politico, autorizzandosi così a poter permeare con la propria linea politica tutte le sue trasmissioni. Aggiungo: a prescindere dalla linea politica. E dico a prescindere non perché non sia gravissimo il contenuto di quella dichiarazione ufficiale, fatta mentre è in atto il genocidio di un popolo, ma perché se non riteniamo il principio stesso inaccettabile dichiariamo anche noi la morte del servizio pubblico.
Credo che mai come oggi sia indispensabile, direi vitale per la democrazia, capire cosa è e cosa deve essere un servizio pubblico radiotelevisivo e come si è potuti arrivare a questo punto. Fino a Sanremo nel silenzio generale, silenzio rotto solo dalle forze politiche e solo per difendere qualche giornalista della propria area. Come si è potuti arrivare cioè alla “legittimazione” – perché così è nei fatti – dell’occupazione da parte di un governo di una azienda pubblica concessionaria di un “servizio pubblico”.
Se si ripercorre la storia della Rai dopo la riforma del 1975, delle progressive trasformazioni della sua struttura aziendale sempre più piramidale e monocratica, del suo continuo degrado culturale, della perdita delle professionalità, del suo “impoverimento” complessivo, della sua progressiva e inarrestabile omologazione alle televisioni private con la ricerca spasmodica di “audience”, si capisce quanto e come si sia arrivati oggi, di fatto e nei fatti, ad una sorta di “privatizzazione governativa”.
Da una Rai i cui presidenti – non amministratori delegati – erano personalità della cultura del livello di Paolo Grassi, Walter Pedullà, Sergio Zavoli, Roberto Zaccaria, Enzo Siciliano, si è passati alla Rai “dei professori” con la nomina da parte del governo Ciampi dell’economista Claudio Demattè, contro il quale si dimisero Sandro Curzi e Angelo Guglielmi, e si è finiti con la consegna della gestione della Rai nelle mani di un amministratore unico con pieni e assoluti poteri nominato dal governo di turno e con un ristrettissimo consiglio di amministrazione senza reali poteri. E una presidente di pura rappresentanza, e comunque sempre scelta tra i dirigenti d’azienda.
L’appropriazione partitica della Rai è potuta avvenire quando e proprio perché parte della “sinistra” ha finito per sposare modelli e valori che della sinistra non sono mai stati. Perché è diventata trasversale agli schieramenti l’idea della politica come pura gestione dell’esistente e del governo come puro esercizio del potere, la gestione collettiva come intralcio da eliminare. Perché tutte le “controriforme” della Rai attuate finora da tutti i governi, di centro destra e di centro sinistra, sono state tutte fortemente ancorate all’idea della necessità dell’uomo forte al comando come soluzione di tutti i problemi, nella concezione che la democrazia e la partecipazione rappresentino in realtà un impedimento e un ostacolo alla gestione di una azienda, anche di quella pubblica, anche di quelle che producono cultura. È in questa direzione che vanno tutte le riforme messe in atto da Veltroni di trasformazione di tutte le istituzioni culturali pubbliche in fondazioni di diritto privato, gestite da manager e cda nominati dai governi.
L’attuale appropriazione del servizio pubblico radiotelevisivo – cioè della più grande azienda pubblica produttrice di “senso” del nostro paese – da parte del governo di destra è potuta avvenire grazie alle riforme volute dal centro sinistra e perché è stato proprio il centro sinistra ed il Pd con il governo Renzi a riportare la Rai sotto il diretto controllo governativo.
Per maggiore chiarezza: la legge del 1975 di riforma della Rai diceva che “La diffusione … di programmi televisivi … costituisce, ai sensi dell’articolo 43 della Costituzione, un servizio pubblico essenziale ed a carattere di preminente interesse generale, in quanto volta ad ampliare la partecipazione dei cittadini e concorrere allo sviluppo sociale e culturale del Paese in conformità ai principi sanciti dalla Costituzione. Il servizio è pertanto riservato allo Stato”. E che “L’indipendenza, l’obiettività e l’apertura alle diverse tendenze politiche, sociali e culturali, nel rispetto delle libertà garantite dalla Costituzione, sono principi fondamentali della disciplina del servizio pubblico radiotelevisivo”.
E la grande rivoluzione di quella riforma consisteva nello stabilire che proprio perché concessionaria di un sevizio pubblico “essenziale e di preminente interesse generale”, la Rai dovesse rispondere non più al governo, come era stato fino ad allora, ma al Parlamento, cioè all’istituzione che rappresentava tutte le cittadini e tutti i cittadini. Dovevamo aspettare un presidente del consiglio del Pd per fare ritornare la Rai a prima del 1975.
Quella riforma, che pure divise l’azienda per aree “culturali”, portò alla direzione della Prima rete un democristiano come Scarano che mandò in diretta in prima serata il processo di Catanzaro, alla direzione della Seconda rete un socialista come Fichera che consentì la nascita di programmi come “Processo per stupro”, e che progettò una Terza rete (diretta sempre da un democristiano, Rossini) nazionale e decentrata che doveva diventare non solo voce ma punto di riferimento di tutte le forze creative e produttive legate ai territori. Una riforma che prevedeva la costituzione di “nuclei ideativi-produttivi” nell’idea che per raccontare le storie di questo paese fosse necessario un lavoro comune tra i “professionisti” della comunicazione e chi di quelle storie era protagonista.
Tutto questo in tutti questi anni è stato cancellato. Oggi la lottizzazione, l’ingerenza partitica e l’ “appropriazione” governativa della Rai in modo incontrollato e incontrollabile sono potute diventare realtà concreta e “legittimata” proprio perché si sono voluti restringere e accentrare i poteri in poche mani, si sono eliminate tutte le “regole” – e le strutture – in grado di garantire autonomia culturale, libertà creativa e professionalità e non le “fedeltà”, perché si è uccisa qualsiasi possibilità di partecipazione alla gestione e di verifica democratica da parte delle forze sociali, culturali e professionali.
Il “senso comune” di oggi, il successo e la competizione individuale ad ogni costo e sopra ogni cosa, la prevaricazione dell’io sul “noi”, la paura dell’altro da sé, la cancellazione della memoria storica, anzi la riscrittura della storia, l’oggi come unica realtà da poter vivere, la paura dell’altro che porta ad erigere muri, la violenza individuale e collettiva e la repressione come “normale” soluzione dei problemi e dei conflitti, l’immigrazione come problema da contenere a tutti i costi se non da eliminare, tutto questo è stato costruito con un lavoro di anni, attraverso una offerta culturale e informativa che di quei valori si è fatta portatrice.
“Valori” fatti propri anche da quella che ancora si autodefinisce sinistra, e che ha sposato il mercato come unico filtro e meccanismo regolatore e i criteri di efficienza, efficacia ed economicità applicati anche alla cultura e che – nella smania distruttrice della propria storia – ha fatto propri “valori” come sicurezza, mobilità, precarietà, competitività. E oggi persino guerra.
Che ha privatizzato ciò che è un diritto e non è privatizzabile, cioè il sapere, legando la conoscenza all’impresa e la produzione culturale ed artistica al mercato.
L’oggi – si leggeva in un Rapporto del Censis sulla comunicazione in Italia di qualche anno fa – è il risultato “di un processo di lungo corso che, scorrendo come una profonda corrente carsica sotto la superficie degli eventi, compendia mutamenti strutturali di lunga durata, la metamorfosi di soggetti collettivi, dei modi di sentire e di pensare, del clima sociale e culturale, del vissuto quotidiano individuale”.
Allora oggi l’unico modo per liberare la Rai dai partiti e prima di tutto dal governo, non sta nella sua privatizzazione, come qualcuno chiede, o nel renderla ancora più uguale e indistinguibile dagli altri soggetti privati trasformandola in una fondazione di diritto privato come chiede il Pd in una delle sei proposte di riforma presentate in Parlamento, ma al contrario nel ristabilire la centralità del ruolo del servizio pubblico all’interno del sempre più complesso sistema delle comunicazioni, nel ridare ad una azienda totalmente pubblica il suo ruolo di specchio e voce del paese reale.
Con regole che rendano trasparenti, pubblici e partecipati i criteri di nomina: dai dirigenti ai dipendenti. Stabilendo che siano i lavoratori della Rai, quelli dell’informazione, le forze sociali, culturali e professionali di tutta la produzione culturale (dall’editoria al cinema, dall’audiovisivo al teatro e alla musica, e così via) a proporre rose di nomi sulle quali il Parlamento dovrà decidere. Riportando il dibattito politico sul vero nodo centrale: quale modello organizzativo complessivo si deve dare un servizio pubblico per garantire l’autonomia culturale delle sue diverse strutture, degli operatori che vi lavorano, all’interno di quel ruolo “volto ad ampliare la partecipazione dei cittadini e concorrere allo sviluppo sociale e culturale del Paese… nel rispetto delle libertà garantire dalla Costituzione”, definito dalla riforma del 1975.
Una azienda di “servizio pubblico” quindi pluralistica e diversificata nella sua offerta culturale complessiva, sganciata dalle logiche di ascolto e di mercato e invece strettamente finalizzata all’utile culturale e dunque sociale.
Stefania Brai