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Regolarizzazione permanente: una proposta di rottura

di Stefano
Galieni

E se invece di accettare l’agenda politica di chi vuole parlare unicamente di migranti e sbarchi, cercassimo di affrontare la realtà?

Da troppo tempo, almeno dal 2011 – anno delle “primavere arabe” – la narrazione mediatica e gli interventi politici in merito all’immigrazione hanno avuto pressoché un solo orizzonte. Gli arrivi, numericamente contenuti, ma resi “iper-visibili” dai grandi media, di persone che fuggivano da dittature, guerre, repressioni, ha fatto sì che ci si sia occupati pressoché esclusivamente di coloro che giungevano nei porti, soprattutto del Meridione. L’obiettivo è divenuto quello di disincentivare con ogni mezzo le partenze, di aumentare le risorse per attuare respingimenti collettivi, bypassando la legalità internazionale, di criminalizzare chi solidarizza o aiuta naufraghi o richiedenti asilo, immediatamente etichettati con l’appellativo, giuridicamente falso di “clandestini”. Come abbiamo avuto già modo di affermare, la nascita dell’“Europa fortezza” è ancora più antica, se ne può definire la nascita con la creazione dello “Spazio Schengen” nel 1985, ma ci sono voluti anni prima che tale area, che prevede la libera circolazione nei Paesi UE e che inizialmente comprendeva solo Francia, Germania e BeNeLux si estendesse a gran parte degli Stati membri. Inutile elencare i diversi fattori che hanno, in maniera sempre più pervasiva, alzato steccati nei confronti di chi giunge da altri Paesi: la stessa creazione dell’Agenzia Frontex nel 2004, creata allo scopo di “salvaguardare i confini da ingressi illegali”, si è andata via via potenziando, contribuendo a far divenire questioni come l’esternalizzazione delle frontiere un vero e proprio business economico, politico e militare. Ne è stato esempio prima il Patto di amicizia fra la Libia di Gheddafi e il governo Berlusconi, poi, in un crescendo senza limiti, gli accordi UE con la Turchia per bloccare, in cambio di soldi, la fuoriuscita di profughi siriani. Intanto nel 2008 si cominciavano a sentire gli effetti della prima crisi economica da cui non si è mai usciti. L’incremento degli ostacoli per chi provava ad entrare senza un visto regolare ha riguardato tutto il continente, ma paesi come l’Italia e la Grecia, un tempo considerate mete per stabilizzarsi, sono ben presto divenute unicamente tappe di un percorso da concludere in Paesi come alcuni del Nord Europa, dove c’erano ancora maggiori prospettive di trovare una buona sistemazione.

Va precisato che, soprattutto in Italia, molto prima della crisi, numerosi fattori hanno fatto sì che i salari rimanessero compressi. Se a metà degli anni Ottanta il loro potere d’acquisto era ancora in crescita, la vittoria del “tatcherismo”, la quasi totale assenza di conflittualità sindacale, l’imporsi come unica religione possibile del libero mercato, hanno fatto sì che, mentre nel resto d’Europa c’erano adeguamenti salariali, da noi avveniva l’esatto opposto. A questi si è sommata in maniera pervasiva la frammentazione del mercato del lavoro. I contratti nazionali di categoria sono stati ben presto bypassati da forme di assunzione basate sempre più sul precariato, sull’esternalizzazione ad agenzie, sulla distruzione anche della certezza del “posto fisso”. Questo ha colpito lavoratrici e lavoratori autoctoni ma, in maniera ancora più dura, chi si è ritrovato stretto nel legame fra contratto di lavoro e permesso di soggiorno. Chi era “regolare” è divenuto merce con data di scadenze dei singoli imprenditori. Peggiore il destino di chi non aveva titoli di soggiorno.

Già dal 2012 il saldo fra persone che arrivavano e italiani o “stranieri” che se ne andavano dal bel paese, ha cominciato ad avviarsi verso uno standard negativo. Il solo ostacolo che ha trattenuto molti è il Regolamento di Dublino che obbliga chi chiede asilo o protezione, a farlo nel primo paese di approdo.

Ma chi da anni, spesso con poco percepibili colorazioni politiche diverse, governa l’Italia, punta i fari sui gommoni di chi fugge dalla Libia o da chi a piedi attraversa la rotta balcanica e in tal modo rimuove la questione più sostanziosa.

Secondo stime approssimative, per difetto, vivono in Italia fra le 400mila e le 600mila persone prive di documenti che ne garantiscano la presenza legale. Responsabilità in gran parte di una legge fallimentare come la Bossi-Fini, che lega la presenza nel territorio nazionale ad un contratto di lavoro in essere, (se si resta un anno disoccupati si dovrebbe “tornare a casa”), una legge che ha favorito l’impiego di manodopera più ricattabile al nero, che non ha permesso neanche un facile incontro fra domanda e offerta di lavoro, che ha favorito solo meccanismi di profitto spesso illecito, caporalato, più o meno mascherato, condizioni di invisibilità che hanno portato anche tante persone a vivere ai margini, nelle nicchie di economia illegale, senza potersi progettare un futuro. Percorso che ha mantenuto nella precarietà le vite di persone anche poi nate in Italia, che non si sono potute inserire, se non utilizzando i sempre più asfittici “decreti flussi”, in condizioni di “irregolarità” e la cui vita è perennemente appesa ad un filo. Una condizione nascosta, celata, utile solo a garantire ampie possibilità di sfruttamento. Partendo da questo assunto difficilmente confutabile, perché allora, come sinistra, non avanzare una proposta di legge, magari di iniziativa popolare, o da far divenire Pdl se assunta da qualche parlamentare di semplice buon senso? In sintesi si tratterebbe di garantire la possibilità di regolarizzare la propria presenza in maniera permanente, magari definendo alcuni parametri.

Si tratterebbe di garantire un permesso di soggiorno al cittadino straniero presente in Italia in modo irregolare, qualora ricorrano specifici requisiti quali ad esempio a) un rapporto di lavoro in corso, anche in assenza di un contratto scritto, con l’obbligo da parte del datore di lavoro di pagare una somma forfettaria, di non licenziare per un tot periodo di tempo la persona assunta, e versare i successivi contributi (ne guadagnerebbe anche il fisco); b) la dimostrazione della propria indipendenza economica e del possesso una residenza definita (ovviamente dovrebbero essere eliminate le restrizioni che impediscono di averne una), c) esistenza di un legame affettivo in Italia, d) presenza stabile (periodo da definire) in un luogo del Paese, tanto da esserne riconosciuto come parte integrante e attiva, e) condizioni di particolare vulnerabilità, anche questa da dimostrare attraverso autocertificazione, f) non aver subito in via definitiva, condanne gravi (pene superiori ai 5 anni o reati contro la persona) tali da costituire, con la propria presenza, problemi di pubblica sicurezza, g) in caso di compresenza di un nucleo familiare, garanzia di un percorso scolastico per eventuale prole, di partecipazione a corsi di italiano per se e per il/la coniuge, di percorsi di avviamento lavorativo. Andrebbe considerata sufficiente almeno una di queste e di altre specificità su cui aprire un ragionamento, come elemento valido per concedere un titolo di soggiorno che, in base agli anni di presenza, anche non regolare, si possa trasformare presto in carta da lungo soggiornanti, ovvero di durata illimitata.

Sia ben chiaro che, date le esperienze passate, non si ritengono sufficienti le cd “sanatorie”, strutturate sulla base dell’autodenuncia e che partono dal dover dimostrare l’esistenza di un contratto di lavoro. Simili provvedimenti hanno portato unicamente soldi ad imprenditori senza scrupoli, alla stipula di contratti di lavoro inesistenti, a condizioni di subalternità fra chi vuole regolarizzarsi e chi ha, su di lei/lui un potere contrattuale totale. Si tratta di provvedimenti, l’ultimo è quello del giugno 2020 (decreto rilancio), peraltro limitato a poche categorie di lavoro (il contratto come unica via di uscita) che hanno intasato le prefetture – poco più del 50% delle pratiche è stato ad oggi esaminato – e che ha registrato numerose truffe ai danni tanto di coloro che chiedevano di essere “sanati” quanto di datori di lavoro che si sono affidati ad inesistenti agenzie. Quindi: percorso permanente, non legato unicamente al lavoro, o peggio ancora ad alcuni comparti, sburocratizzazione delle procedure garantendo un ruolo attivo di chi vuole rendersi regolare, sono le gambe su cui non realizzare un colpo di spugna ma su cui definire politiche valide anche per il futuro.

Va chiesto ad esperti in materia, coinvolgendo soprattutto le persone attive con background migratorio, di perfezionare ed ampliare la casistica qui appena accennata per giungere ad un progetto compiuto in grado di assicurare tale possibilità di regolarizzazione al maggior numero di persone possibili. Per rendere ancora più semplice e attuabile tale percorso sarebbe prezioso coinvolgere le amministrazioni locali nell’erogazione stessa dei permessi di soggiorno, lasciando al ministro dell’Interno e a quello della Giustizia, il solo compito di verificare se esistano situazioni penali pendenti tali da dover interrompere il percorso di regolarizzazione (ovviamente non comminando espulsioni) fino a sentenza definitiva.

Una proposta di questo tipo, ripetiamo di puro buon senso, magari realizzata in accordo con i consolati e le ambasciate dei paesi di provenienza delle persone richiedenti, non farebbe altro che facilitare un percorso di sicurezza sociale di cui beneficerebbero innanzitutto le persone immigrate coinvolte ma di cui si avvantaggerebbe alla fin fine anche la tanto declamata richiesta di “legalità” che viene utilizzata sempre in maniera impropria. La persona così regolarizzata, avrebbe un nome, un cognome, un indirizzo, un documento di identità e non solo sarebbe sottoposta a minori possibilità di sfruttamento lavorativo o, come spesso oggi capita costretta a vivere in abitazioni senza contratti di locazione.

Come accade per ogni cittadina/o italiana/o (latitanti esclusi) si creerebbe un rapporto di minore tensione con le autorità, si getterebbero insomma le prime basi di quella convivenza di cui l’intero Paese beneficerebbe, fondata su una maggiore trasparenza. Questo significherebbe però considerare un numero di persone che complessivamente rappresenterebbero una media città italiana, come individui con diritti esigibili e doveri a cui attenersi, andando ad attenuare quelle condizioni di subalternità che caratterizzano il nostro Paese. Si tratterebbe di compiere una scelta pragmatica, proiettata verso il futuro, che danneggerebbe chi, attraverso il lavoro nero froda il fisco e sfrutta le persone, chi gestisce la criminalità organizzata e le sue attività, chi guadagna ancora attraverso il mantenimento di una condizione di perenne ed inutile emergenza. Dalle istituzioni europee potrebbero certamente giungere proteste eppure un simile meccanismo, se attuato in tutta l’UE, porterebbe i medesimi benefici. Toglierebbe consenso alle destre nazionaliste perché mancherebbe il capro espiatorio, farebbe saltare le teorie farneticanti che vedono nei lavoratori migranti presenti irregolarmente “l’esercito industriale di riserva” di marxiana memoria (ah, se si studiasse seriamente il saggio di Treviri), toglierebbe efficacia all’incubo della “sostituzione etnica” perché rivelerebbe in pieno come la percentuale di persone giunte da altri paesi sia in perfetta linea con il resto del continente. Ma una sinistra radicale non dovrebbe ripromettersi di produrre simili effetti? Ne guadagnerebbe, sono gli economisti liberali a dirlo, persino lo sviluppo economico perché aumenterebbe la circolazione di beni e crescerebbe il consumo. Da ultimo, se un simile provvedimento non si esaurisse in una temporanea “sanatoria”, ma divenisse meccanismo stabile di ingresso legale di persone nel Paese, si scoprirebbe anche che simili scelte non porterebbero a nessuna “invasione”. Chi vuole andarsene dai propri Paesi ne cerca ormai altri, anche al di fuori dall’UE, in cui si delineano prospettive migliori. E se questo si realizzasse diminuirebbero anche i tentativi di giungere in Italia rischiando la vita su imbarcazioni di fortuna. Diventerebbero inutili tutti i decreti sicurezza che da tanto tempo imbrattano la nostra costituzione. Sia ben chiaro, non cesserebbero le partenze né sparirebbero i trafficanti di carne umana che le scelte governative italiane ed europee hanno alimentato in questi anni. Ma toglierebbero ai criminali una fetta non marginale di profitti.

Il senso di questo testo, preceduto da una lunga ma necessaria premessa, è quello di provare a declinare una diversa agenda politica rispetto a quella che viene imposta. Non vuole avere, nelle intenzioni dello scrivente, alcuna intenzione di approccio compiuto ma sollecitare l’apertura di un dibattito che manca nell’aria stantia che si respira da troppo tempo. Nel nostro mondo ci sono tante e tanti che da decenni si occupano di immigrazione, di politiche sociali e del lavoro, di scuola e di cultura, di economia e di sociologia. Un mondo che potrebbe arricchire queste brevi note e trasformarle in tema su cui confrontarsi con l’opinione pubblica.

Stefano Galieni

immigrazione, Regolamento Dublino
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