Il recente lancio della rivista trimestrale Quistioni – oltre ad essere un evento di grande importanza in un panorama in cui la cultura politica mostra palese povertà – evoca riflessioni di carattere semantico-lessicali. Ovviamente la scelta di un titolo che riporta direttamente al lessico gramsciano è pregna di significato politico e culturale, oltre a rappresentare una impegnativa promessa editoriale. Ma induce anche a ripensare al destino della versione più moderna di quella parola: “questione”. Per anni è stata usata da politici e pensatori, non solo di sinistra, per indicare nodi non sciolti, problemi irrisolti, dell’economia e della società: “questione agraria”, “questione meridionale”, “questione giovanile”, ecc.
Per molti anni, alla parola “questione”, che via via ha assunto una connotazione politica, si è affiancata la parola “problema”, anche applicando, spesso inconsapevolmente, alla politica il suo significato ambivalente: quello matematico e quello psicologico. Il problema matematico presuppone di avere dei dati, partendo dai quali e applicando delle regole o formule (magari ancora da scoprire) si arriva a una soluzione. E se si cambiano le formule la soluzione può essere diversa. Epperò, la psicologia umanistica, in primo luogo Carl Rogers, ci dice – chiedendo venia per la semplificazione – che se di un cosiddetto “problema” si conoscono i dati, quello non è un vero problema; basta conoscere o scoprire la formula per la sua soluzione ed è fatta. Il vero problema sussiste quando non ne si conoscono i dati, quando ci si confronta con una situazione di disagio, di malessere, senza conoscerne bene la natura e le cause (i dati). E allora la terapia (soluzione) non può che partire da una analisi che ci conduca a scoprire e capire i dati.
Proseguendo nella semplificazione, la differenza potrebbe essere quella che passa tra un operaio comunista e una partita IVA con vagheggiamenti imprenditoriali. Ambedue soffrono di condizioni di disagio comparabili. Il primo, però è capace di fare un’analisi della propria condizione, che lo porta a individuare nello sfruttamento capitalistico l’origine del suo disagio. E con questo sii trova già a metà strada. A quel punto, per la soluzione del problema basta essere capaci di fabbricarsi la medicina giusta. Peraltro, se la sua analisi (ricerca dei dati) sarà stata marxianamente corretta, la medicina la scopre e la fabbrica (con le lotte) man mano che procede con l’analisi. La partita IVA, invece, non potrà mai trovare soluzione al suo problema, che rimarrà allo stadio esistenziale e non scientifico, se non riuscirà a capire che anche il suo disagio ha, con modalità diverse, la stessa origine di quella dell’operaio. Anche lui è uno sfruttato dal capitale; ma mentre l’operaio (comunista), con la sua analisi (coscienza di classe), i dati del problema li conosce già, la partita IVA deve cominciare da un paziente lavoro di analisi per scoprirli.
Perché questa divagazione semantica? Perché oggi queste due parole, “questione” e “problema”, che pure potrebbero indurre a riflessioni non banali sul rapporto tra lessico e realtà, non esistono più nel linguaggio dei politici e dei giornalisti che parlano di (e fanno) politica. Sono state eliminate e soppiantate dalla parola “tema”.
Certamente c’è stato uno scivolamento lessicale che ha fatto diventare, prima di tendenza, poi usuale la parola “tema”. Come fu con il “piuttosto che” usato con il significato disgiuntivo di “o” “oppure”, invece di quello avversativo di “anziché”. Un vezzo importato dal gergo della borghesia milanese, diventato poi standard televisivo nazionale. Un po’ come l’epidemia della panna o della rucola in cucina. Solo che quelle, con un minimo di elevazione della cultura gastronomica nazionale, sono mode tramontate. Probabilmente non sarà la stessa cosa per quelle lessicali.
Anche nel caso di “tema”, l’uso inappropriato al posto di “questione” o di “problema” è evidente. Nella lingua italiana “tema” è usato correttamente solo nel significato di “argomento”; anche nell’uso scolastico della parola è inteso come argomento da sviluppare nello “svolgimento”. Basti pensare all’espressione comunemente usata a scuola: “Tema su un problema di attualità”.
La questione vera è che non si tratta solo di una impropria ma innocente deriva semantico-lessicale. C’è, consapevolmente o no, un uso politico delle parole. E in questo caso, il colpo è grosso. In una società appiattita dal pensiero unico (che non più quello dei Chicago Boys, ma sempre unico rimane), nella cosiddetta “società del controllo”, che deve essere sorvegliata, disciplinata e, soprattutto, rassicurata, dove non c’è spazio nemmeno per il dubbio, non debbono esistere né questioni né problemi, ma solo “temi”. La disoccupazione, la povertà, i Sud, le guerre, non sono più questioni, non sono più problemi, ma solo “temi”, argomenti di cui chiacchierare in televisione o sui social.
Per questo, ben venga la rivista Quistioni, che ci porterà alle vette gramsciane ma con i piedi ben saldi nelle “questioni” e nei “problemi” che non hanno mai finito di assillarci.
Andrea Amato