Dopo anni di mezze verità e menzogne prive di fondamento scientifico, quando si parla di leggi speciali per il Sud, per Napoli in particolare, il pensiero di chi ascolta corre subito al Mezzogiorno parassita che vive a spese del Nord.
In realtà, un tentativo di inserire correttamente nella storia dello sviluppo economico italiano gli obiettivi politici complessivi che ispirarono quelle leggi non si è mai fatto e siamo fermi allo stereotipo della «città di plebe», borbonica quasi per vocazione, brulicante «di pitocchi, di scugnizzi, di camorristi e di prostitute», avvilita dall’eterno malcostume politico e dal minaccioso binomio licenziamento-disoccupazione. Dalla memoria collettiva e dai libri di storia sono spariti eventi che segnano profondamente la realtà sociale del Regno del Sud e della sua ex capitale: le promesse garibaldine tradite a Bronte, narrate negli anni Settanta da un bellissimo film di Florestano Vancini, l’eccidio di Pietrarsa, la camorra arruolata nella Guardia nazionale, la normalizzazione imposta con le baionette, la legge Pica, i legittimisti passati per le armi senza processo e la deindustrializzazione, realizzata dopo l’Unità con le modalità di una colonizzazione.
Si prenda, per esempio, la legge n. 351 dell’8 luglio 1904, il primo, ambiguo passo verso il cosiddetto ‘risorgimento’ industriale di Napoli. Una legge per la quale una ricerca a carattere locale sarebbe fine a se stessa. Se a inizio del Novecento, infatti, Napoli non è più la capitale di uno Stato, è certamente capitale della più ampia area d’arretratezza economica del Regno d’Italia. È evidente, quindi, che solo una corretta individuazione delle linee di tendenza e delle scelte di fondo che caratterizzarono lo sviluppo economico italiano dai primi anni dell’unità all’età di Giolitti può servire a comprendere la funzione reale che, in quello sviluppo, era chiamato ad assumere il tardivo processo d’industrializzazione avviato nel Napoletano.
Questi brevi appunti, utili all’eventuale elaborazione di un discorso più articolato sulla storia dell’industria in Campania, intendono solo mettere a fuoco alcuni aspetti della questione, partendo anzitutto da quella linea di tendenza della ricerca storiografica, che addebita lo sviluppo dualistico dell’economia italiana alla mancata attuazione nel Sud del Paese di grandi opere di bonifica, alla durata del latifondo e del sistema feudale, a una borghesia restia a un incremento degli investimenti, alla modifica dei contratti agrari, incline ad attività economiche dai caratteri speculativi. In altri termini, alla condizione di debolezza e ristagno in cui versa l’economia meridionale nel 1860.
Su questa linea si muovono quegli studiosi che non assumono l’entità del divario economico tra le regioni italiane nel 1861 come parametro attraverso cui valutare la complessiva crescita economica del Regno d’Italia, ma subordinano a quella disparità iniziale l’accentuarsi sempre più marcato del dualismo e l’esistenza delle cosiddette ‘due Italie’.
Gino Luzzatto, ad esempio, uno dei massimi esponenti di questo indirizzo storiografico, rilevando come, in un Paese che nel 1861 versava in condizioni di arretratezza secolare già negli anni successivi alla crisi del 1873-74 fosse nata un’industria concentrata quasi esclusivamente nelle regioni nordoccidentali, sopravvaluta i progressi compiuti poco prima dell’unità da alcune regioni, poi, per giustificare gli errori della Destra Storica, ricorda la necessità di «riparare all’inerzia dei passati governi».
Seguendo questa linea, egli giunge così a giustificare una politica che, dal 1861 al 1875, aveva sì portato la ferrovia da Bologna ad Otranto e la rete ferroviaria del Sud dal 7,25 % al 32 % del totale nazionale, ma aveva anche espropriato in soli sei anni, dal 1873 al 1878, ben 29.554 agricoltori meridionali (1’88 % degli espropriati del Regno) per l’irrisorio debito complessivo d’imposte di £. 2.948.110, pari ad una media di £. 99,75 per ogni espropriato. Persino la ripartizione territoriale della spesa sostenuta dal 1870 al 1876 per l’acquisto di macchine agricole (77% al nord, 12 % al centro 11 % al sud) sembra giustificata al Luzzatto «dalla mancanza, nell’area centro meridionale, di vaste pianure, dalla maggior diffusione delle colture arboree, distribuite spesso a breve distanza dei campi seminativi, !’impiego di aratri, specialmente adatti a scavi profondi»,
insomma da motivi di ordine tecnico per cui «l’impiego di aratri […] di seminatrici e di falciatrici risulta – il più delle volte – inopportuno».
Soffermarsi sulle contraddizioni di uno studio per tanti aspetti fecondo di positive indicazioni sarebbe, però, solo sterile esercizio polemico, ma va detto almeno che una cosa è affermare che nel 1860 il Sud versava in condizioni di maggiore arretratezza economica nei confronti del Nord, un’altra sostenere che la disparità fosse tale che al Nord esistessero già le premesse dello sviluppo che vi si è realizzato, mentre il Sud fosse condannato sin da allora al sottosviluppo. Una analisi difficile da accettare, perché significa sostenere che la maniera in cui avvenne l’unificazione nazionale e la politica dei governi postunitari non abbiano influito sulla vicenda economica dell’Italia o, peggio ancora, come afferma Morandi, che lo sconcerto economico e lo squilibrio erano inevitabili e che, in pratica, a un’Italia politicamente unita dovevano, per forza di cose, corrispondere ‘due Italie’ economicamente separate dalla diversità del loro sviluppo.
La sciando perdere la fatalità della Storia, è forse più utile ricordare che, pur giungendo a spiegazioni diverse del dualismo, gli studiosi che registrano disparità tra le strutture economiche del Nord e del Sud, esprimono tutti serie perplessità sulle prospettive complessive di sviluppo dell’Italia del 1861.
Morandi stesso, del resto, scrive che il dominio austriaco sulla Lombardia era stato durissimo e che il Piemonte e la Liguria avevano languito sotto i Savoia. Insomma che l’intero Regno d’Italia era fuori della partita che metteva in gara i paesi del continente «nel dare impulso all’industria come fattore principale di innovazione del vecchio sistema della produzione e degli scambi». Non a caso, escludendo un raffronto tra l’entità della produzione e del patrimonio industriale, egli afferma che un altro distacco, destinato ad accentuarsi rapidamente in pochi decenni, minaccia lo sviluppo complessivo del Paese: «già segnato molto nettamente nel processo capitalistico che ha avuto l’avvio nel Nord e che va incatenando cospicue masse della popolazione rurale» In altri termini, al Nord «il mercante imprenditore è ormai sulla soglia di trasformarsi in industriale».
Morandi individua così una figura sociale che al Sud era lontana dal configurarsi e che fece sentire il suo peso nello sviluppo successivo del Paese; una figura che non poteva, tuttavia, avere da sola la forza di imprimere al Nord la spinta che condusse alla formazione di un’industria moderna e proiettò «la sua ombra cupa nella involuzione parallela del Sud». Resta infatti da chiarire come il mercante-imprenditore abbia potuto trasformarsi in capitalista e mutare in senso industriale un’economia. la cui base agricola era così prevalente pochi anni prima, da riflettere i suoi caratteri anche su quel settore tessile, che per Morandi è il solo in grado di produrre sviluppo.
Come che stiano le cose, appare evidente che le contraddizioni sin qui rilevate derivano da analisi diverse, ma tutte fondate su un comune, errato presupposto. Intendo dire che, non solo addebitare l’origine del dualismo al divario esistente fra gli Stati italiani al momento dell’unità è inesatto ma che avviata in questa direzione una ricerca finisca per muoversi su un terreno impraticabile, perché, fissata una data più o meno precisa o un arco di tempo ampio abbastanza per esser valutato, la consistenza dei dati informativi sulle singole economie regionali, è eterogenea, offre dati disparati e scarse possibilità di raffronti tra lo stato dei vari settori industriali e le condizioni dell’agricoltura tra una zona e l’altra del Paese.
È qui, nell’inconsistenza dei dati a disposizione, eterogenei e difficili da compararsi, e l’entità dei problemi cui si vorrebbe dar risposta, che esiste probabilmente il difetto di analisi: nel vedere all’origine delle ‘due Italie’ quel dualismo preesistente all’unità, del quale non è poi possibile valutare con esattezza l’entità.
E’ evidente che il problema va ribaltato e che non occorre partite da un dualismo ‘in nuce’, ma da ciò che dopo l’unità fu fatto perché esso, anziché aumentare a dismisura, diminuisse.
Partire dall’assunto che l’economia italiana nel suo complesso, al momento dell’unità, offriva ben poche prospettive di sviluppo industriale, e poi argomentare sulla maggiore o minore arretratezza di singole realtà territorialmente limitate è, in sostanza, fuorviante, perché realtà locali tali da presentare compiutamente i caratteri di un’economia in grado di produrre un autonomo sviluppo di tipo industriale sono, in fin dei conti, escluse proprio dalla considerazione iniziale.
Inoltre, riferirsi ad esperienze e possibilità economiche realizzate in alcune regioni a metà Ottocento, significa introdurre nell’analisi una variabile dai caratteri indefiniti, già difficile da valutare in relazione a un ristretto ambito territoriale e in un quadro politico definito, impossibile da determinare in una realtà territoriale diversa e più ampia, in un quadro politico del tutto mutato e in fase di stabilizzazione, in una situazione assai carente di prospettive di sviluppo industriale.
Anche a voler condividere, infine, i giudizi positivi espressi sulla politica seguita nel Regno di Sardegna prima del 1860, va notato che la stessa politica produsse nel Regno d’Italia più guasti che sviluppo. Ma ciò non meraviglia: ieri come oggi, la politica degli Stati regionali mal s’adattava ad uno Stato più vasto e dalla realtà ben più complessa, qual era quello italiano.
Quando osserva che, dopo l’unità, i provvedimenti presi dal governo aggravarono gli squilibri tra il Nord e il Sud, Candeloro imputa il carattere territorialmente parziale dell’industrializzazione italiana non a un preesistente dualismo, ma alla persistente crisi agricola del Sud. Sia stata o meno questa la causa prima della limitatezza territoriale della base industriale italiana e della sua incapacità di estendersi al Sud, egli scinde così correttamente la realtà degli Stati regionali da quella dello Stato unitario e pone l’accento sulle scelte della classe governante italiana.
In questa ottica si può ritenere che la causa storica del dualismo sia nella maggior precocità della rottura col sistema feudale registratasi nel Nord del Paese. Storica, in quanto ereditata dallo Stato unitario, e, come tale, destinata a essere eliminata dal nuovo Regno.
Quando i primi governi italiani, con scelte conservatrici della struttura agraria e con il salvataggio del latifondo meridionale, impedirono che la rottura col sistema feudale avvenisse anche al Sud, quando le disparità tra Stati regionali furono ereditate da uno Stato unitario che non operò per equilibrare il quadro economico, allora quelle che erano solo diverse potenzialità si mutarono in elementi portanti di ciò che definiamo ‘sviluppo dualistico’. Prima no. Prima le realtà regionali erano entità a sé, che nulla avevano a che dividere con la successiva realtà del Paese. Costituivano, questo sì, uno dei nodi che la classe dirigente italiana doveva sciogliere, ma non sono l’origine del problema centrale della nostra storia nazionale.
Non al malgoverno borbonico o alla politica degli Asburgo occorre, quindi, risalire, e nemmeno alla lungimiranza di Cavour, ma ai programmi economici dei primi governi italiani e alla concezione dello Stato che guidò i successori di Cavour. A quei Ministeri, insomma, che posero in sincronia la politica economica con gli interessi di proprietari fondiari e ceti professionali emergenti, la politica estera con le ambizioni dei Savoia, cercando sostegno diplomatico in Inghilterra e Francia ed estendendo l’indirizzo liberista piemontese ai territori annessi.
Naturalmente il liberismo garantì alle aree più equilibrate e moderne nella suddivisione e conduzione della terra un primo accumulo di capitali, maggior occupazione e circolazione di manodopera, crescita e consolidamento di ceti sociali più attivi sul piano economico. Colpì duramente, invece, le regioni in cui latifondo, arretratezza nella gestione delle terre e immobilismo fondiario impedivano di profittare di nuove opportunità commerciali e richiedevano ben altri interventi legislativi.
Ristrutturare i catasti, intaccando il latifondo senza generare una polverizzazione della proprietà fondiaria, e ridistribuire gli oneri sociali, avrebbe potuto favorire un aumento di produttività agricola e colpire lo strapotere di baroni e, ‘galantuomini’. Sarebbe stato possibile avviare opere di bonifica, incoraggiare investimenti produttivi, favorire il credito agricolo. Nulla di ciò fu fatto.
Mentre l’artigiano era proletarizzato e il piccolo proprietario espropriato, l’agricoltura del Sud non tornava utile nemmeno all’attività manifatturiera e commerciale legata alla produzione rurale; di conseguenza, mentre «al Nord numerosi erano gli stabilimenti sorti negli ultimi anni con grande dispendio di mezzi e di capitali» con l’improvviso «crollo delle vecchie bardature protezioniste si riducevano le potenzialità dell’industria napoletana».
Che ciò sia poi accaduto perché a governare erano «reduci dalle lotte per l’unità nazionale che, proprio per l’importanza” assegnata “alla causa dell’indipendenza politica, ritenevano pressoché concluso il loro compito», ha scarso rilievo, perché, più che mediocre statura politica, quei ‘reduci’ dimostrarono la volontà egemonica della classe sociale minoritaria di cui furono espressione. Talune scelte economiche sembrano così poco chiare, da indurre Luzzatto a scrivere che sarebbe assai utile «spingere l’occhio molto più addentro in alcune vicende» per «scoprirne la vera natura, su cui gli atti ufficiali ci lasciano sovente all’oscuro».
Come che sia, non v’è dubbio che, individuando due realtà distinte della società italiana al momento dell’unità, due logiche evolutive diverse e che non comunicano tra loro e inserendole in un fenomeno dualistico verificabile in ogni Paese in cui un processo di sviluppo sia avviato in condizioni di partenza caratterizzate da separazione originaria e da livelli fortemente ineguali, si è compiuto l’errore di negare il nesso di causa effetto insito nel maggior sviluppo di una sezione in rapporto al minore sviluppo dell’altra.
In effetti, senza inserire nel modello adottato una variabile ad esso estranea, e cioè il legame organico che l’azione politica determina tra lo sviluppo del Nord e quello del Sud, questa operazione restringe solo in una astratta staticità un fenomeno tipicamente dinamico. Se è vero infatti che al momento dell’unità «la questione fondamentale per le regioni del Nord era di trasformarsi, da una sezione per tanti versi periferica e subalterna, in un’area autonoma di sviluppo; altrove invece, nel resto del Paese, il problema essenziale era ancora il riscatto da condizioni mortificanti di miseria endemica e di secolare arretratezza», è altrettanto vero che, solo venticinque anni dopo, al Nord il problema era la difesa e il potenziamento dello sviluppo economico determinato dalla politica liberista, mentre al Sud era quello del sottosviluppo che si era aggravato.
Sulle condizioni dell’industria meridionale al momento dell’unità si è discusso spesso con l’intento di dimostrare che gli scrittori meridionali ne sopravvalutarono l’entità. I problemi in effetti sono due: le possibilità di sopravvivenza di una parte dell’industria borbonica e la distribuzione delle commesse dello Stato dopo l’unità.
Dalla vicenda della Wenner, un’industria tessile costituita da un complesso di opifici ubicati tra Napoli e Salerno, che fu prospera fino al 1860, narrata dal suo proprietario, si ricava che essa si salvò dal disastro che colpì l’industria meridionale dopo l’unità grazie alla disponibilità di forti capitali, che permisero una rapida ristrutturazione. Il successo del cotonificio, contemporaneo a quello di altri della zona e realizzato nel corso di una profonda crisi internazionale del settore, è particolarmente significativo, perché dimostra che, se al Sud fossero stati reperibili quei capitali che, come riconosce Einaudi. furono trasferiti al Nord, alcuni opifici meridionali avrebbero potuto sopravvivere e riprendersi. Su una tale ipotesi, cui fa cenno anche Luzzatto, non sarebbe forse inutile tornare a riflettere.
Alcuni indizi sembrano indicare che anche il disastro toccato all’industria bellica meridionale, che non risentiva certamente della concorrenza estera, non fu determinato solo da una congenita debolezza ma anche da pregiudicanti scelte politiche. Nel 1861, ad esempio, lo Stato italiano ereditato il complesso che sfruttava il minerale estratto dalle miniere di Stilo in Calabria, lo fondeva in uno stabilimento della zona collocato a Mongiana e riforniva l’Arsenale di Napoli. La sua produzione di ghisa costituì in quell’anno circa 1/10 di quella nazionale. Nel 1866, però, il complesso passò in appalto gratuito a un privato; condizione unica, l’esaurimento delle giacenze di magazzino. Scaduto il contratto, l’azienda fu svenduta ad azionisti francesi, inglesi e torinesi che facevano capo al Credito Mobiliare.
Non diverso il percorso dell’Officina Meccanica di Pietrarsa, a Napoli, nata dalla fusione con una fabbrica dei Granili, tra le migliori d’Italia e attrezzata per produrre rotaie: l’Officina ricevette commesse solo per 1/6 delle locomotive previste dal piano d’incremento della rete ferroviaria del Sud e negli anni ‘80 era già in crisi. A questo punto è naturale chiedersi se tra l’esiguità delle commesse e la cessione dell’Officina a un gruppo finanziario napoletano nel 1863, non corra più d’un legame.
Non appare più chiara la sorte dei cantieri navali. E’ vero, l’industria cantieristica per costruzioni in ferro in Italia non «avrebbe potuto sorgere […] grazie alle commesse […] della Marina, perché lo Stato da anni costruiva nei propri arsenali tutto il materiale necessario alla flotta». Ma anche in questo caso la domanda è legittima: quale Stato, quali arsenali? Prima dell’unità, i cantieri liguri lavoravano per i Savoia, quelli campani per i Borboni. Chi costruì le navi per la Marina da guerra italiana?
I cantieri navali di Castellammare di Stabia, che, dopo l’unità, proseguendo un lavoro iniziato per i Borboni, vararono per la Marina la prima corazzata e, dal 1864 al 1881, la fregata Messina e le corazzate Duilio e, Italia non erano certo inferiori a quelli liguri per efficienze e potenzialità. Nel 1884, però, in vista d’un riarmo navale a sostegno di ambizioni espansionistiche in Africa, il governo invitò la società inglese Armstrong ad aprire un cantiere navale a Pozzuoli, presso Napoli. Perché si scelse la Campania e non la Liguria non è dato sapere, ma è fin troppo chiaro che l’Armstrong col tempo avrebbe sottratto commesse ai suoi ‘vicini’. D’altra parte, alla scelta non fu certo estranea la considerazione che, come vedremo, al Sud la forza-lavoro era molto meno cara che al Nord.
I dati che possediamo sulle fabbriche d’armi sono scarsi, ma sono anche i meno utili: il Regno dei Borboni non dipendeva dall’estero per fucili e baionette più che gli altri Stati italiani. Se pochi anni dopo l’unità le sole industrie di armi degne di esser menzionate erano quelle bresciane ciò può significare solo che, come in tanti altri, anche in questo settore, le commesse statali al Sud vennero a mancare. Così stando le cose è lecito affermare che troppo frettolosamente, e non sempre giudicando in maniera imparziale, si è giunti alla conclusione che l’industria meridionale mancasse di radici e forza vitale. E’ probabile invece che là dove le radici esistevano o potevano nascere, furono recise dalle scelte economiche dei primi governi italiani.
A inizio secolo, quando il capitale settentrionale scese al Sud (dai dove in qualche misura in parte cospicua proveniva), il campo era ormai sgombro. Come per un lapsus freudiano non si parlò perciò di far sorgere, ma ‘risorgere’ l’industria a Napoli. Un risorgimento che non sarebbe stato nemmeno tentato, se liberismo prima, protezionismo poi, non ne avessero determinato i presupposti e la legge speciale non avesse garantito agli investitori materie prime a buon prezzo e decennali esenzioni fiscali.
In effetti, la politica protezionista non intese correggere errori del passato, ma sostituire quella liberista che aveva esaurito la sua funzione. Essa fu adottata, del resto, solo quando gli agrari, di fronte al crollo dei prezzi, alla crisi di produzione agricola e zootecnica e all’abolizione del corso forzoso, chiesero allo Stato una ‘protezione’ che già gli ambienti industriali ritenevano indispensabile per sostenere una concorrenza straniera che metteva a nudo la debolezza dell’economia nazionale.
Frutto di un’equivoca comunanza d’interessi, che ben s’accordava, del resto, con le ambizioni dei nazionalisti e di casa Savoia, pronti per l’avventura coloniale, la nuova politica doganale giune nel momento più opportuno non per difendere nel loro insieme gli interessi economici del Regno, ma per tacitare gli agrari, soddisfare gli industriali e potenziare la debole industria pesante, chiamata a rafforzare la Marina militare.
Dall’unità non erano trascorsi più di trent’anni. Ancora non era chiaro, ma dietro quell’ambigua fusione d’interessi, si delineava il progetto egemonico dell’ala più avanzata della borghesia nazionale che, in nome del prestigio e della sicurezza del Paese, mirava alla totale subordinazione degli interessi pubblici a quelli privati e del potere politico a quello economico.
In realtà, l’allineamento della componente più dinamica della borghesia sulle posizioni tenute da radicali e socialisti durante la crisi di fine secolo, il favore stesso con cui fu accolta la mediazione giolittiana, furono scelte tattiche consapevoli nel quadro d’una strategia già sperimentata anni prima, quando il protezionismo era stato ottenuto mediante un compromesso con gli agrari che, alla fine, aveva indebolito proprio la posizione politica di questi ultimi.
Anche la crisi di fine secolo si risolse con un compromesso, quello liberal-socialista attuato da Giolitti e Turati, che consentì all’economia italiana di proseguire nel suo sviluppo, anzi di assumere i suoi caratteri definitivi. In quegli anni, infatti, inserendosi sempre più profondamente nei gangli dell’organizzazione statale, il potere economico (alta finanza e grossa industria al Nord e, in posizione sempre più subalterna, gli agrari del Sud) prese a determinare, spingere in senso unico, la politica italiana. Questo non sarebbe accaduto senza un evento dalla portata ben più ‘rivoluzionaria’ dell’avvento della Sinistra al potere: l’appoggio socialista alla politica di Giolitti, che significò il passaggio da una opposizione dura e di principio del gruppo parlamentare socialista, a un atteggiamento di confronto più costruttivo.
Una delle conseguenze della politica di Giolitti fu la totale emarginazione del Sud dal processo di sviluppo economico del Paese. Un’emarginazione che, nei tempi lunghi, indebolì le potenzialità complessive del Paese e ne rallentò lo sviluppo democratico e civile. Essa però fu determinata, non solo dalla politica di Giolitti, ma anche e forse soprattutto dalla incapacità dei socialisti di leggere con chiarezza il vero significato del «riformismo» borghese giolittiano e di opporgli un progetto politico alternativo. Persino i sindacalisti rivoluzionari, che rifiutavano ogni compromesso con la borghesia, nel dibattito sull’intervento speciale per il Sud, furono decisi assertori d’una opzione industriale che, senza effettive contropartite per il proletariato meridionale, offriva a imprenditori e finanzieri l’opportunità di investire capitali garantiti dalla più ampia esenzione fiscale, di accedere a mercati poveri, ma utili come riserva e di sfruttare una manodopera tanto più economica quanto più abbondante, dequalificata e assai poco organizzata a livello sindacale.
Pur tenendo conto della perdurante debolezza del movimento operaio nazionale negli anni immediatamente precedenti il varo della legge speciale per Napoli, il 1898 appare in questo senso molto adatto a tentare un confronto tra le capacità organizzative e combattive del proletariato nelle diverse aree del Paese. In quell’anno 256 scioperi scossero il Regno da un capo all’altro, scatenando la dura reazione governativa e preparando il terreno a quella svolta destinata a identificarsi col nome e la politica di Giolitti. Benché le organizzazioni politiche e sindacali, più presenti nell’area centrosettentrionale del Paese, fossero state sciolte, al Nord si registrò il 56 % degli scioperi del settore industriale, con il 61 % degli scioperanti e il 67 % delle giornate di sciopero. Nell’Italia centrale gli scioperi furono il 29 % del totale nazionale con il 22 % degli scioperanti e il 18 % delle giornate di sciopero; in quella meridionale invece gli scioperi attuati furono solo il 15 % del totale con il 17 % dei partecipanti e il 15 % delle giornate lavorative perdute.
Anche la durata degli scioperi separa nettamente le tre aree del Regno. Infatti 6 sono al Nord e 5 al Centro gli scioperi che superano la durata di un mese, solo 2 (entrambi attuati in Sicilia) quelli registrati al Sud. Ancora all’Italia del Nord tocca il primato per gli scioperi durati dai 10 ai 30 giorni, per quelli durati da 4 a 10 giorni e quelli che non andarono oltre i 3 giorni. Il diverso esito delle agitazioni conferma le disparità sin qui rilevate. La percentuale degli scioperi terminati al Sud con esito completamente o parzialmente favorevole, il 46 %, è inferiore sia a quella dell’Italia centrale [62 %], che settentrionale [52 %].
Al contrario, la percentuale degli scioperi terminati con esito sfavorevole agli operai è di gran lunga più alta al Sud che non al centro e al Nord: 54 % contro 38 % e 48 %.
Per quanto concerne i motivi che li determinano, gli scioperi si possono dividere in rivendicativi (richieste di aumenti di salario e di riduzione di lavoro), difensivi (resistenza contro la riduzione del salario o 1’aumento delle ore di lavoro) e, infine, di carattere indefinito, determinati da cause diverse dalle precedenti. Anche in questo caso, la situazione di debolezza del Sud appare evidente. Al Nord si hanno infatti il 48 % degli scioperi rivendicativi, il 56 % di quelli difensivi e il 75 % di quelli determinati da altre cause. Le percentuali al centro sono rispettivamente del 33 %, del 23 % e del 16 %; al Sud, infine, del 19 %, dell’8 % e del 9 %.
È evidente che quello meridionale rappresentava, in un proletariato già disgregato come quello italiano, l’elemento più debole, più disposto, cioè, a produrre di più e a più basso costo, il parametro inferiore, la variabile su cui contare per gestire sia l’asfittico processo di sviluppo, che la legge speciale per Napoli innescava, sia le inevitabili crisi cui esso conduceva.
Sulle disparità salariali tra le diverse aree del Regno e all’interno dei medesimi comparti industriali mancano dati precisi, ma alcuni confronti confermano l’ipotesi d’una netta sperequazione tra Nord e Sud. Fino al 1877 il salario medio risulta in Campania inferiore a quello di Lombardia, Liguria e Piemonte. Le differenze variano per gli uomini da un minimo di £. 0,28 ad un massimo di £. 1,25; per le donne dai 15 ai 30 centesimi; per i ragazzi dai 16 ai 28 centesimi. È un dato generico, ma tutt’altro che insignificante.
Per gli anni successivi sono possibili confronti più attendibili. Nel 1891, ad esempio, alla Keller, uno stabilimento tessile di Villanovetta, in provincia di Cuneo, 13 operai di diversa specializzazione percepivano assieme, per un giorno di lavoro, £. 10,74. Se avessero lavorato in una fabbrica tessile di San Leucio, in provincia di Caserta, avrebbero percepito £. 2,49 in meno. In pratica, pagando i salari corrisposti al Sud, la Keller avrebbe risparmiato il costo dell’intero reparto delle incannatrici.
Paragonato a quello di una fabbrica di Forlì, la Brassini, il salario degli operai di San Leucio era ancora più basso: assieme, nove operai casertani ricevevano infatti in una giornata £. 2,60 in meno di nove operai della Brassini con identica specializzazione. Coi salari di San Leucio la Brassini avrebbe risparmiato il costo di cernitrici, strusere e mazzanti.
Disparità non meno chiare emergono dal settore meccanico. Nel 1893, all’Ansaldo di Sampierdarena, il lavoro di ventuno operai, divisi in sette specializzazioni con tre livelli salariali ciascuno, più quello di cinque capi laboratorio costava £. 150,50, cioè £. 7,69 in meno che alla Hawthorn & Guppj di Napoli. Sommando la retribuzione media delle sei specializzazioni che, nel 1898, costituivano l’organigramma operaio delle due aziende, si ricava che, alla Hawthorn & Guppj si risparmiavano, in media, £ 2,60 al giorno per ogni sei operai.
Più indicativi sono i dati sulla Società Strade Ferrate del Mediterraneo, con sede a Milano e opifici a Torino, Genova, Milano e Napoli, perché consentono di confrontare salari di operai di uguale mansione occupati in sedi diverse d’una medesima azienda. Nel 1899 la giornata di trenta operai era pagata a Torino con £. 110,90, a Milano con £. 109,38 e a Napoli con £. 103,79: una differenza di £. 7,1I in più rispetto a Torino e 5,29 rispetto a Milano. L’officina napoletana era quella di Pietrarsa.
Il basso costo della forza lavoro non giovava al capitale meridionale, praticamente inesistente. Su di esso, al contrario, poteva ben contare chi, senza molto temere da un proletariato disgregato, veniva dal Nord a ‘riindustrializzare’ il Napoletano, allettato da protezioni ed esenzioni fiscali e rassicurato persino dai socialisti, i quali, premesso che prudenza e moderazione sono «una necessità per ogni specie di movimento operaio, ma in modo particolare in un ambiente che soffre appunto per difetto d’industrie», non esitavano ad affermare: «a Napoli […] scongiuriamo quasi sempre lo sciopero e lo consigliamo solo nei momenti di assoluta legittima difesa». E non mancava chi, come Enrico Leone trascinava addirittura i sindacalisti rivoluzionari sulle posizioni duramente contestate ai riformisti, invitandoli a favorire la formazione del capitale.
Paradossalmente, il patto di tregua sociale che legava Turati a Giolitti trovava garanti al Sud proprio in Labriola e Leone, nei suoi critici cioè più severi. Ecco dunque che, proprio negli anni in cui la borghesia italiana perseguiva obiettivi ormai abbastanza definiti e, seguendo una linea strategica sperimentata, finalizzava gli indirizzi politici a quelli economici, il dibattito nel P.S.I. si faceva più lacerante, la sua strategia più confusa, più incerti gli strumenti per realizzarla. Quando iniziò l’esperienza liberal-riformista, il P.S.I., impegnato a conciliare una dottrina rivoluzionaria con una prassi parlamentare riformista, si trovò subito costretto ad accontentarsi di piccoli e mai determinanti successi e ad offrire il fianco all’azione di logoramento che la borghesia andava compiendo, utilizzando l’innegabile perizia tattica di Giolitti.
Nell’attesa messianica che ad opera della borghesia vi si compisse la ‘rivoluzione democratica’, il Sud rimaneva intanto del tutto estraneo al progetto riformista di Turati, che, attrezzato il partito per una rotta di cabotaggio lungo la costa liberal-socialista, contribuì non poco a consolidare l’anomalo meccanismo di sviluppo del Paese e agevolò, in ultima analisi, l’affermazione non solo economica, ma anzitutto politica del grosso capitale.
Non a caso, quando Turati volle sintetizzare il programma meridionalista del P.S.I., parlò di egemonia «della parte più avanzata del Paese sulla più arretrata, non per opprimerla anzi per emanciparla e sollevarla». Era una formula inaccettabile, che codificava l’esistenza delle ‘due Italie’, quella progredita e in progresso al Nord, quella arretrata e da emancipare al Sud. Una scelta che in pratica riduceva il Sud a soggetto passivo dello sviluppo del Paese e ne relegava il proletariato in posizioni subalterne rispetto a quello del Nord. Sbandierando i vessilli della socializzazione delle terre e della conquista del Parlamento, Turati abbandonava di fatto il Sud al trasformismo.
Se alla fine dell’Ottocento la pratica trasformista, offrendo favori e spazio politico agli agrari, aveva consentito di far passare senza proteste le numerose protezioni e i sussidi concessi all’industria settentrionale, negli anni del ‘boom industriale’ quel sistema di forzature divenne pienamente operante: ciò accadde, quando Giolitti, profittando della crisi d’identità del P.S.I., portò a perfezione quel meccanismo per il quale sin dall’Unità le zone depresse del Paese si erano trasformate in aree di sfruttamento e il sottosviluppo del Sud era diventato sempre più funzionale allo sviluppo del Nord.
C’è chi tende a far passare per fisiologico l’instaurarsi d’un tale rapporto, come se avesse generato un meccanismo di sviluppo in grado di funzionare autonomamente. Al contrario, il meccanismo si sarebbe inceppato, se a Nord e Sud territorialmente intesi, non avessero fatto da complemento un Nord e un Sud della classe lavoratrice, se il compromesso liberal-socialista non avesse fatto da contraltare al trasformismo, assegnando all’ala riformista del P.S.I. la funzione che, nella prassi parlamentare, era stata assolta dai 1atifondisti.
A ben vedere, quel rapporto non fu fisiologico, ma patologico. Da esso non poteva nascere che uno sviluppo economico malcerto, limitato a un’area del Paese e garantito dalla miseria di quelle rimanenti; uno sviluppo in cui la povertà d’una classe sociale fu istituzionalizzata e resa funzionale alla prosperità di un’altra, quanto il sottosviluppo del Sud lo fu allo sviluppo del Nord.
È in questa ottica che si inserì la legge per Napoli, una legge altrimenti inspiegabile per la sua estraneità al contesto sociale ed economico cui si applicava, tanto discordante nei presupposti e negli obiettivi che Savarese, pur ritenendo che senza di essa l’industria a Napoli avrebbe rischiato di sparire, è costretto a precisare che questa constatazione non ne contraddice altre, «altrettanto fondate, sull’esito deludente dei programmi di rapida preindustrializzazione». Ma quell’esito deludente, più che indurre a leggere criticamente gli indirizzi meridionalisti intorno alle specializzazioni concretamente incentivabili, nel quadro unitario dei meccanismi di produzione operanti, dovrebbe proporre interrogativi sulla reale volontà politica di elaborare un progetto di sviluppo economico del Sud.
Quando si parla dell’esito deludente delle leggi speciali per Napoli, di un aggancio fallito delle regioni del Sud alla crescita della società italiana – ma lo stesso si può dire per la Cassa del Mezzogiorno – ci si dimentica che quell’aggancio non fu nemmeno tentato. In realtà, la legge del 1904 non si inquadra in una ‘politica per il Sud’ nel senso stretto della parola, perché elude i motivi di fondo della tematica del Nitti, che sembra ispirarla, e si modella sullo stereotipo dello sviluppo della borghesia nazionale, a cui risulta, in definitiva, funzionale.
È per questo che riesce difficile condividere l’opinione di chi ritiene la linea politico-economica seguita dopo l’unità pienamente rispondente all’interesse della collettività e il sacrificio di interi settori economici e di gran parte della classe lavoratrice necessari e reversibili. C’è stato, è vero, chi ha provato a fondare su basi diverse l’analisi del dualismo dell’economia italiana e, pur sopravvalutando la comprensione del problema del Sud da parte dei fautori del ‘filone industriale’, ha colto importanti contraddizioni nell’abusata prassi delle leggi speciali, osservando come, con l’epilogo del decollo industriale del periodo giolittiano, «il patrimonio produttivo meridionale ha aumentato la sua incapacità a far fronte persino alle più elementari necessità delle popolazioni locali».
Quello che è mancato e manca, quando si parla del rapporto tra la Campania, e l’Italia industriale è la riflessione sul ruolo reale che ha assunto, la sua paradossale funzione trainante nei processi di sottosviluppo. In altri termini, ci si dimentica di ricordare che la Campania e Napoli in particolare, come spiegava Ettore Ciccotti all’alba del Novecento, ha subito «paradossalmente tanto la solidità ben superiore della struttura produttiva del Nord, che la desolante miseria dell’area economica in cui è inserita».
In questo senso, Giovanni Aliberti, ha osservato giustamente che qualsiasi tentativo di sviluppo economico della Campania era ed è destinato a fallire, se non riesce a «cogliere il nesso che legava l’eventuale crescita dell’industria urbana alla trasformazione economica del retroterra regionale mediante l’ammodernamento dell’impresa agraria e il rinnovamento della vita sociale nelle campagne»,
Egli, come altri studiosi, addebita tale incapacità e, quindi, il fallimento della politica d’intervento speciale agli imprenditori. Più lucidamente Giuseppe Galasso, invano invitava a non sottovalutare o deformare il ruolo e la figura dell’imprenditore campano, estromettendolo dalla struttura economica e sociale in cui si forma e opera. Ciò, verrebbe da dire, anche per evitare all’imprenditore la sorte dell’operaio campano, troppo spesso valutato in base all’astratto metro della ‘coscienza rivoluzionaria’ maturata, più che in relazione alle concrete modificazioni economiche e sociali con le quali ha dovuto fare i conti.
In realtà, parlare di fallimento a proposito delle leggi per Napoli significa ignorare che esse produssero quanto si attendeva il legislatore. Se poi già nel 1908 i sindacalisti rivoluzionari scoprono di aver sbagliato ad associarsi «all’inno degli arditi industriali settentrionali », perché «gli avvenimenti successivi han chiarito […] l’inganno di Napoli industriale», ciò non serve ad altro che a meglio inserire la vicenda economica della Campania e, in pratica, del Sud, in quella complessiva del Paese. In quegli anni, in effetti, l’Italia s’avviava a pagare il prezzo della sconfitta patita da un partito operaio ancora incerto e immaturo, incapace quindi di contrastare efficacemente una strategia di sviluppo della borghesia che si fondava sullo sfruttamento e che affondava le sue radici nei rapporti di forza determinatisi già all’indomani dell’unificazione nazionale.
Nel periodo di Giolitti, e si possono così concludere queste bevi e sintetiche riflessioni, quel progetto economico divenne sempre più esplicitamente progetto politico. In tal senso va vista l’equivoca funzione della Banca, legata ormai a filo doppio alle Istituzioni e il ruolo determinante da essa assunto nella drastica mobilitazione del risparmio. Privilegiando gli impieghi industriali del risparmio, la Banca risolse infatti il problema di un’industria che si sviluppava in un Paese dove né l’agricoltura né il commercio avevano dato luogo alla formazione di grossi capitali privati, né tanto meno il piccolo risparmiatore investiva in titoli industriali. In una simile situazione, assai più grave al Sud, un sistema di rigorosa distinzione tra banca commerciale e società di investimenti finanziari non poteva sopperire alla cronica deficienza di capitali. Di qui l’introduzione di un organismo capace di mediare le due funzioni: le cosiddette ‘banche miste’, che completarono il progetto economico della borghesia italiana.
La simbiosi tra Banca e Industria e il legame con le Istituzioni dello Stato, che si faceva garante di una settoriale politica d’investimenti, finirono per costituire l’asse portante d’un sistema economico e politico che sacrificava le ragioni e gli interessi d’un sano sviluppo economico a quelli dei grossi gruppi finanziari, favorendo processi di crescita industriale e facendo sì che la nostra industria, tecnicamente arretrata, crescendo all’ombra dell’apparato di garanzie offerto dal sistema di protezioni, si trasformasse in un organismo parassitario.
La crisi del 1907, spingendo il mercato azionario a preferire ai titoli industriali i depositi bancari e le obbligazioni di Stato, indusse l’industria a ricorrere sempre più al sostegno dello Stato e determinò fenomeni di accentramento di sempre più vasta mole, acuendo i fattori di squilibrio insiti nel sistema. L’intreccio di partecipazioni e di interessi che si andava sempre più consolidando intorno al nucleo d’una industria pesante ch’era il settore più malato della nostra industria, anziché quello trainante, contribuiva d’altro canto alla radicalizzazione delle scelte politiche, mentre i problemi di sovrapproduzione da cui era afflitta gran parte dell’industria italiana sembravano poter esser risolti solo da una intensificata domanda da parte delle Amministrazioni militari.
A questo punto la mediazione giolittiana non tornava più utile e Giolitti fu allontanato dal centro della scena parlamentare. Vi fece ritorno solo quando l’asse politico s’era spostato a destra e i bilanci non permettevano più di conciliare una politica di spese militari con una di riforme. Le forze che all’aprirsi del secolo avevano giudicato Giolitti l’uomo adatto al momento erano le stesse che, quindici anni dopo, lo mettevano in disparte, sostituendo ad ogni altra possibile prospettiva per l’economia italiana quella della guerra.
Che la guerra non sia una conseguenza ineluttabile di una crisi del capitale è opinione da condividere. È innegabile però che dall’inizio del secolo le guerre del Regno d’Italia furono combattute tutte nell’illusione di risolvere una crisi e tutte ne generarono un’altra di dimensioni più gravi. Si dirà che è difficile dimostrare che esiste un nesso tra le crisi economiche del Regno d’Italia e le sue guerre, e può essere vero; altrettanto difficile, tuttavia è negare che tra crisi e conflitto esista un nesso che non si può definire congiunturale, a meno di volerle ritenere tutte accidenti casuali.
In realtà il nesso esiste e va cercato nell’identificazione tra classe dirigente economica e politica. Sintetizzando, si può dire che, in effetti, la prima produceva la seconda sicché, quando la classe economica era di fronte alla crisi, quella politica la soccorreva con la guerra.
Questo discorso, però, condurrebbe lontano. Qui basta osservare che a ogni guerra si registrava un ampliamento dei settori dell’industria pesante più presenti al Nord che al Sud, che c’erano secche perdite di capitale monetario colmate dallo Stato mediante la tassazione indiscriminata, che a ogni guerra, infine, diminuiva o addirittura si bloccava l’emigrazione. In altre parole, ogni guerra aggravò lo squilibrio economico del Paese, sicché paradossalmente si può dire che ognuna fu combattuta da ‘due Italie’ delle quali una, quella del sottosviluppo, il Sud, uscì sempre e comunque sconfitta.
Giuseppe Aragno