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Presentazione del Dossier statistico immigrazione 2024

Riprendiamo l’intervento di Luca Di Sciullo, presidente del Centro Studi e Ricerche IDOS –

Renè Girard, nel suo capolavoro La violenza e il sacro, dice che noi tutti abitiamo le città fondate da Caino. Il riferimento è alla tesi di fondo che attraversa tutta la sua opera e che ancora oggi appare per tanti versi sconvolgente: quella, cioè, che le nostre società hanno un’origine oscura e inconfessabile, perché nascono da un omicidio primordiale. E non da un omicidio qualsiasi, ma precisamente da un fratricidio.
E tra i miti delle origini che Girard prende a esempio, cita, appunto, Caino, che, dopo aver assassinato il fratello Abele, diventò – così dice testualmente la Bibbia – “costruttore di città”; o Romolo, che dopo aver anch’egli ucciso il suo gemello Remo, per aver questi osato oltrepassare il pomerium, il solco sacro che delimitava i rispettivi terreni di pertinenza, fondò Roma e ne divenne il primo re (evidentemente anche allora, come oggi, i confini venivano sacralizzati per giustificare ogni delitto di frontiera in nome della difesa del sacro).
Ci sarebbe dunque un fratricidio fondativo alla base della nostra convivenza cosiddetta “civile”. E l’omicida, che si è impadronito del potere proprio con questo atto di violenza originario con cui ha materialmente reciso il vincolo di fratellanza, è diventato il legislatore.
È lui infatti, il fratricida, a scrivere per primo le leggi che statuiscono e regolano la nostra convivenza, potremmo dire: con le mani ancora sporche del sangue del fratello.  Così queste leggi per un verso giustificano il potente che le scrive, e ne legittimano il potere violento; per altro verso rispecchiano in loro stesse quella negazione assoluta del rapporto di fratellanza che ha permesso al primo omicida di impadronirsi del potere.
Una prima conseguenza è che questa violenza fondativa diventa in un certo senso esemplare, per cui, a partire da essa, si innesca, nella società, tutta una catena di ulteriori atti violenti, compiuti a imitazione del potente (per “desiderio mimetico” del potere, come lo chiama Girard) da parte dei molti che, mossi dalla brama di strappargli il comando, mirano a sostituirlo e a prendere il suo posto. E poiché l’unico modo di avere successo per imitazione è di adottare gli stessi metodi dell’imitato ma elevandoli a un livello di intensità superiore, che sia in grado di soppiantarlo, ecco che così il potere passa di mano in mano a malfattori ogni volta più spietati, ciascuno dei quali diventa legislatore e scrive, o riscrive, leggi che riflettono e legittimano, al tempo stesso, una linea di condotta sempre crudele e sempre meno fraterna e solidale. In questo modo l’avvicendarsi delle classi dominanti va di pari passo con una regressione scalare che va dal brutale al vessatorio, al gratuitamente disumano.
Peraltro un segno distintivo di questa catena è che ogni potente di turno concepisce il potere come un oggetto unico, indivisibile, per cui nessuno tollera che il proprio venga ripartito e di conseguenza controbilanciato da quello di altri, ma ciascuno lo pretende per sé tutto intero. Quindi, ogni volta che anche oggi sentiamo un politico reclamare “pieni poteri” dovremmo già solo per questo qualificarlo come un perfetto rappresentante della città di Caino.
La seconda conseguenza è che questa escalation di violenza, alimentando in maniera endemica tutta una serie di mali sociali (corruzione, criminalità, disoccupazione, povertà, malasanità, ingiustizia e così via), finisce per metterne a rischio la coesione interna e indebolire i legami che la tengono unita; e quando questo accade, allora diventa necessario ricorrere a un metodo che consenta di incanalare e scaricare collettivamente, ma altrove, tutta la tensione e la rabbia sociale così cumulati, così da salvaguardare la tenuta dell’ordine sociale e, di riflesso, l’intero sistema di potere.
Ora, com’è noto, Girard individua questo metodo in quell’arcaico ma sempre infallibile rito del capro espiatorio, per cui, quando il malessere interno monta e il potente di turno è incapace di risolverlo, questi sceglie, fuori dalla propria città, una vittima sacrificale, la addita all’intera collettività come la causa di tutti quei mali sociali che la affliggono dall’interno (e di cui la vittima, quindi, è innocente) e, dopo averla al tempo stesso demonizzata e resa innocua (ad esempio, spogliandola di ogni diritto e tutela, e quindi anche della capacità di difendersi), la consegna al popolo perché sia esso a compiere collettivamente su di lei il sacrificio liberatorio.
Consumato questo sacrificio cruento, in cui ciascuno ha potuto scaricare la propria frustrazione sociale su un oggetto sostitutivo dei veri responsabili dei mali collettivi (Freud lo chiamerebbe un oggetto “transazionale”), la società rinsalda i propri legami interni (chissà perché, la possibilità di fare tutti insieme del male è sempre stato un collante sociale molto più potente della possibilità di fare tutti insieme del bene), e il potente di turno può continuare a governare, nonostante la sua inettitudine nel risolvere quei mali, di cui è il vero responsabile. In questo modo, quello del capro espiatorio diventa un rito catartico con il quale periodicamente la società ripete, in maniera collettiva, la stessa violenza fondativa da cui ha tratto origine, per cui ogni ripetizione equivale a un atto di rifondazione della società sulle stesse basi.
Ebbene: delle tre fondamentali chiavi di lettura di questo paradigma interpretativo di Girard (e cioè: la scrittura e riscrittura di leggi che rispecchiano, intensificandola, la violenza fratricida del fondatore; il desiderio mimetico che, a ogni passaggio di potere, innalza sempre più il tasso di spietatezza del legislatore di turno; il ricorso al capro espiatorio come oggetto sacrificale su cui scaricare la rabbia collettiva e rinsaldare le fila identitarie) non ce n’è una che non sia incredibilmente calzante per capire le dinamiche che hanno mosso le politiche migratorie e gli atteggiamenti dominanti, verso i migranti, negli ultimi decenni in Italia e in Europa.
Sull’ultimo punto non serve più di tanto soffermarsi: il fatto che gli immigrati siano diventati, da almeno 30 anni, il capro espiatorio di tutti i mali endemici del Paese e che i governanti di turno abbiano tutti concorso – chi con azioni, chi con omissioni – a spogliarli di ogni più elementare diritto e tutela, fino a ridurli a una condizione di inferiorità giuridica e sociale che ne ha fatto, appunto, delle “non persone”, e quindi dei perfetti oggetti sacrificali, è talmente evidente che basta consultare le cronache: se un anno fa raggelavamo per lo strangolamento di un immigrato ambulante, avvenuto in pieno giorno e in un affollato centro cittadino senza che nessuno degli astanti, che filmavano la scena col cellulare, fosse intervenuto, quest’anno siamo rimasti impietriti da una sessantenne che ha rincorso in auto il suo scippatore immigrato, lo ha investito, gli è passata sopra, avanti e indietro per quattro volte con il Suv, ha ripreso la borsetta e se ne è andata.
Una efferatezza che si abbevera agli stessi pozzi avvelenati che hanno fatto dire, al solito ministro, “non ci mancherà”, riferendosi a un immigrato ucciso dalle Forze dell’ordine, o equiparare a “cani e porci” i rifugiati che entrano su ordine dei giudici.
Ma anche per quel che riguarda l’escalation di violenza emulativa dei governanti, in cui ciascuno ambisce a distinguersi per maggiore cinismo rispetto ai suoi predecessori, basta gettare uno sguardo trasversale al periodo che va dalla nascita della seconda Repubblica ai giorni nostri, per constatare non solo che la scena politica e mediatica è stata pressoché ininterrottamente occupata da esponenti di partiti che hanno costruito quasi tutta la propria identità e i propri successi elettorali sulle paure e sull’odio verso i migranti, e che, incredibilmente, proprio a questi partiti abbiamo delegato, negli ultimi 26 anni, l’ideazione delle politiche migratorie nazionali (ora per espressa consegna dei loro alleati, quando sono stati al governo, ora per pavida inazione delle forze politiche opposte, quando hanno governato a loro volta, non di rado addirittura allineandosi ai primi); ma soprattutto che, a una prima stagione dominata da urlatori e predicatori di odio xenofobo, ne è effettivamente seguita una, dopo il Covid, di burocrati e funzionari indottrinati, che, avendo eletto a propri mentori i primi, si sono formati alla loro scuola, e, per imitazione appunto, ne hanno preso il posto, non solo ripristinando a specchio “decreti sicurezza” in buona parte abrogati nel breve intermezzo legislativo della pandemia, ma immettendovi norme ancora più vessatorie e spietate dei loro predecessori.
Così la crudeltà, l’accanimento, sono diventati un valore aggiunto qualificante delle politiche migratorie nazionali dell’ultimo quarto di secolo. Politiche che, tutto sommato, si condensano in due semplicissimi princìpi:

  • il primo è che, costi quel che costi, non devono entrare: non importa che abbiamo inanellato per il quarto anno consecutivo il numero più basso di nascite dall’Unità d’Italia: non devono entrare; non importa che a breve gli italiani con più di 65 anni d’età saranno 1 su 3 e doppieranno i minorenni: non devono entrare; non importa che lo stesso Ministero del Lavoro abbia stimato un fabbisogno di 833mila lavoratori aggiuntivi dall’estero nello stesso triennio in cui le quote sono state poco più della metà e i fuori quota ancora esigui, mentre le imprese continuano a soffrire carenze e cali annui strutturali di manodopera: non devono entrare;
  • il secondo principio è che, qualora riescano invece a fare ingresso, vengano quanto più mantenuti in una condizione: a) di precarietà giuridica, quindi strutturalmente esposti a scivolare nell’irregolarità; b) di subalternità sociale, perché prima vengono gli italiani; c) di sfruttabilità occupazionale, per i tornaconti, spesso in nero, di aziende e famiglie: non importa che, dopo 9 regolarizzazioni in 42 anni, resti intatta una sacca di oltre mezzo milione di immigrati irregolari, che si riforma sistematicamente, e che solo 1 su 3, tra chi entra in Italia per lavoro, arriva ad acquisire un permesso di soggiorno: li vogliamo impiegabili a basso costo; non importa che molti dei 3 milioni di lavoratori in nero siano stranieri e che l’economia sommersa in Italia ammonti a 202 miliardi di euro, il 10% del PIL, né che per ogni straniero irregolare che lavora, dovendolo fare necessariamente in nero, gli evasori fiscali e contributivi siano due, lui e il suo datore di lavoro, sottraendo all’economia regolare 23 miliardi di euro: li vogliamo ricattabili.

Ora, quando la materia migratoria è così ciecamente ideologizzata da ledere perfino gli interessi generali del Paese, danneggiando il bene comune, allora questa ostinazione è così ottusa da essere del tutto inescusabile e imperdonabile.
Ma qui siamo già al terzo punto della lezione di Girard: la progressione scalare della violenza all’interno delle leggi riguardanti l’immigrazione. Tra i tantissimi casi di escalation vessatorie procedute per stratificazioni normative, possiamo ricordare ad esempio che:

  • non è bastato lasciare intatta per 32 anni una legge sulla cittadinanza che la nega a centinaia di migliaia di minorenni con background migratorio, per la maggior parte nati, cresciuti e stabilmente presenti in Italia, e che già quando fu varata portò da 5 a 10 gli anni di residenza necessari a naturalizzarsi rispetto a quella precedente del 1912, riuscendo addirittura a farla rimpiangere, oggi, 112 anni dopo, quando recupereremmo 2 milioni e mezzo di cittadini se ripristinassimo lo stesso tempo di naturalizzazione; ma hanno voluto infierire, aumentando il costo economico delle pratiche e, contestualmente, elevandone fino a 4 anni i tempi di lavorazione, così da portare a ben 14 anni il periodo massimo effettivo per naturalizzarsi;
  • non è bastato abolire la protezione umanitaria, sostituendola con una, cosiddetta “speciale”, che, alla fine di un tira e molla tra Decreti, ne ha visto restringere sia il campo di applicazione, sia la gamma di beneficiari, sia le modalità di accesso e di mantenimento; ma, non soddisfatti di aver così minato il diritto a ottenerla, si sono accaniti ancor più sui richiedenti asilo, relegandoli per l’ennesima volta nei soli Cas, dove hanno azzerato i percorsi di inserimento e ridotto all’osso i servizi, ad attendere fino anche a 2 anni la risposta (contro il termine massimo di 33 giorni prescritto dalla legge), in modo da tenerli quanto più a lungo parcheggiati, in uno stato di sospensione della vita e di incertezza del futuro, per la gioia di caporali e sfruttatori di manovalanza in nero, che possono così reclutarli come schiavi nei campi e nei cantieri;
  • non è bastato allungare invano a 18 mesi la durata di detenzione degli immigrati irregolari nei Cpr, con l’unico effetto di averne moltiplicato a dismisura i costi di mantenimento (56 milioni di euro tra il 2021 e il 2023, e altri 42,5 miliardi per il loro potenziamento tra il 2023 e il 2025) e protratto fino al limite del sostenibile i trattamenti disumani che ogni giorno vi vengono perpetrati, visto che, sul piano dell’efficacia, non si è spostato di una virgola il sempre identico fallimentare risultato di riuscire a rimpatriare a malapena la metà dei circa 6.000 l’anno che vi transitano (poco più di un millesimo degli oltre 500mila irregolari stimati in Italia). Ma anche in questo caso, non soddisfatti di aver creato luoghi di sofferenza estrema, interdetti a visite e senza presìdi giuridici e sanitari all’interno (dove – contro la legge – i cellulari vengono sequestrati e l’isolamento è totale, i cibi sono scadenti, le celle sono ridotte a immondezzai frequentati dai topi il cui fetore costringe a dormire all’aperto, l’uso di psicofarmaci e i tentativi di suicidio sono quotidiani – e quelli che riescono in preoccupante aumento – e dove, infine, i reclusi si cuciono le labbra con il fil di ferro o si rompono volontariamente braccia o gambe pur di farsi trasportare in ospedale e poterne uscire): ebbene, non soddisfatti di tutto ciò, l’ennesimo Decreto sicurezza approvato alla Camera un mese fa ha incluso, tra i 20 nuovi reati che intende istituire, sia le proteste nonviolente perpetrate dai migranti reclusi nei Cpr, punibili anche fino a 20 di carcere, sia la vendita di sim telefoniche a immigrati irregolari, pur di aumentarne il già alto isolamento sociale, il che non farà che alimentare il mercato nero delle schede telefoniche (mentre, in maniera complementare, è diventato legale estorcere le generalità dai cellulari, agli immigrati che ne possiedono uno, qualora non le forniscano spontaneamente alla polizia);
  • e a proposito di creazione di reati: non è bastato, 16 anni fa, inventare quello cosiddetto “di clandestinità”, un mostro giuridico che eleva a reato, appunto, non il compimento di un atto illegale, ma il mero trovarsi in uno status giuridico irregolare, pur di giustificare la detenzione amministrativa, e quindi la privazione della libertà personale, a immigrati che – letteralmente! – non hanno fatto nulla di illegale; ma non contenti, hanno inventato un’emergenza migratoria permanente, la cui sola durata ultraquarantennale è sufficiente a dimostrarne tutta la pretestuosità, per istituire uno “stato di eccezione” in nome del quale giustificare il varo di leggi che violano sistematicamente sia la Costituzione sia il diritto internazionale;
  • e ancora: non è bastato precarizzare i permessi di soggiorno con requisiti di rilascio e rinnovo sempre più proibitivi, alimentando con la legge stessa lo scivolamento nell’irregolarità; ma si è poi lasciato quasi sempre ai datori di lavoro la facoltà di presentare domanda di regolarizzazione, aumentando il loro potere di ricatto sui lavoratori stranieri e gettando le basi per un mercimonio delle istanze a pagamento; salvo, ancora dopo, dilatare a tal punto i tempi di regolarizzazione (quella del 2020, a 4 anni dal suo varo, è ancora ferma a solo tre quarti delle domande) che nel frattempo per molti o il contratto di lavoro è scaduto senza aver ottenuto la regolarizzazione o la regolarizzazione è scaduta per non aver ottenuto il rinnovo del contratto;

E in tutto questo perfino la burocrazia diventa uno strumento di vessazione aggiuntiva e di impedimento per l’acquisizione e l’esercizio dei diritti, visto che oltre ai lunghissimi tempi di attesa appena ricordati per la cittadinanza, l’asilo e la regolarizzazione, uno straniero aspetta anche: fino a un anno tra la concessione del nulla osta all’ingresso per lavoro e la convocazione in Prefettura per la stipula del contratto di soggiorno; ancora quasi un anno sia per il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno in Questura, sia tra l’acquisizione del permesso di soggiorno e la convocazione in Comune per l’iscrizione anagrafica; e ancora interi mesi per formalizzare la domanda di asilo dopo la dichiarazione di volontà.
Ma veniamo a meccanismi ancora più strutturali a livello normativo: non è bastato introdurre, già con il Testo Unico, un sistema di gestione dei flussi d’ingresso per lavoro come quello, rigido e discrezionale, delle quote, troppo e troppo spesso sottodimensionate rispetto al fabbisogno reale di manodopera dall’estero, come dimostra ogni anno il numero abnorme di domande non rientranti nel tetto stabilito (fino a 4-5 volte superiore, negli ultimi anni, come attesta la campagna Ero straniero); o aver affidato le autorizzazioni all’ingresso a una umiliante corsa all’accaparramento del nulla osta come il click day (che in teoria hanno promesso di abolire ma in pratica hanno moltiplicato per comparti di attività), in cui il destino di decine di migliaia di lavoratori stranieri, con le rispettive famiglie, e quello di altrettante aziende e famiglie italiane, gli uni e le altre accomunati da un urgente stato di bisogno, è affidato a un cinico meccanismo di autoselezione selvaggia, basato sulla mera destrezza di digitazione per l’invio telematico delle domande.
E non è bastato neppure connettere, a questo sistema già strozzante, una norma surreale come la chiamata nominativa “al buio” del lavoratore straniero dall’estero: talmente irrealistica (e per questo largamente elusa da famiglie e piccole imprese a gestione familiare, che non possono certo permettersi di impegnarsi per sconosciuti) che, come si sa, ha finito per incoraggiare sia le assunzioni irregolari, come dimostrano interi decenni in cui le quote sono state usate per regolarizzare rapporti di lavoro in nero, sia l’ulteriore mercimonio di chiamate nominative fasulle a pagamento, come dimostrano a loro volta gli alti tassi di defezione dei datori di lavoro alle convocazioni in Prefettura per la firma del contratto di soggiorno (salvo, naturalmente, quando a causare queste defezioni siano tempi di convocazione talmente lunghi, come abbiamo ricordato, che il posto di lavoro è comprensibilmente sfumato, soprattutto quando doveva coprire un’urgenza oggettiva).
Ma non è bastato neanche aver congegnato, già in partenza, un meccanismo così contorto e subdolo: la “Bossi-Fini” ha dovuto infierire ulteriormente, sia abrogando – come sappiamo – il permesso di ingresso in Italia per ricerca lavoro (possibilità di gran lunga più ragionevole), sia saldando così rigidamente il permesso di soggiorno al contratto di lavoro da consegnare ai datori di lavoro un vero e proprio potere di ricatto, visto che dalla loro decisione di formalizzare o meno l’assunzione ne va, per i lavoratori stranieri, la possibilità stessa di restare regolarmente in Italia e, di lì a pochi mesi, non essere espulsi, con un divieto pluriennale di rientro.
Ma ecco che neppure questo accanimento di secondo livello è stato sufficiente e il Decreto Cutro ha aggiunto ancora un paio di onerose complicazioni, a carico dei datori di lavoro, la cui inutilità è direttamente proporzionale all’intenzione puramente vessatoria e deterrente che le ha ispirate: la previa asseverazione di sostenibilità economica del rapporto di lavoro, ottenibile solo a pagamento, e la previa verifica, nei Centri per l’impiego, dell’indisponibilità di lavoratori italiani a svolgere l’occupazione offerta al lavoratore straniero (con tutto ciò che l’introduzione del silenzio-assenso, dopo 20 giorni dalla mancata risposta, comporta in termini di ulteriore dilazione dell’assunzione, soprattutto quando serva a coprire un bisogno urgente).
E non saranno certo le piccole semplificazioni introdotte dal recente Decreto promosso dal sottosegretario Mantovano o varate lo scorso anno a correggere la dannosità di questa aggrovigliata stratificazione normativa: sia perché le semplificazioni sembrano fatte più per venire incontro alle esigenze dei datori di lavoro e delle imprese, che dal Covid in poi soffrono una carenza strutturale di manodopera, piuttosto che ai bisogni degli immigrati; sia perché i guasti e le inefficienze sono legati alla logica di fondo cui l’intero impianto normativo obbedisce. Basta pensare che, in 26 anni di vigenza, il Testo Unico ha subito ben 60 interventi di modifica, mentre altri 15 hanno riguardato i decreti attuativi, per una media di quasi 3 modifiche normative l’anno. Questo vuol dire che noi governiamo un fenomeno epocale e strutturale, da cui dipenderà in grandissima parte il futuro delle nostre società, con un vero e proprio patchwork normativo, che assomiglia a quegli abiti consunti in cui – a forza di tagliare, stringere, rammendare e cucirvi toppe – non si riconosce più né la forma né la stoffa originaria.
Del tutto analoga, del resto, è anche la situazione delle politiche migratorie perseguite a livello internazionale, sulle quali si è appuntata l’attenzione mediatica più recente.
60mila morti annegati nel Mediterraneo in 10 anni, equamente distribuiti tra accertati e non, e quelli anche più numerosi abbandonati nel deserto, durante le corse di attraversamento in camion e jeep, non sono ancora bastati per revocare memorandum d’intesa e accordi scellerati con dittatori, autocrati, governi fantoccio e perfino – sottobanco – con i capiclan delle mafie che controllano, al tempo stesso, i traffici, la tratta, i campi di detenzione e le cosiddette “guardie costiere”, perché facciano, per conto nostro, il lavoro sporco sulla pelle dei migranti e impediscano loro, a ogni costo (compreso quello della vita), di toccare terra in Europa.
Nel frattempo i successori politici di chi ha inaugurato questa già violenta tattica di aggiramento dell’obbligo internazionale di non respingimento, per non vanificare nei tribunali l’elargizione di miliardi di euro annui agli esecutori su commissione di quegli accordi, hanno iniziato una campagna di diffamazione delle ong, sebbene esse svolgano esattamente quel lavoro di ricerca e salvataggio di vite umane che spetterebbe ai civili governi europei attuare.
E così, pur di sgombrare da testimoni oculari la scena di mare in cui vengono perpetrati, su procura, omissioni di soccorso, sparatorie, speronamenti, bastonate, catture e riconduzioni coatte in Paesi che, con una mistificazione sfacciata, i nostri governanti si ostinano a chiamare “sicuri”, certificandolo addirittura con una decretazione d’urgenza, questi stessi governanti hanno imposto per legge fermi amministrativi, sequestri di navi, multe esagerate, ispezioni fiume, e più recentemente dirottamenti sciupa-tempo e sciupa-carburante verso porti di attracco lontani, oltre che divieti di sorvolo e di interventi multipli, arrivando a imporre codici di condotta che spudoratamente hanno osato definire “etici” a chi l’etica la insegna con i fatti.
Ma ecco che già la generazione di governanti successiva preparava un livello di crudeltà legislativa ancora ulteriore: al di là dell’umiliante fallimento della prima prova generale e di come l’intera vicenda evolverà, dobbiamo dire che anche l’Italia ha finalmente la sua Guantànamo, in Albania, dove, con “taxi del mare” stavolta forniti dalla marina militare per viaggi di sola andata, al modico costo di 250mila euro l’uno a carico dei contribuenti italiani, deportiamo richiedenti asilo maschi, apparentemente maggiorenni e non vulnerabili (l’avverbio è d’obbligo, visto che – come abbiamo tutti seguito – solo a deportazione conclusa si è scoperto che 4 dei 16 trasportati erano per metà minorenni e per l’altra metà malati, per cui li abbiamo dovuti trasferire in Italia anche prima degli altri 12).
E così in Albania, ancora una volta lontano da possibili testimoni delle nostre violenze legalizzate, nel chiuso inavvicinabile di strutture che sebbene somiglino a carceri (essendo recintate con sbarre, divise in celle e sorvegliate da militari) è vietato chiamare così, applichiamo a migranti forzatamente separati da mogli, figli minorenni, sorelle e familiari, un protocollo ideato per velocizzare dinieghi ed espulsioni, realizzando così il miracolo giuridico di respingere dall’Italia persone che non solo sul suolo, ma neppure in acque italiane hanno mai letteralmente messo piede.
Bisogna ammettere che questa invenzione giuridica, tutta italiana, del disbrigo extraterritoriale delle domande d’asilo ha qualcosa di perversamente geniale: addirittura anticipa l’arrivo dei migranti, andandoli letteralmente a pescare fuori delle acque italiane, offre loro un trasbordo completamente spesato in un Paese terzo e istruisce una valutazione lampo già pre-orientata al suo esito (il diniego) per una gamma generosamente vasta di Paesi d’origine, accertati perfino sommariamente, che anche per Decreto abbiamo continuato a inserire a manica extra-larga tra quelli “sicuri”. Non stupisce che questa invenzione sia assurta a modello di ispirazione delle politiche comunitarie già a partire dal nuovo Patto per l’immigrazione e l’asilo e che come modello l’abbia più volte esaltata perfino la presidente della Commissione europea, presenziando pure a un recente incontro con 10 capi di governo di Stati sovranisti, in cui la nostra premier ha spiegato loro le convenienze di una simile soluzione, prefigurando che l’Unione possa replicarla su scala comunitaria in Uganda, così da realizzare lì quel che Regno Unito e Olanda non sono riusciti con il Rwanda.
Il fatto che oggi l’Italia faccia scuola nell’Unione europea, in materia di prototipi esecutivi di violazione dei diritti, non solo fa rimpiangere ancora più amaramente i tempi in cui guardavamo ai documenti comunitari come a un faro di riferimento per le mai compiute politiche di integrazione nazionali, ma svela che, dietro gli scintillii retorici del Piano Mattei, peraltro ancora fermo, c’è un programma raccapricciante che guarda all’Africa come luogo di reiezione per gli scarti umani del nostro continente.
Tutto il quadro che abbiamo ripercorso mostra che viviamo in una società in cui la violenza è entrata nella strutturazione degli impianti giuridici di riferimento, è stata elevata a dignità di norma, e quindi – essendosi letteralmente “normalizzata” – non scandalizza più nessuno, per cui, se dall’odio si era regrediti all’indifferenza, oggi dall’indifferenza si è ulteriormente scaduti nell’assuefazione. Del tutto ignari, o incuranti, che presidiare i diritti, l’uguaglianza, il trattamento equo e la giustizia sociale è qualcosa che ci riguarda tutti e dinanzi alla quale non c’è più distinzione tra “noi” e “loro” che regga, perché come trattano gli immigrati oggi potrebbe essere il preambolo di come tratteranno noi, o una parte di noi, domani, e che quel che fanno ora a loro, potrebbero farlo – anche più di quanto già non succusa – a tutte le italianissime persone vulnerabili e indigenti.
Davvero, dunque, noi abitiamo, a tutti gli effetti, le città di Caino. Torna alla mente, qui, quel famoso, splendido passo de Le città invisibili, nel quale Calvino mette in bocca a Marco Polo una risposta folgorante: al Gran Kan, che sconsolato gli dice “Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente”, Marco Polo replica: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, inferno non è; e farlo durare, e dargli spazio”.
Dentro le città di Caino, quindi, il nostro compito è di rintracciare e salvaguardare quei piccoli frammenti della città di Abele, sparsi qua e là come oasi di salvezza, e da lì cercare di ripartire. Non c’è, infatti, città fratricida in cui, per quanto violento ne sia l’ordinamento, non germinano miracolosamente queste isole e questi spazi: la città di Abele è già qui, in mezzo a noi, come realtà dinamica della società (altrimenti infernale) che ci tocca abitare; e vive, in maniera elettiva e preferenziale, nelle nuove generazioni nate dalle nostre vittime sacrificali, nei figli e nelle figlie dei nostri capri espiatori.
Non è un caso che, per la prima volta alla presentazione di un Dossier, abbiamo intenzionalmente lasciato l’intero tavolo dei relatori a queste nuove generazioni, dirette depositarie dei vissuti migranti. È con loro e grazie a loro che noi, tutti, abbiamo finalmente la possibilità di riallacciare quel legame di fratellanza che il potere di Caino e dei suoi epigoni ha reciso; e farlo in nome di una comune umanità, di una visione civile condivisa che rompa definitivamente con la barbarie giuridica, con l’arretramento culturale, con l’arroganza bruta e volgare degli ideologi e dei legislatori delle città infernali.
“L’inferno non è” dove le leggi vengono scritte assumendo lo sguardo delle vittime e non dei carnefici. “L’inferno non è” dove non servono capri espiatori o vittime sacrificali, ma la coesione sociale e perfino l’identità nazionale vengono rinsaldate accogliendo e – oserei dire – onorando quanto di bello e di bene è disseminato in ogni portato culturale altro. “L’inferno non è” dove i diritti sociali, civili, politici e perfino di cittadinanza affondano le radici nel vincolo di fraternità universale, molto più sacro di ogni confine. “L’inferno non è” dove si condividono i vissuti, dove la carne tocca la carne dell’altro, e così si sentono per empatia (e non solo come principi astratti) la pari dignità e l’eguale libertà di tutti gli esseri umani.

Al loro fianco rialziamoci, solleviamo il capo, impariamone lo sguardo; e insieme edifichiamo e facciamo fiorire, finalmente, quel che inferno non è.

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1 Commento. Nuovo commento

  • Alessandro Vigilante
    13/11/2024 23:08

    Intervento straordinario. Mi ha ricordato Foucault che, nella prefazione all’edizione americana (1977) dell’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, fornì le famose ‘istruzioni’ per una vita non fascista.
    L’umanità non può vivere di sola speranza, ma senza speranza non c’è vita umana possibile. E la speranza si alimenta di interventi e ragionamenti – teoria e prassi – come quelli di questo compagno e di questo Centro Studi.

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