Riflessioni, senza pretese, sulla cura
Ci sono fatti, situazioni, eventi, tragedie che determinano un “prima” e un “dopo” perché mettono in luce zone d’ombra e svelando ciò che non funziona possono addirittura consentire ribaltamenti sociali.
Come ricorda Daniel Finn nel suo articolo “La Peste nera e la nascita del mondo moderno” ancora oggi “gli storici dibattono sul ruolo della peste nera” ,diffusasi in Europa a partire dalla seconda metà del 1300, “nella grande transizione dell’Europa occidentale dal feudalesimo al capitalismo. Sia che abbia accelerato tendenze già in essere o che abbia indirizzato lo sviluppo verso strade del tutto nuove, la pandemia sicuramente contribuì alla matrice sociale dalla quale emerse il capitalismo moderno, specialmente nella campagna inglese”.
La drammatica pandemia da covid-19 nella quale ci troviamo da quasi un anno, è uno di questi eventi.
Il virus è apparso e si è diffuso dentro un contesto economico e sociale reso fragile da anni di politiche neoliberiste, nei quali molti milioni di persone hanno avuto meno diritti , li hanno perduti, o peggio, non li hanno mai sperimentati mentre la ricchezza di pochi è aumentata esponenzialmente. La precarizzazione del lavoro e della vita ha raggiunto livelli insopportabili, i sistemi pubblici di welfare si sono via via indeboliti sotto il peso di scelte politiche fondate sulla trappola del debito pubblico, del pareggio di bilancio, dell’aziendalizzazione, la violenta predazione dell’ambiente naturale e del vivente ha impoverito e devastato il pianeta in nome di un profitto senza fine che distrugge tutto ciò che gli si oppone, le gerarchie di potere si sono acuite dando origine ad ingiustizie, fondamentalismi di varia natura e violenze.
Un contesto che ha promosso un modello di società nel quale, citando, se non ricordo male, Marx, “individui reciprocamente indifferenti” si incontrano e si riconoscono, quasi esclusivamente, nella dimensione del mercato.
In tutto ciò, paradossalmente ma non troppo, il contagio che si diffonde, generando sofferenza e dolore, svela in maniera esemplare che nessuna guarigione può esserci se si ritorna al mondo di “prima” perché è proprio questo mondo ad essere malato alla radice.
Ed ecco allora che una parola risuona con insistenza in moltissimi luoghi anche molto diversi fra loro: cura.
E’ tutto un fiorire di iniziative pubbliche, di discorsi, di dibattiti nei quali la “cura” diventa il leit motiv di fondo.
Penso in particolare al proficuo “percorso di convergenza per una società della cura” , di cui mi seno parte, dentro il quale convergono centinaia di associazioni e singole persone.
Forse allora sarebbe utile domandarsi quale significato si vuole dare a questa parola.
Perché le parole possono sostenere percorsi trasformativi e liberatori ma anche di mantenimento dello status quo o, peggio, di involuzione. Come scrisse il socialista William Morris a fine ottocento “I padroni hanno molti modi di lottare per sopravvivere in questo mondo”!
Provo pertanto a condividere alcune mie riflessioni sul significato termine “cura”. Lo faccio senza troppe pretese e nella consapevolezza di ciò che sono: non un’intellettuale ma un’ attivista politica femminista di una certa età che preferisce dedicare le energie di cui ancora dispone a sostenere percorsi e progetti capaci di modificare il nostro modo d’essere e di generare pensieri e azioni utili ad un cambiamento di fondo del sistema in cui ci troviamo a vivere.
Due o tre precisazioni
Sono scarsamente interessata ad intendere la “ cura” come un gesto di riparazione di un guasto o di somministrazione di un farmaco che faccia scomparire il sintomo. Sono tanti e tali i mali che affliggono il nostro mondo che non riesco nemmeno lontanamente a pensare come lo si possa semplicemente riparare, riaggiustare o addirittura guarire.
Come dicevo sopra il mondo di prima ha permesso al virus di svilupparsi e girare per il mondo e la cura non può essere la malattia.
Mi convince di più considerare “la cura” come un nuovo paradigma di senso che presuppone un riorientamento radicale di pensiero insieme all’esigenza di un modo diverso di stare al mondo. In questo senso curare non può che voler dire confliggere con l’ordine economico, sociale e politico che governa il mondo. Modificando al contempo anche noi stesse/i.
Preferisco, cioè,considerare la “cura” come una prassi, e quindi un’azione coerente sostenuta da un pensiero, ed un modo d’essere individuale e collettivo insieme.
Attingere dall’elaborazione femminista
Dico subito che riconoscere all’elaborazione femminista il merito di aver ragionato per prima, ormai da decenni, sul concetto di cura non significa, per me, considerare la “cura” come una parola di proprietà del femminismo. Ben vengano diffusione e contaminazione.
Aggiungo ulteriormente che l’elaborazione femminista a cui mi riferisco non ha a che vedere con il pensiero che postula che la “cura” sia essenzialmente un’attitudine femminile.
Perché quella cura lì è esattamente il modo attraverso il quale si è inferiorizzato il genere femminile relegandolo nella sfera domestica o in lavori considerati “minori” per considerare le donne il “secondo sesso” ed introdurre una gerarchia di potere che ancora oggi persiste.
Come scrive l’ antropologa ecofemminista spagnola Yayo Herrera in un’intervista esclusiva a Sara Pollice : “ Non credo che le donne abbiano un principio femminile che le renda differenti, più portate a occuparsi della vita. Ciò che è vero è che la cura è stato un lavoro storicamente femminilizzato, ed è un lavoro importante, un lavoro trascendentale, e da un punto di vista femminista e non femminile c’è bisogno di suddividerlo, di fare in modo che l’insieme della società, l’insieme sociale integrato da uomini, donne, persone e istituzioni, si occupi corresponsabilmente della cura del corpo. Non è un lavoro strettamente di donne, non è un lavoro femminile, è un lavoro che fanno le donne perché viviamo in una società patriarcale che obbliga, in forma non libera, le donne a svolgerlo”
A mio avviso l’elaborazione femminista più “rivoluzionaria”, sul piano del prendersi cura di se delle e degli altri e del mondo, è proprio quella che ha affermato quanto “il personale sia politico”, smascherando la falsità del binomio privato/pubblico.
Come scrive bene di Giorgia Serughetti nel suo articolo “Il perturbante lavoro domestico” “ La distinzione privato/pubblico, con l’assegnazione delle donne al primo ambito, gli uomini al secondo, è stata (ed è ancora in gran parte) un caposaldo della costruzione patriarcale della cittadinanza. È stata inoltre (ed è ancora) funzionale a economie capitalistiche che risultano – come scrive Nancy Fraser – «dipendenti dagli stessi e identici processi di riproduzione sociale di cui disconoscono il valore». Nella fase attuale del capitalismo, globale e neoliberale, il posto delle donne non si limita alla casa, si parla anzi di femminilizzazione del lavoro extra-domestico. Ma questa evoluzione non fa che rafforzare le norme di genere, nonché di classe o «razza», con l’attribuzione dei compiti di cura ad altre donne, spesso migranti da paesi più poveri, e l’attivazione di catene globali della cura. Ricordando la matrice «ideologica» di questo binomio, ma anche il suo carattere materiale, il pensiero femminista dell’ultimo mezzo secolo ha mostrato la profonda interconnessione che esiste tra sfere che si presumono distinte. Ha evidenziato come ciò che definiamo «privato» e «domestico», lungi dall’essere estraneo alla vita pubblica, è in realtà continuamente plasmato dalla politica. E come un lavoro riproduttivo continuo e continuamente rimosso – cucinare, lavare, fare il bucato, curare i figli minori, eccetera – sia essenziale ad assicurare la partecipazione degli individui adulti alle attività produttive”.
Dentro l’attuale pandemia, specie nei periodi di confinamento, lo spazio della casa è divenuto centrale rendendo evidente quanto sia ideologica e non “naturale” la distinzione fra la sfera del pubblico e quella del privato e quanto sia fittizia l’idea, tutta maschile, di una “cittadinanza” fondata ingannevolmente sul mito dell’individuo lavoratore, adulto, razionale, autonomo sganciato dalla sfera domestica . La pandemia dimostra che dimensione della cura e lavoro di riproduzione sociale e domestica sono elementi fondanti la vita stessa di una società.
Mettere al centro le relazioni di cura, per prendersi cura di sè delle e degli altri e del mondo, riconoscendo al contempo le intersezioni di genere, classe, razza che attraversano le soggettività materiali, consente di ripensare il modello economico e sociale e di metterne in discussione l’attuale .
Su questo piano l’elaborazione femminista si interseca anche con quella ecologista per porre due problemi centrali : quali siano i bisogni umani da sostenere, quali siano le produzioni di cui abbiamo bisogno e quali siano i lavori socialmente necessari ed inoltre, considerata l’interdipendenza e la vulnerabilità dei nostri corpi come prendersene cura in particolare in alcuni momenti specifici dell’esistenza.
Le esperienze di neo-mutualismo e solidarietà
Durante il periodo di confinamento si sono moltiplicate le esperienze di solidarietà e di neo-mutualismo, già presenti in molte città.
D’altro canto i bisogni sollevati dalla crisi sanitaria ed economica sono tali e tanti da richiedere interventi ampliativi rispetto a quanto poteva essere garantito dai sistemi pubblici di assistenza sanitaria e sociale impoveriti da anni di riforme in senso privatistico.
Le reti di mutualismo, i centri sociali, le associazioni e i collettivi impegnati nel lavoro di quartiere hanno dato vita ad attività solidali che hanno permesso a molte persone, rese fragili dalla pandemia per motivi differenti, di poter contare su un aiuto concreto: spesa solidale, consegna dei medicinali, baby-sitting, sportelli legali, utilizzo di pc e tablet….
Quanto ho letto ed ascoltato direttamente da coloro che hanno agito percorsi di questa natura, mi fa dire che sono almeno tre gli aspetti che dimostrano quanto queste esperienze pratiche di cura, possono avere carattere trasformativo dell’esistente.
In primo luogo tali pratiche hanno consentito l’attivazione di centinaia di donne ed uomini, in prevalenza giovani, che hanno agito attività di riproduzione sociale non orientate al profitto sperimentando quanto la solidarietà possa avere una dimensione politica se non viene vissuta solo come azione caritatevole ma come modalità di partecipazione,attiva e consapevole, per dare risposte concrete a bisogni specifici.
Inoltre queste esperienze di neo-mutualismo e solidarietà, come ha sostenuto Nicoletta Gini, della casa del popolo di Lucca, durante il seminario, organizzato in remoto da IFE Italia lo scorso 5 dicembre su “Bisogni e cure. Le politiche di welfare al tempo del covid”, non sono state pensate per mettere una pezza alle assenze del sistema pubblico o peggio per offrigli una stampella ma al contrario per leggere i bisogni specifici del territorio e costruire legami collettivi e solidali potenzialmente capaci di indicare un nuovo modello di organizzazione e di risposta ai bisogni con possibili ricadute trasformative sul sistema pubblico di welfare. E’ interessante notare come questo stessa potenzialità sia stata ribadita, nel medesimo seminario, anche da Silvana Cesani, già assessora comunale alle Politiche sociali nel Comune di Lodi, che, vista la situazione in cui versa il sistema pubblico stressato dalle riforme in senso privatistico imposte dalle politiche neo-liberiste, pur auspicando azioni di difesa di quanto resta del sistema pubblico dei servizi non nasconde le difficoltà di quest’ultimo a comprendere e quindi a rispondere adeguatamente ai bisogni posti dalla realtà odierna. A proposito di positive ricadute sul sistema pubblico di pratiche di autogestione mi vien da ricordare sia l’esperienza dei primi consultori autogestiti e dei centri per la medicina e/o la salute delle donne, nati negli anni ‘70 dentro il grande movimento femminista che fu uno dei protagonisti di una indimenticabile stagione di lotte, sia la creazione, negli anni ‘90, di centri anti-violenza autogestiti da associazioni femminili e femministe che ancora oggi offrono uno spazio e un aiuto preziosi alle donne che subiscono violenza.
Il terzo aspetto degno di nota mi pare il fatto che tali esperienze hanno dato vita a legami imprevisti che hanno consentito una contaminazione reciproca capace di valorizzare la prossimità ed abbattere il muro di indifferenza che caratterizza il modello sociale nel quale siamo immerse/i, come hanno spiegato Marie Moise e Lorenzo Zamponi nella giornata di studio su “ Cura, resilienza e resistenza durante ed oltre la pandemia” tenutasi domenica, 18 ottobre 2020 a Milano, presso lo Spazio di mutuo soccorso Ri-make ” “Ricostruire nel riconoscimento reciproco e nella cooperazione l’unità solidale tra le persone, che la logica della competizione e dello sfruttamento distrugge, significa sperimentare, come direbbe Erik Olin Wright, delle utopie reali di uscita dal capitalismo. Un percorso fatto di solidarietà, ma anche di conflitto e di sfida per il potere politico”.
Le esperienze di neo-mutualismo nel mettere al centro le persone e praticare esperienze di solidarietà orientate alla cura indicano che quest’ultima possa divenire, forse, un elemento importante per una ricomposizione sociale fondata su forme alternative di relazione fra le persone, sull’ autodeterminazione e sul protagonismo individuale e collettivo.
Una ricomposizione sociale che potrebbe auspicabilmente avere ricadute positive sul piano politico.
Cambiare noi stesse/i
Si può immaginare una trasformazione economica, sociale, politica senza un cambiamento, individuale e collettivo, dell’essere umano?
Il sistema capitalista, a braccetto spesso con quello patriarcale, nel suo agire concreto non modella “solo” i modi della produzione, le relazioni sociali, le forme della politica. Esso agisce anche sui corpi, sui bisogni, sui sentimenti, sulle emozioni, sui desideri. La mercificazione del tempo e dello spazio condiziona il pensare, produce immaginari, discorsi, abitudini, struttura una mentalità e un senso comune che vede nel possedere, nell’apparire, nella potenza i tratti salienti del vivere.
La pandemia, in un certo senso, potrebbe consentire, anche a questo livello, una feconda rielaborazione del nostro essere ed esistere.
Il distanziamento sociale e la solitudine che stiamo forzatamente sperimentando fa vacillare la dimensione umana più importante che è quella dell’essere e del sentirsi in relazione. Come ebbe a dire Gramsci “ Cultura non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi si sente in relazione con tutti gli altri esseri”.
Eppure al contempo il distanziamento dei corpi, cui ci costringe il contenimento del contagio, rende evidente quanto si è vulnerabili se si è sole/i, quanto la solitudine generi incertezza e inquietudine, quanto nessun@ possa “salvarsi” da sol@. E quanto le ingiustizie, le violenze ( penso in particolare quelle maschili contro le donne che durante il confinamento sono esponenzialmente aumentate), le gerarchie sociali siano piombo nelle ali perché non servono per nulla a farci uscire dal buco nero in cui ci costringe la diffusione del virus.
Non so se tutto “andrà tutto bene” o se “ne usciremo migliori”. I sistemi di dominio sono potenti e pervasivi e non basta uno sforzo volontaristico per abbatterli. Né i rapporti di forza attuali consentono facili ottimismi.
Credo però che vi sono momenti in cui si aprono spazi per provare a trasformare e a trasformarci. Mi verrebbe da aggiungere per migliorare noi stesse/i e quindi il mondo. Migliorarci non “per essere “i migliori” ma per tentare “ in un’epoca di offuscamento delle coscienze, di cambiare, cercando di essere migliori e non “i migliori”, tentando quindi di perfezionare la propria interiorità e non di superare gli altri in una tensione agonistica aggressiva” come scrive Vito Mancuso nel suo libro “La forza di essere migliori”.
Forse in questo tempo di passaggio potrebbero essere poste domande corpose sul senso dell’essere e dell’esistere. E potremmo far divenire queste domande occasioni di confronto e di approfondimento come si è soliti fare sulle questione economiche, sociali, politiche.
“Dove sta la particolarità dell’umano, se non in un senso di responsabilità, di intelligenza, di creatività, di cura, appunto? (…) Tanto più, allora, “cura” significa non soltanto far fronte all’emergenza, ma elaborare pensieri, fare profezie, scegliere le priorità, orientare le abitudini, studiare, soccorrere, aiutare. Senza timore, possibilmente, di guardare in faccia anche ciò che forse non si vorrebbe guardare.” come scrive Gabriella Caramore ne “Il tempo ultimo”.
A mo’ di conclusione
Ecco, tutto ciò detto, per me “cura” non può che tradursi nell’azione del “prendersi cura” orientata al cambiamento di prospettiva e all’alternativa di società e capace di muoversi su dimensioni diverse, benchè intrecciate, in grado di dare conto della complessità del reale.
Come scrisse qualche anno fa efficacemente Naomi Klein “prendersi cura è la rivoluzione”.
Forse siamo ancora in tempo a provarci.
Riferimenti bibliografici:
– Daniel Finn “La Peste nera e la nascita del mondo moderno” in Jacobin, n. 7 / estate 2020;
– Siegmund Ginzberg “ Racconti contagiosi”, Feltrinelli editore , prima edizione in “Varia” novembre 2020;
– “L’impronta ecologica delle donne” Sara Pollice intervista Yayo Herrero , intervista esclusiva, in forma di video, per la IX edizione della Scuola politica di Befree Cooperativa , Stiffe/ L’Aquila /27 agosto/1 settembre 2019 in Jacobin, 5 ottobre 2019 ;
– Giorgia Serughetti “Il perturbante lavoro domestico” in Jacobin n. 7 / estate 2020;
-Antonio Gramsci, Quaderni del Carcere, 1929-1935 ;
– Vito Mancuso “La forza di essere migliori”, edizioni Garzanti 2019;
– Gabriella Caramore “Il tempo ultimo” in DoppioZero, rivista online, 18 ottobre 2020;
“Prendersi cura degli altri è la rivoluzione” intervista a Naomi Klein di Laurie Penny, in “Internazionale” on line, 16 luglio 2017