Dalla tecnocrazia della selezione al fascismo procedurale: perché difendere l’asilo oggi significa combattere per la democrazia
I due articoli pubblicati dall’Economist, “Scrap the asylum system” e “Making asylum work”, non sono semplici provocazioni intellettuali. Rappresentano, con una chiarezza glaciale, la codificazione – già delineata con il New Pact on Migration and Asylum del settembre 2020 – di una dottrina che rischia di diventare egemone: quella del superamento del diritto d’asilo come diritto universale e soggettivo, sostituito da una logica selettiva, geopolitica, economicista.
L’asilo non più come strumento di giustizia sancito da convenzioni internazionali, ma come concessione discrezionale, gestita secondo criteri di compatibilità.
Il linguaggio utilizzato è volutamente tecnico, calcolato: si parla di “efficienza”, di “governo dei flussi”, di “riforma razionale”. Ma l’esito è brutale: la normalizzazione di un nuovo regime globale di apartheid umanitario. Un sistema dove soltanto alcuni avranno accesso alla protezione e alla mobilità, mentre altri verranno trattenuti, contenuti, scartati.
Il progetto, nella sua essenza, è tanto semplice quanto obsoleto: separare fin dall’inizio le persone provenienti da Paesi in cui almeno il 75 o l’80% di chi fugge avrebbe diritto a forme diverse di protezione, aumentare le possibilità di rinchiudere chi è in attesa dello status – che dovrebbe garantire la salvezza – e deportare coloro che giungono da Paesi ritenuti sicuri, secondo i canoni della “democratica” Unione Europea. Ogni Stato membro dovrebbe ospitare un certo numero di richiedenti asilo, proporzionale al PIL e al numero di abitanti. Ma tale criterio, in realtà, non ha valore cogente. Gli Stati che rifiutano l’accoglienza possono versare, in alternativa, venti mila euro per ogni persona rifiutata, che saranno destinati a un apposito fondo UE. Dovrebbero poi farsi carico, non è ancora chiaro se attingendo a questi fondi o versando un surplus, se necessario, dei rimpatri.
Una copertura ipocrita, pensata per aggirare il Regolamento di Dublino, che già governi come quello ungherese hanno dichiarato di non voler accettare. Quando si è discusso del New Pact, che prevede – almeno formalmente – maggiori garanzie per le persone ritenute vulnerabili, ma impone al contempo la schedatura dattiloscopica su Eurodac anche per bambini sopra i sei anni e introduce deroghe (come il blocco degli ingressi o l’aumento delle deportazioni) in caso di discrezionali situazioni di “affluenza superiore alla compatibilità”, le destre estreme vi si sono opposte. E non per difendere i diritti: per irrigidirlo ulteriormente.
Italia e Von der Leyen: un asse pericoloso
Questa trasformazione non è una minaccia futura: è già realtà. L’Italia ha svolto un ruolo da pioniera in questo processo, dapprima con gli accordi con la Libia, poi con il patto con l’Albania, che esternalizza la procedura d’asilo in territori formalmente estranei al diritto dell’Unione Europea. Ancora più allarmante è il sostegno che questo modello riceve dalla Commissione Europea. Ursula von der Leyen ha più volte definito l’approccio italiano un “modello esportabile”, legittimando un meccanismo che viola apertamente il principio di non-refoulement e svuota la Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE.
Il principio di non-refoulement, già disatteso per oltre 150.000 persone respinte illegalmente verso la Libia dal 2017 ad oggi, grazie al Memorandum of Understanding siglato dal governo Gentiloni (e firmato dall’allora ministro Minniti), rinnovato ogni tre anni, trova oggi una nuova applicazione: può essere esteso a ogni frontiera. I tentativi – finora numericamente marginali ma simbolicamente potenti – di delocalizzare in Albania le persone giunte in Italia rappresentano solo l’inizio. Simili accordi l’Italia e l’Ue li ha presi con la Tunisia nel 2023, un altro Paese affatto “sicuro” secondo i canoni di rispetto essenziale dei diritti e della dignità umana.
Ed è significativo osservare come Paesi molto diversi fra loro – Olanda, Danimarca, Germania, Svezia – stiano approntando sistemi per esternalizzare non solo la gestione dei richiedenti asilo, ma anche quella dei detenuti di origine straniera e, in alcuni casi, dei detenuti tout court. Siamo agli albori di un processo che, se dovesse consolidarsi, segnerebbe una trasformazione radicale: l’Unione Europea diventerebbe un continente penale. Troverebbero così compimento – forse definitivo – quei tentativi di neutralizzazione dei fondamenti giuridici del diritto umano che i capi di Stato amano esibire nei discorsi ufficiali.
Eppure si tratta, lo ripetiamo, di un processo lungo, che ha attraversato tutta la storia dell’integrazione europea. Basti ricordare il Trattato di Schengen del 1985 – ben prima della nascita dell’Unione – che regolava, e in parte limitava, le possibilità di movimento tra Stati aderenti. In nome del controllo delle frontiere, si sta oggi costruendo un assetto istituzionale post-giuridico, dove la protezione viene sostituita dalla deterrenza e la vita umana è filtrata da algoritmi e “partenariati operativi” con regimi autoritari.
Il paradosso ucraino: due pesi, due misure
Basterebbe una sola domanda per smascherare l’ipocrisia di questa logica: che fine avrebbero fatto gli otto milioni di profughi ucraini, se nel 2022 fosse già stato in vigore il modello oggi promosso per Gaza, il Sahel, il Corno d’Africa, l’Afghanistan, la Repubblica Democratica del Congo o il Sud Sudan?
Per i profughi ucraini – in gran parte donne e bambini – è stata applicata la direttiva UE 55/2001, promossa alla fine dell’esodo dal Kosovo e mai più utilizzata. Per anni, tra gli addetti ai lavori, era conosciuta come “la dormiente”. Solo con l’invasione russa in Ucraina venne finalmente riattivata. Ed è stato grazie a quel dispositivo che si sono potuti creare corridoi umanitari, strutture di accoglienza diffusa, riconoscimento automatico dello status, libera circolazione per l’Europa.
Senza quella direttiva, con ogni probabilità, gli ucraini sarebbero stati confinati in campi ai margini dell’UE, sottoposti a procedure lente e selezioni arbitrarie. Oggi, quell’esperienza positiva rischia di restare un’eccezione. Se il sistema attuale verrà smantellato, non resterà protezione per nessuno – forse nemmeno per i prossimi ucraini – perché, è evidente, la discrezionalità politica si esercita secondo criteri geopolitici, economici, coloniali e razziali. E le scelte di accoglienza finiranno per dipendere da quanto ogni Stato sarà disposto a investire, o a risparmiare.
Diritto e pace: due facce della stessa battaglia
Questa trasformazione si accompagna a un altro processo strutturale: la rinazionalizzazione del riarmo in Europa. Mentre si disgrega il sistema di protezione, crescono i bilanci militari, si moltiplicano le pressioni per la creazione di un esercito europeo o per il rafforzamento della NATO.
La disarticolazione del quadro giuridico europeo non è un effetto collaterale. È una condizione necessaria per accettare la guerra come orizzonte politico. Senza diritti condivisi, senza regole comuni, senza garanzie minime, si legittimano l’emergenza continua, la mobilitazione permanente, la paura come grammatica del potere.
La difesa del diritto d’asilo, oggi, è parte integrante della battaglia per la pace. Difendere il diritto alla protezione non è solo una questione di umanità. È un atto politico. Significa opporsi alla logica del nemico e affermare il principio di eguaglianza universale.
Un nuovo antifascismo giuridico e politico
Questo percorso di erosione entra in conflitto con i movimenti che, pur rivendicando il diritto internazionale e la pace, iniziano a cedere alla tentazione dello smantellamento dell’UE. Una tentazione comprensibile, ma spesso miope, slegata da un’analisi sistemica. Serve oggi, più che mai, rimettere insieme i pezzi, riconnettere le rivendicazioni, impedire che la critica all’esistente si trasformi in complicità con il suo superamento in chiave reazionaria.
La sinistra radicale, ecologista, femminista, pacifista e internazionalista si trova davanti a un paradosso che non può più eludere: come contrastare il terremoto politico che sta demolendo i diritti e i principi del diritto internazionale, senza rafforzare – magari inconsapevolmente – quella stessa disgregazione?
È forse il momento di rilanciare un antifascismo militante e politico, capace di aggregare il fronte più ampio possibile per pretendere una riforma radicale e democratica delle istituzioni europee. Un antifascismo che fissi con chiarezza alcune linee invalicabili: il diritto d’asilo, la pace, l’eguaglianza. Tre architravi di una nuova idea di Europa.
Chi pensa che la dissoluzione dell’UE possa costituire oggi un atto rivoluzionario, dovrebbe chiedersi: cosa verrà dopo, se non esiste un nuovo quadro giuridico a sostituirla?
Il rischio concreto è quello di una governance post-democratica, fondata sui nazionalismi. Una governance in cui il diritto è gestito da soggetti privati, le garanzie sono flessibili, e le frontiere diventano dispositivi intelligenti di esclusione. Un fascismo procedurale, non più basato sulla forza dello Stato, ma su reti di controllo, outsourcing e automatismi, legittimati in nome della sicurezza e dell’ordine.
Riformare, non smantellare
Non si tratta di difendere l’UE tecnocratica, neoliberale e militarizzata così com’è. Si tratta di recuperare ciò che è ancora valido e trasformare radicalmente ciò che va cambiato.
Serve un sistema comune d’asilo, con vie legali d’ingresso, visti umanitari, superamento del Regolamento di Dublino, e divieto assoluto di recludere chi chiede protezione. Serve l’abolizione di Frontex, agenzia opaca e costosa, nata nel 2004 per sorvegliare i confini e oggi trasformata in strumento di respingimento.
Al suo posto, occorre una struttura pubblica, democratica, con mandato esclusivo per il salvataggio in mare, anche nelle zone SAR libiche, tunisine e maltesi, dove oggi non si salva: si cattura o, peggio, si lascia morire.
Condizione indispensabile è la riduzione del potere della Commissione Europea e il riconoscimento di un ruolo reale al Parlamento Europeo, per quanto ancora attraversato da pulsioni di destra e guerre. Per fare questo, serve una vera alleanza transnazionale: tra città rifugio, movimenti sociali, magistratura democratica e organizzazioni civili. Una rete in grado di difendere il diritto come bene comune e costruire un nuovo immaginario europeo.
I due articoli dell’Economist non parlano di futuro in astratto. Parlano di un futuro possibile – e prossimo. Ma non è quello della solidarietà. È il futuro di una società amministrata, separata, chiusa. Un mondo dove la vita è misurata in costi-benefici e il diritto ridotto a codice sorgente.
Tocca a noi decidere. Restare in silenzio, oppure immaginare e costruire una terza via che salvi il cuore giuridico dell’Europa e lo trasformi in base per una nuova convivenza.
Non per nostalgia. Ma per sopravvivenza. Politica. Morale. Civile.
Riferimenti
Scrap the asylum system, The Economist, International edition, July 12th-18th 2025, cover story
Making asylum work’, The Economist, International edition, July 12th-18th 2025
Stefano Galieni e Herta Manenti

