La prossima settimana, il primo settembre, saranno trascorsi sessanta anni dalla nascita ufficiale del Movimento dei “Paesi Non allineati”. Si era nel 1961, in piena Guerra fredda ma il progetto era già partito nel 1955 a Bandung, in Indonesia quando i leader di 29 paesi di Asia e Africa, convocati da uomini politici ormai dimenticati come Sukarno (Indonesia), Nehru (India), Zhou En Lai (Cina), Tito (Jugoslavia). Fu un momento importante per favorire il processo decolonizzazione, per affermare una propria proposta originale alternativa tanto al blocco occidentale che a quello sovietico. Ci furono ulteriori incontri che portarono, a Belgrado, alla nascita dei “Non allineati”, composto da 25 paesi uniti dalla contrarietà all’imperialismo, al vecchio e nuovo colonialismo, Il movimento esiste ancora, anzi teoricamente conta oggi in 120 Stati membri più17 osservatori. L’Argentina ne è uscita nel 1973 per rientrare, come osservatore, nel 1991, la Jugoslavia non ne fa in quanto tale più parte dopo la dissoluzione mentre Cipro e Malta hanno preferito entrare nell’UE. In assenza della divisione nei due blocchi e a causa dei conflitti che hanno coinvolto i diversi Paesi che ne fanno parte, oggi il peso reale, come organizzazione si è certamente ridotto ma alcuni punti programmatici che ne hanno determinato la nascita, fra questi la vocazione pacifista, andrebbero ripresi e rielaborati. Nella lunga e complessa storia del Movimento sono poi emerse più volte le necessità di dar vita a modelli di sviluppo interdipendenti ma non sotto l’egida di una unica potenza. C’era insomma in nuce quello che oggi viene chiamato multilateralismo. Negli anni recenti i diversi paesi hanno anche tentato di dar vita a forme di alleanza, politica ed economica, alternativa all’imperialismo Usa. Purtroppo si è trattato di alleanze che non si sono stabilizzate anche in ragione del fatto che mutamenti politici nei singoli assetti politici hanno portato a dissolvere, almeno temporaneamente tali aspettative. Si pensi a quelli che sono stati chiamati i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina Sud Africa). Per molti hanno rappresentato un’aspettativa interessante in alternativa allo strapotere Usa e UE e per un certo periodo alcune funzioni di riequilibrio economico e geopolitico si sono in effetti determinate. Ma oggi? La pandemia, la conseguente crisi economica in cui si è tuttora immersi e l’affermazione di populismi ultranazionalisti hanno di fatto frantumato i Brics. Il Brasile, uno dei paesi più colpiti dal covid, era già caduto in mano del regime di Bolsonaro che ha portato la potenza economicamente più ricca del continente latino americano, sul lastrico. È possibile che il prossimo anno, con le elezioni, si determini una svolta politica ma il tempo necessario a riprendersi da tale disastro è ad oggi imprevedibile. Secondo i dati dell’ISPI (31 marzo), instabilità politica, calo del Pil (-4%), aumento della disoccupazione (si è quasi al 15%) e crescita dell’inflazione stanno portando il Brasile nel baratro. La distruzione di una parte delle foreste amazzoniche, lo scorso anno e numerosi altri fattori costringono il Paese a guardare soprattutto al proprio interno e a non potersi impegnare dal punto di vista internazionale. Un discorso simile va fatto per l’India. Dal 2014 il Partito Popolare (BJP) è al potere con il nazionalista Narendra Modi e il Paese si è trovato impreparato, come e più degli altri, data la grande popolosità, ad affrontare la pandemia. È notizia di ieri 24 agosto, il governo metterà in vendita nei prossimi anni 25 aeroporti, 160 miniere di carbone, e altre infrastrutture federali, per un valore di 81 miliardi di dollari in base al progetto “National Monetisation Pipeline (NMP)”. La lista delle infrastrutture pubbliche che il governo di Delhi offrirà agli investitori privati comprende anche alcune superstrade, una quindicina di stazioni ferroviarie, e vari impianti e reti per la fornitura di energia elettrica e gas. Le dismissioni fanno parte della convinta strategia di disinvestimento e liberalizzazioni del governo, che intende mantenere il controllo pubblico solo su alcuni settori strategici. Il bisogno di fondi e la politica nazionalista, con forti repressioni interne, ha portato l’India a rimanere anche assente sulla scena mondiale nella fase determinante della crisi afghana, (paese confinante). Un destino avverso colpisce un terzo attore fra i cinque, il Sud Africa. Dopo l’arresto dell’ex presidente Jacob Zuma, per corruzione, in pochi giorni ci sono stati oltre 350 morti. Continuano scontri interni su base locale mentre non si arrestano gli effetti devastanti del covid (il Sud Africa è il paese del continente più colpito) e sono problematiche le relazioni con i paesi confinanti come Zimbabwe e Mozambico da cui si continua ad emigrare per trovare fortuna nella “Repubblica arcobaleno”. Una situazione instabile e critica che non è ancora sotto gli occhi dei riflettori.
E viene quindi da lanciare una provocazione, partendo da quelle che sono le crisi politiche, militari e di conseguenza umanitarie, che si sono determinate negli ultimi anni. In particolare pensando a Iraq, Siria, Libia e, da ultimo, Afghanistan. I paesi che in questi contesti, con ruoli diversi ma non in contrapposizione, stanno giocando un ruolo determinante ma la cui azione, anche qui in maniera diversificata si presenta anche in altri contesti apparentemente meno critici come alcuni stati dell’America Latina e del continente africano sono quattro. Oltre alla Cina che ha di fatto per prima superato la pandemia, dei vecchi Brics, resta la Russia che ha giocato abilmente il proprio ruolo geopolitico mantenendo soprattutto il controllo con le ex repubbliche sovietiche caucasiche. A queste si è aggiunto l’Iran, la cui area di influenza è cresciuta negli anni e la Turchia di Erdogan la cui azione pare inarrestabile. Potremmo, giocando con le parole, dire che si è passati dai BRICS ai TRIC (utilizzando le iniziali dei quattro Paesi), che con troppa facilità vengono analizzati come concorrenti. La crisi afghana ne è la controprova. Il nuovo regime, prima ancora di far impantanare gli accordi di Doha, con tutte le conseguenze, ha stabilito rapporti diplomatici con i 4 paesi citati per veder riconoscere il proprio ruolo in una relazione do ut des. Se – e non è detto – l’evoluzione della situazione afghana procederà verso la formazione dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, potrebbe crearsi questa condizione di equilibrio. La Cina tratterebbe con i taliban in cambio di un diritto di prelazione sulle miniere di litio e di un sostegno afghano per frenare le aspirazioni indipendentiste uigure, minoranza presente nelle aree afghane di confine.
L’Iran sembra interessato alla stabilità della regione soprattutto per evitare che continui l’esodo afghano nel proprio territorio, per salvaguardare la minoranza sciita hazara in Afghanistan e per controllare il 450 km di confine che accomuna i due paesi. Da Teheran, nonostante le antiche divergenze, sono giunti negli anni forti aiuti ai taliban per gli armamenti e a questo si aggiunga il contenzioso con gli Usa per i gasdotti che mai e poi mai Washington vorrebbe veder passare sotto controllo iraniano. La Russia per il nuovo regime non è più il nemico degli anni Settanta, nonostante colui che potrebbe divenire il nuovo presidente afghano, Al Baradari, sia un uomo della vecchia guardia che combattè duramente i sovietici dopo l’invasione. A Mosca interessa che le repubbliche caucasiche, Turkmenistan e Uzbekistan, Tagikistan, non diventino focolai fondamentalisti che potrebbero estendersi alla stessa Russia. Ma interessa anche poter giocare un controllo nell’area vista la situazione di debacle statunitense e la volontà taliban di non isolarsi. Ma un ruolo che riguarda più da vicino l’UE e di conseguenza l’Italia lo sta giocando la Turchia. Nonostante i muri già costruiti ai confini, in Turchia, Grecia ecc.. è inevitabile che i profughi che già da tempo hanno cominciato ad abbandonare l’Afghanistan, cerchino di transitare per la Turchia. Ankara non ha rotto mai i legami con i taliban, i suoi uomini sono ancora nell’aeroporto di Kabul e le relazioni fra i due paesi potrebbero farsi ancora più strette. Ma non basta. L’arma dei profughi, già usata durante il conflitto in Siria, potrebbe riprodursi con chi scappa dal nuovo Emirato. Col risultato che per fermarli in Turchia se non per rimandarli indietro, verso i paesi confinanti (Iran e Pakistan in particolare), Erdogan potrebbe chiedere nuovi fondi all’UE, fondi necessari non certo a soccorrere i rifugiati ma ad affrontare la crisi economica turca e a portare ossigeno nelle casse del regime. Il tutto consentendo al fautore del nuovo impero ottomano, di avere ancora più spazio di quello già conquistato in Siria, Libia, Tunisia. Ma parliamo di una situazione ancora in via di definizione che tuttavia potrebbe configurare un nuovo assetto geopolitico. E in tale contesto Russia e Cina hanno nel frattempo compiuto un atto simbolico. È stata completato nei giorni scorsi la costruzione del ponte ferroviario sul fiume Amur, che collega la città cinese di Tongjiang con quella russa di Nizhneleninskoye. Con i suoi 2.215 metri è uno dei più lunghi ponti ferroviari del mondo e rientra nel percorso della nuova Via della Seta (Belt and Road), perché connette la parte nord-orientale della Cina con la ferrovia Transiberiana, aumentando così la capacità di trasporto ferroviario delle merci con l’Europa. Si tratta del primo ponte ferroviario che collega la Cina con la Russia e il secondo in assoluto, dopo quello stradale inaugurato nel 2019 tra la città cinese di Heihe e quella russa di Blagoveshchensk. I convogli che attraverseranno il nuovo ponte ridurranno di dieci ore il viaggio tra la provincia cinese di Heilongjiang e Mosca, tagliando 809 chilometri di rotaia, offrendo una capacità annua di 21 milioni di tonnellate.
Saranno queste le nuove alleanze?
Lo capiremo presto.