intersezioni femministe

Non solo Ungheria. I diritti lgbtia+ tra Istanbul e Amed

Ripubblichiamo un articolo di Murat Cinar uscito sul  Manifesto del  27/6/2025. Ci è sembrata una lettura intersezionale utile ancora una volta a mappare la complessa rete geopolitica che si intesse dentro, attraverso e all’esterno delle vite delle persone lgbtia+.

Paola Guazzo e Nicoletta Pirotta

 

L’arcobaleno curdo

Murat Cinar

In Turchia l’ultima settimana di giugno è dedicata ai diritti delle persone Lgbtqi+: un momento di visibilità e lotta per una comunità sempre più sotto attacco. Quest’anno il Pride si intreccia con il nuovo processo di pace tra Stato e movimento curdo. A Istanbul e Ankara i cortei si sono svolti all’ombra dei divieti e sono stati repressi dalla polizia. A Izmir è attesa una grande manifestazione, mentre ad Amed (la principale città curda), dopo anni, si è tenuto il primo evento Pride.

«Assistiamo a un degrado globale dovuto alla tolleranza verso la devianza Lgbt. Combatterla è una questione di libertà e dignità», aveva detto il presidente Erdogan il 22 maggio durante il Forum Internazionale della Famiglia. Una posizione condivisa anche dalla ministra delle politiche per la famiglia, Mahinur Özdemir Göktas, che alla tv di Stato Trt ha accusato le persone Lgbt di promuovere una politica di degenderizzazione: «Attaccano i valori sacri della famiglia. Serve un impegno ancora maggiore».

IL GOVERNO ha proclamato il 2025 «Anno della Famiglia» e avviato un gruppo di lavoro per nuove leggi e riforme costituzionali. Tra i promotori, il partito fondamentalista HüdaPar, espressione di parte della comunità curda, propone l’introduzione di reati contro la «propaganda Lgbt». In attesa delle nuove norme, a maggio il ministero ha emesso una circolare che vieta l’uso di termini come «Lgbt», «identità di genere» ed «educazione sessuale inclusiva», giudicati dannosi per la famiglia tradizionale.

Il tutto in contemporanea con il nuovo processo di pace tra lo Stato e il Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, in conflitto dal 1978. Dopo mesi di dialogo con Abdullah Öcalan, il 12 maggio il Pkk ha annunciato il suo scioglimento. Mentre si attendono ora passi concreti su disarmo e nuove basi politiche e giuridiche, richieste sia da Öcalan che dall’organizzazione e a cui Ankara, finora, non ha avanzato alcuna proposta, crescono incertezze e dubbi ma anche speranze da parte di alcuni strati della società.

Rosida Koyuncu è una cineasta queer, artista e rifugiata politica che vive in Svizzera. Si trova in esilio perché in Turchia è stata condannata e trattenuta in carcere a causa delle sue idee e scelte politiche. «Questo processo di pace non deve svolgersi tra lo Stato e il Pkk, ma tra diverse parti della società. Lo Stato oggi parla di fare pace con i curdi, ma delle persone Lgbt e di coloro che sono privati delle loro identità, come gli armeni, non parla – ci dice Rosida – Sono curda e rifugiata all’estero. Mi trovo a lottare contro il razzismo qui in Svizzera e nelle mie terre di nascita contro l’omotransfobia, perché sono una persona queer non binaria. Quindi mi aspetto che nasca una società democratica in cui siamo liberi tutti, in Turchia, Rojava, Siria, ovunque. Le parole pronunciate da Öcalan nella sua lettera indirizzata all’ultimo congresso del Pkk sono un simbolo importante. Per la prima volta si parla delle persone Lgbt. Potrebbe essere il segnale di un nuovo inizio».

Bawer è giornalista-attivista e fondatore del collettivo editoriale queer Velvele, che conta oltre quarantamila follower sui social. Si mostra fiducioso nel nuovo processo di pace: «Nel 1984 la nostra famiglia curda fu costretta a lasciare le terre d’origine e trasferirsi a Istanbul a causa della guerra. Ho visto amici morire, subire violenze, ho partecipato a molti funerali. Solo pensare che la guerra possa finire mi riempie di speranza e felicità».

Sottolinea però l’importanza di un sostegno collettivo al processo, per non lasciare il movimento curdo da solo: «È una fase delicata, capisco le perplessità. Ma non possiamo aspettarci che il movimento curdo risolva tutti i problemi da solo. Sarebbe egoistico. Con un sostegno collettivo possiamo aprire la strada ad altri cambiamenti attesi da tempo. La pace si fa con il nemico: da questo punto di vista, l’attuale governo è l’interlocutore giusto».

Barıs Sulu vive in esilio in Germania. È stata la prima persona nella storia della Repubblica di Turchia a candidarsi alle elezioni parlamentari dichiarando apertamente la propria identità. A causa di questa scelta, nel 2015 ha subito minacce e attacchi che lo hanno costretto a lasciare il Paese.

«PENSO CHE il governo si senta costretto a fare pace con i curdi per pressioni esterne, non perché crede davvero nella pace. Da anni vediamo come sia capace di creare nuovi nemici per polarizzare la società e governare alimentando l’ostilità. Oggi nel mirino ci sono il Chp, principale partito d’opposizione e le persone Lgbt», afferma Barıs, che non ripone grande fiducia nel processo di pace: «Le persone Lgbt vengono presentate come una minaccia. È in corso una raccolta firme per costruire un consenso popolare contro di noi. Si tratta di una tendenza globale che il governo ha deciso di seguire. Vuole costruire una società in cui noi non esistiamo. Per questo, non credo sia in grado di fare pace con nessuno».

Atalay Gocer, invece, è uno dei membri dell’Associazione di Ricerche Culturali per la Pace, Bakat. Anche Atalay riconosce che è in corso una guerra contro le persone Lgbt in Turchia e che ciò faccia parte di una tendenza internazionale, come lo è la politica mondiale contro i migranti: «La difesa della famiglia, esattamente come i confini, fa parte di quella cultura conservatrice sempre più dominante nel mondo», ci spiega Atalay.

L’attuale regime turco, aggiunge Atalay, assumendo queste posizioni conservatrici e incarcerando gli oppositori, fatica a far credere che possa fare pace con qualcuno. Tuttavia, «vari processi di pace sono iniziati in pieno regime antidemocratico. Quindi è fondamentale che le ong presenti in Turchia, le terze parti nel resto del mondo e la società civile siano coinvolti per assicurare che questo processo possa funzionare», è lo spiraglio che lascia aperto Atalay.

Intanto nella città di Amed, a due passi dal confine siriano, il gruppo Sara Kolektif ha organizzato un importante evento Pride: «Abbiamo scelto uno spazio chiuso per rispettare le preoccupazioni delle persone; poi alcuni partecipanti hanno deciso di tenere una breve manifestazione all’aperto, con bandiere, striscioni e balli», racconta Tolhildan, descrivendo l’iniziativa.

Sara Kolektif è un nuovo movimento che Tolhildan presenta così: «Siamo persone curde, donne e queer legate al movimento per la liberazione del popolo curdo. A causa della nostra identità molteplice subiamo emarginazione e non ci riconosciamo nei movimenti politici locali né nelle realtà Lgbt tradizionali».

IL 22 GIUGNO, ispirandosi a una lettera inviata da Öcalan al dodicesimo congresso del Pkk, Sara Kolektif ha organizzato un evento di «visibilità e autocritica». Tolhildan sottolinea la necessità di unire le componenti oppresse all’interno del movimento curdo: «Nonostante il nostro appello, le organizzazioni locali non hanno partecipato. Noi comunque abbiamo portato avanti l’incontro ricordando le compagne e i compagni caduti in Rojava e altrove, le sorelle trans spinte al suicidio e il popolo palestinese», aggiunge Tolhildan.

Il popolo curdo attende da anni di ottenere risultati tangibili dalla sua lotta per l’esistenza. In questo momento, forse più che mai, l’obiettivo sembra vicino. Contemporaneamente, le persone Lgbt si trovano sotto la minaccia di un governo che vuole eliminare la loro esistenza. Un momento difficile, fragile e confuso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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