di Stefano Galieni – Libia, Iraq, Siria e poi l’aggravarsi della situazione in buona parte dell’Africa occidentale e orientale; l’instabilità dei Paesi da cui è inevitabile avere come unica soluzione per sopravvivere la fuga potrebbe tornare alla ribalta nello scenario europeo e in particolare in Paesi come Spagna, Grecia e Italia, unici spiragli di salvezza rimasti.
Dalle coste libiche in queste ultime settimane sono giunte poche persone. Molte le cause: il mare cattivo, la difficoltà di raggiungere alcuni porti ormai in mano unicamente a milizie prive di controllo, il caos che regna intorno a Tripoli e Sirte, il predominio marino della cosiddetta Guardia costiera libica a cui spesso viene ceduto il controllo anche della zona SAR (Search And Rescue) maltese.
Da aggiungere poi che mancano testimoni ai naufragi che si continuano a verificare davanti alle coste (solo Allarm phone riesce a dare notizie di alcuni), e dei respingimenti collettivi – illegali – di cui continua a rendersi complice il governo italiano attraverso le segnalazioni effettuate alle motovedette made in Italy ma battenti bandiera libica. Ma cosa potrà accadere nei prossimi giorni?
Gli scenari sono diversi. Se il governo Serraj riuscirà a riprendere il controllo di Sirte e a fermare l’avanzata dell’uomo forte della Cirenaica, il generale Haftar, sarà solo grazie al supporto militare che verrà fornito da Erdogan che ha già inviato propri ufficiali a guidare milizie jahediste preparate, armate e organizzate.
Questo darà al sultano turco un potere contrattuale duplice verso l’Europa – permane la minaccia di utilizzo dei rifugiati siriani in Turchia – che sarà accompagnata da un nuovo ruolo nel Mediterraneo centrale. Ma tali presenze potrebbero provocare anche in Libia ulteriori contrasti interni che renderebbero la vita di autoctoni e migranti estremamente problematica. Molti potrebbero cercare di imbarcarsi e l’esito, le modalità, le possibilità reali di riuscirvi dipenderanno dal potere reale di chi avrà il controllo delle zone portuali.
Divenuta problematica la partenza dalle aree più vicine a Tripoli, restano i porti di Zuwarah, Misurata, ad ovest della capitale verso il confine tunisino e ad est come Khoms e Garabulli, su cui però più si fanno già sentire gli effetti della guerra. Le notizie che giungono dai 33 centri di detenzione ufficialmente presenti in Libia, in particolare da Bani Walid, in cui, se possibile, stanno peggiorando le condizioni di vita, lasciano presagire che tentativi di fuga ce ne saranno ma saranno più costosi e più rischiosi per chi ci proverà. La realtà è che in assenza di possibili soluzioni diplomatiche, già oggi difficili ma che con l’arrivo di turchi e, in soccorso di Haftar di egiziani, renderanno tutto ancora più imprevedibile.
L’Europa, se volesse provare a giocare un ruolo significativo nella regione dovrebbe farsi carico anche dei richiedenti asilo che – sia ben chiaro – non rappresenterebbero numericamente la tanto paventata “invasione” ma comporterebbe una gestione che nessuno degli Stati membri sembra volersi prendere in carico. Basti pensare al fatto che le stesse navi di Frontex e delle altre missioni che dovrebbero vigilare il Mediterraneo si mantengono ben lontane dalla Libia e le stesse poche imbarcazioni umanitarie delle Ong che stanno riprendendo il largo a proprio rischio – i decreti sicurezza non sono ancora stati messi in discussione – lungi da essere pull factor, potranno al massimo evitare qualche ulteriore vittima. Un dato su tutti: nel 2017 una persona su 38, in base a calcoli approssimativi, trovava la morte nel viaggio, nel 2018, 1 su 14, oggi 1 su 7, segno che se il numero di persone è diminuito quello delle vittime della Fortezza Europa è in costante aumento.
Il caos in Libia potrebbe portare poi chi ci riesce a oltrepassare il confine e a tentare di passare dalla Tunisia, tragitto più breve e ad oggi meno rischioso ma che non risolverebbe affatto la crisi umanitaria che si prospetta. Questo perché se i venti di guerra divenissero, come probabile, tempesta, ripartirebbero persone da Iraq e Siria, gran parte di loro cercherebbero, come hanno sempre fatto, rifugio nei Paesi dell’area, dal Libano alla Giordania allo stesso Egitto, ma una parte vorrebbe provare a bruciare le frontiere verso l’Europa.
Non a caso, già da prima che il conflitto riesplodesse con la sciagurata operazione terroristica messa in atto da Trump, è oggi la Grecia a subire la maggiore pressione. Esuli dal nord siriano invaso dai turchi, a cui si potrebbero aggiungere coloro che, giunti in Libia, magari anche per lavoro da anni, avrebbero come una strada meno rischiosa quella di attraversare l’intero Nord Africa e provare per le vie terrestri. I tempi sarebbero lunghissimi ma la possibilità di trovare salvezza migliore. Non a caso il campo di Moria nell’isola di Lesbos in Grecia è oramai stracolmo, si stanno riattivando le Balkan routes, e le notizie che giungono da quei Paesi sono a dir poco drammatiche, con uomini donne e minori che si muovono in condizioni ambientali impossibili. Non fanno quasi notizia ma di morti caduti nel fiume Isonzo, al confine sloveno con Gorizia, o sul Carso, se ne contano periodicamente. Ma siamo solo all’inizio.
Gli effetti di un inasprimento e di un allargamento delle aree di conflitto faranno sentire i loro risultati fra qualche mese, anche in base all’evolversi della situazione militare. Se l’Europa resterà incapace, come finora ha fatto, di fornire risposte non solo di carattere repressivo ma che contemplino anche l’accesso legale di chi vuole solo salvarsi la vita potrebbero anche riaprirsi spazi di diplomazia reale. Altrimenti si sarà complici dell’ennesima catastrofe.