Il punto critico è di natura politica ed economica ma ad intervenire, sembrano esserci, come attori, la magistratura e le organizzazioni umanitarie. Da questo bisogna partire per tentare di comprendere quanto sta avvenendo da troppo tempo in Italia e, di fatto, nell’intero contesto europeo, in tema di richiedenti asilo e persone migranti in arrivo. Il governo in carica sembra voler puntare tutto sulla realizzazione dei nuovi centri per il rimpatrio delocalizzati in Albania. La loro apertura è continuamente ritardata per numerosi fattori: le strutture da utilizzare non sono ancora pronte, il personale italiano che ci “lavorerà” non è ancora formato, resistono cavilli burocratici e, probabilmente, il governo di Tirana esige maggiori garanzie prima di rendere stabilmente funzionanti tali strutture contrarie a numerose normative internazionali. Secondo le ultime indiscrezioni, le prime persone potrebbero entrare nei centri albanesi a novembre, chissà magari in concomitanza “casuale” con alcune elezioni regionali. Intanto si sta assistendo ad una ulteriore militarizzazione del Mediterraneo Centrale e aumentano le azioni di contrasto all’intervento delle navi umanitarie delle Ong per portare in salvo le persone recuperate. I dati del 2024 dimostrano un calo enorme delle persone approdate 40.164 a fronte delle 113778 nello stesso periodo del 2023. Un calo dovuto a numerosi fattori come le tensioni in Libia che scoraggiano le partenze e la repressione attuata in Tunisia, paese in cui si deportano le persone a ritmi impressionanti, in cui gran parte dei diritti sono sospesi ma che per l’Europa è un “paese sicuro”. Da aggiungere il fatto che sono state incrementate le collaborazioni con le Guardie costiere di Libia e Tunisia affinché queste possano intervenire, per commissione, a riportare indietro chi fugge e non si contano le volte in cui la stessa Marina italiana ha di fatto riconsegnato, illegalmente e senza alcuna identificazione, i fuggitivi a coloro da cui scappavano.
Le forze politiche di opposizione, al di là di dichiarazioni di principio, non sembrano voler assolutamente disturbare il manovratore, col risultato che, in attesa che nel 2026 giunga la mannaia definitiva del Patto Europeo su Immigrazione e Asilo, gli unici attori che svolgono un ruolo positivo sono le Ong e parte della magistratura. Le navi di soccorso in mare indipendenti, legate a organizzazioni non governative, che vivono grazie al sostegno di donazioni, peraltro accertabili nei bilanci, hanno iniziato ad intervenire stabilmente a fine agosto del 2014, quando già era chiaro che l’Operazione Mare Nostrum, iniziata dopo la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013, composta da navi militari italiane, che in un anno salvò quasi 190 mila persone spingendosi fino al confine delle acque territoriali libiche, non sarebbe più continuata. Al suo posto iniziò una missione europea di Frontex, chiamata Triton, il cui scopo principale non era salvare ma proteggere i confini e che aveva un raggio d’intervento molto più limitato. Non a caso il 2015 fu caratterizzato da un’impennata dei naufragi e del numero delle vittime. Ma torniamo a quella fine di agosto quando la nave Phoenix della ong Moas, salpò dal porto della Valletta, per fare volontariamente quello che il governo maltese non voleva fare.
Di lì a pochi mesi, le navi Ong divennero fondamentali non, come ancora dichiarano dimostrando malafede e ignoranza, pull factor (fattori di attrattiva per partire verso l’Europa), ma soprattutto testimoni di violazioni di diritti come il principio di non refoulement (è illegale effettuare respingimenti collettivi). Lo dimostrano i dati concreti, indipendentemente dal numero di persone partite da Libia, Tunisia, Egitto, Algeria, Turchia, per fare gli esempi più concreti, la percentuale delle persone che sono riuscite ad evitare di finire nell’immensa fossa comune chiamata Mediterraneo, è in 10 anni, con oscillazioni in alcuni periodi del 17% rispetto al totale delle persone approdate, circa 175mila persone su almeno 1milione di persone soccorse. La maggior parte dei soccorsi avvengono grazie all’intervento della Marina Militare o delle navi commerciali i cui comandanti preferiscono obbedire alle leggi del mare che ai decreti dei vari Minniti e Salvini. Già nel 2017 iniziò appunto sotto un governo di centro sinistra, la campagna denigratoria e criminalizzante verso le navi di soccorso delle organizzazioni umanitarie. Articoli sui giornali in cui si alimentavano dubbi in merito ai bilanci delle organizzazioni che le gestivano divennero l’altra faccia della medaglia degli accordi siglati in sede UE con la Turchia e dall’Italia con la Libia (Memorandum Of Understanding ancora in vigore), attraverso cui si elargivano soldi, armamenti, addestramento e investimenti, a condizione che i governi di detti paesi bloccassero le partenze. Con la Turchia questo ha funzionato in parte, con la Libia, tuttora divisa, mai. Con il governo Conte1 e i decreti Salvini le cose sono immediatamente peggiorate. L’allora inquilino del Viminale decise di negare l’attracco alle navi che avevano effettuato soccorsi, sia di Ong che persino militari (si pensi al caso della Diciotti), lasciando al largo centinaia di persone con scarsi soccorsi. I tempi medi di attesa per poter entrare in un porto furono di 9 giorni, inaccettabili tanto per gli equipaggi ma soprattutto per chi era sfuggito ai lager libici. Salvini fu numerose volte inquisito per “sequestro di persona” di questo si trattava, alcuni processi sono ancora in corso ma finora, alla fine i tribunali non hanno ritenuto opportuna alcuna condanna. Sul finora torneremo alla fine.
Alla fine però le navi entravano nei porti, in Sicilia o in Calabria, si procedeva spesso al sequestro delle imbarcazioni, a volte in quanto l’Ong era accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, altre perché si riscontravano nelle navi assurde carenze di equipaggiamento per le attività di soccorso e si tentava di lasciarle a marcire nei porti dopo aver multato in maniera spropositata i proprietari e, sovente, anche arrestato gli ufficiali che le guidavano. Col Conte 2 diminuirono i fermi e le multe, ma l’atteggiamento verso le navi umanitarie rimase criminalizzante. Un nuovo duro colpo è stato assestato mediante il “Decreto Cutro” (legge 50/2022), che fra le tante nefandezze contempla il fatto che le navi che prestano soccorso sono obbligate a dirigersi immediatamente verso il porto che viene indicato dalle autorità italiane, senza, detto in maniera edulcorata, fermarsi ad effettuare “soccorsi multipli”. Il tempo di permanenza in mare si è più che dimezzato – in media 4 giorni – trascorsi soprattutto a raggiungere il porto di destinazione, spesso ubicato sulle coste del centro nord. Prima di tale ignominia la distanza media percorsa per raggiungere il place of safety era di 65 miglia, ora di 420, nonostante il numero medio delle persone soccorse, proprio a causa del divieto di operare ulteriori salvataggi sia passato da 190 a 64. Nel 2023 le imbarcazioni hanno dovuto compiere complessivamente 150mila chilometri in più per raggiungere porti come Genova, La Spezia, Ravenna, Livorno eccetera, con un costo aggiuntivo di 8 milioni di euro e ulteriori inutili sofferenze per le persone imbarcate che non sono certo in gita di piacere. E sono ripresi in maniera forsennata i sequestri amministrativi delle imbarcazioni che bloccano le attività di salvataggio mettendo a rischio la vita di molte persone. L’ultimo sequestro, in ordine di tempo, è stato effettuato verso la Geo Barents, imbarcazione di Medici Senza Frontiere fermata per 60 giorni a causa di presunte violazioni delle norme di sicurezza marittima. Il 23 agosto scorso la nave aveva soccorso. “Siamo accusati di non aver fornito informazioni tempestive al Centro di Coordinamento del Soccorso Marittimo italiano (MRCC) e di aver messo in pericolo la vita delle persone. Respingiamo queste accuse, che si basano su informazioni fornite dalla Guardia costiera libica”. Si la fonte è la stessa ripetutamente accusata di crimini e di lesione dei fondamentali diritti umani, la stessa che l’Italia finanzia abbondantemente dal 2017. Drammatico il racconto di Riccardo Gatti, responsabile del team di ricerca e soccorso della nave “Era nel cuore della notte; abbiamo visto persone che saltavano da una barca in vetroresina, che cadevano o venivano spinte in acqua. Il team dei soccorritori non aveva altra scelta se non quella di tirare fuori dall’acqua le persone il più velocemente possibile. C’era un pericolo imminente che le persone annegassero o si perdessero nel buio della notte”. All’Ong è stata inflitta un’ammenda lieve ma, dopo il terzo fermo, da quando è in vigore il decreto Cutro, è stato disposto che per due mesi non possa ripartire. In tutta la sua storia la Geo Barents di provvedimenti ne ha collezionati vari, questo il più pesante. Ora è ancorata e sorvegliata a Salerno, dopo che le 191 persone sbarcate, molti i minori, sono state distribuite fra Campania e Lazio. Smantellare la flotta umanitaria è ora più che mai fondamentale per il governo che non ha affatto gradito il sostegno a tali missioni offerto anche dalla Conferenza Episcopale Italiana. Questo perché nonostante la criminalizzazione, le Ong non si arrendono. Il sostegno ricevuto da società civile, laica e religiosa, in Germania come in Italia in particolare, stanno per ora facendo registrare un aumento delle missioni di salvataggio, passato dalle 3,9 al mese alle 10,4, più di quelle che si registravano nel 2018.
Ma intanto qualcosa si muove anche nelle aule dei tribunali. E torniamo ai malefici effetti della “Legge Cutro” fra cui spiccano due punti nodali e legati fra loro. La “procedura accelerata” per richiedenti asilo che provengono da paesi considerati sicuri, e quindi da rimandare a casa e il conseguente loro trattenimento negli hotspot per attuare l’espulsione. Qualcuno ricorda ancora come la giudice Jolanda Apostolico, del tribunale di Catania, bocciò l’attuazione di tale procedura in quanto in palese contrasto con le normative europee, disponendo la liberazione di 14 cittadini tunisini trattenuti nell’hotspot di Pozzallo. Per tali decisioni partì contro di lei un vero e proprio attacco a base di dossier e intercettazioni con l’obiettivo di delegittimarla, ma tutte si sono rivelate infondate e la Dott.ssa Apostolico è ancora al suo posto. Anzi le sue posizioni sono state condivise e reiterate dagli altri giudici di Catania (e non solo), al punto da indurre il Viminale a chiudere quello che era divenuto un vero e proprio centro di detenzione per richiedenti asilo di Pozzallo in attesa della pronuncia prima della corte di Cassazione e poi di quella di Giustizia europea, in merito alla legittimità della legislazione italiana e alla evidente sproporzione fra l’ingresso come richiedente asilo e la detenzione per “pericoli di fuga”.
Il ministro Piantedosi aveva provveduto a realizzare, dopo ferragosto, un nuovo hotspot a Porto Empedocle, luogo da cui giungono i traghetti provenienti da Lampedusa, quindi in provincia di Agrigento. Ad alcuni cittadini tunisini si era provato ad applicare la stessa procedura sperimentata a Pozzallo, contando in una minore opposizione dei tribunali. Errore. Nonostante il provvedimento del questore di Agrigento, la Sezione immigrazione del tribunale di Palermo, competente su tali provvedimenti, ha disposto, dopo 24 la liberazione dei 4 cittadini tunisini richiedenti asilo, disapplicando ancora una volta la legge Cutro. Da ricordare che già la Corte di Cassazione, nello scorso febbraio, aveva sospeso l’esecuzione di alcune parti di tale legge dichiarando che tale questione è di rilevanza europea e non nazionale. Bocciata quindi la richiesta, squallida, quasi da trafficante istituzionale, presente nella legge, secondo cui il richiedente asilo sottoposto a procedura accelerata, poteva evitare la detenzione in cambio di un versamento di 4.938 euro come fideiussione. Un ricatto insomma, rivolto a chi era giunto o alle proprie famiglie. La reiterata bocciatura delle procedure accelerate, in attesa che si pronuncino gli organismi UE, mette peraltro anche a rischio la delocalizzazione dei richiedenti asilo in Albania dove, secondo gli accordi dello scorso anno, dovrebbero essere portati solo coloro destinati a restare per i 28 giorni massimi previsti da detta procedura.
Ma ripetiamo, sembra che a muoversi possano essere solo i tribunali, anche organizzazioni come OIM e Unhcr tacciono.
E sempre da un tribunale si attende l’ennesimo verdetto sull’operato dell’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini accusato di sequestro di persona e rifiuto di atti di ufficio. I fatti risalgono al 2019, quando la ong spagnola Open Arms aveva soccorso in mare 163 richiedenti asilo e si era poi vista negare lo sbarco. Il leader leghista aveva rifiutato la richiesta di approdo in Sicilia lasciando la nave in mare, con 147 persone più l’equipaggio – 16 vennero fatti sbarcare perché minori, malati o vulnerabili – per 19 giorni. Dovrà tornare in tribunale il 14 settembre prossimo. Nella precedente udienza la Procura aveva disposto l’audizione di 3 agenti di polizia e i legali dell’imputato avevano chiesto un termine per replicare. La requisitoria si dovrebbe tenere in tale data, il reato rifiuto di atti d’ufficio potrebbe andare in prescrizione, qualora l’attuale ministro ai Trasporti e alle Infrastrutture, dovesse essere condannato per “sequestro di persona” (imputazione a cui finora è sfuggito), ci sarebbero inevitabili ripercussioni.
Stefano Galieni