Dalla Cop26 di Glasgow alla Cop27 di Sharm el-Sheikh non è passato solo un anno, ma a dividerle è una guerra nel cuore dell’Europa che dura da un anno.
Sembrano passati decenni e non dodici mesi, dal novembre 2021, quando a Glasgow si discuteva della firma mancata della Russia e della Cina sull’accordo per mettere fine all’uso del carbone, nei tempi stabiliti dagli altri Paesi.
Benché la guerra covasse da mesi, e il prezzo del gas stesse già lievitando per il “nervosismo” dei mercati, ancora alla Cop 26 sembrava possibile un accordo globale per il clima, in qualche misura.
La guerra ci ha fatto fare un balzo indietro di diversi decenni sulla transizione energetica e sulla crisi climatica, con il conflitto è entrato in crisi il concetto stesso di futuro condiviso dell’umanità indispensabile per affrontare a livello globale la transizione, nello stesso tempo la crisi energetica del gas ha rimesso in discussione lo stop all’uso del carbone e delle altre fonti fossili così come lo stanziamento di ingenti finanziamenti su armamenti ha distratto i finanziamenti degli stati necessari per uscire dal tunnel della crisi climatica.
La guerra in Ucraina ci ha messo dinanzi ad una realtà che era già mutata da tempo ma che stentavamo ancora a leggere nella sua interezza e per tutte le conseguenze.
Di guerre ce ne sono sempre state ma la guerra in Ucraina ci mette per la prima volta, dalla seconda guerra mondiale, di fronte a un conflitto fra superpotenze. Stiamo vivendo il passaggio da un mondo unipolare sotto l’egemonia statunitense, che dura almeno dal 1989, dalla fine della guerra fredda, a una nuova fase conclamata di multipolarismo economico e di mercato che non rappresenta solo la fine del dominio unilaterale degli Stati Uniti, che gli USA non sono disposti ad accettare, ma anche la fine del controllo culturale delle potenze occidentali sull’insieme del pianeta.
E si badi bene, il multipolarismo odierno, caratterizzato dallo strapotere del mercato e dal permanere di forme di oppressione dentro gli Stati e fra di essi, non è certo il futuro da auspicare ma segna una fase di mutamento strutturale negli equilibri del pianeta che va ben compreso per poter essere radicalmente modificato.
Ciò apre inevitabilmente a nuove prospettive, foriere di gravi crisi, ma ci mette di fronte anche a nuove possibilità.
Dapprima è il caos, determinato dal crescente disordine a livello internazionale per effetto del quale i vari attori statali e imprenditoriali tendono ad andare ciascuno per proprio conto, massimizzando i guadagni realizzabili nel breve periodo e perdendo completamente di vista la necessaria prospettiva di medio e lungo periodo. Stiamo assistendo ad un vero e proprio imbarbarimento, una forte crisi della legalità a livello internazionale, che vede Paesi come Israele, il Marocco, la Turchia attuare politiche senza precedenti per durezza contro i popoli che sono assoggettati al loro dominio oppressivo, ma anche lobby finanziarie produttrici di armamenti, energetiche, sanitarie, alimentari, mettere in atto politiche di massimizzazione dei profitti senza scrupoli a cui gli Stati si rivelano incapaci di porre freni, limiti, tetti al costo. Il mercato ha vinto su tutti, su ogni possibile regolamentazione internazionale, si deve prendere atto della Incapacità della comunità internazionale a porgli un freno, gli è completamente sfuggito di mano. Gli Stati sono incapaci di porre limiti alle speculazioni, sono incapaci di tassare gli extra-profitti miliardari delle società energetiche sul gas, e finanche di fissare un tetto al prezzo di vendita. Sono inermi, non più attori decisori, nelle scelte necessarie a contrastare il fenomeno del cambiamento climatico, nelle mani dei mercati appunto, della finanza, del sistema capitalistico. Questo fallimento è apparso in tutta la sua evidenza nel fallimento incontestabile della Cop 27 in Egitto, nulla è stato deciso, sebbene siano chiare ormai da tempo sia le cause che le misure da adottare.
È il fallimento del capitalismo globale, eppure, paradossalmente anche di fronte a questo fallimento incontestabile sembra quanto mai impossibile decretarne la morte.
In questo scenario assistiamo al collasso dell’Unione Europea, oramai incapace di sottrarsi agli interessi statunitensi, di essere entità autonoma e indipendente a tutela degli interessi comunitari, anche a costo di gravissimi contraccolpi nazionali, dell’impoverimento generale diffusissimo, accontentandosi di ridursi a macabro simulacro di suprema garante della fedeltà atlantica e dell’ortodossia neoliberista, morta, senza essere dichiarata morta.
La Cop 27 in Egitto, e i mondiali in Qatar sono la conferma che l’imbarbarimento è globale. Il Qatar come in parte l’Egitto, è un paese dove tutte le contraddizioni di un mondo diseguale, ingiusto e feroce sui diritti umani è all’ennesima potenza, dove grande è il sospetto che il consenso alla candidatura sia stato profumatamente comprato con montagne di denaro che coprono la vista del sangue dei 6.500 lavoratori che, sembra, abbiano perso la vita nella costruzione dei magnifici stadi del Qatar.
Barbarie, decadentismo.
Eppure, il passaggio verso un equilibrio internazionale multipolare può essere sia la catastrofe che la fortuna del nostro pianeta, può essere la chiave di volta per agevolare il superamento del sistema capitalistico guardando a quanto sta avvenendo in America Latina con i nuovi governi progressisti, del Brasile, del Cile e della Colombia, ma soprattutto guardando ad un altro continente che si sta facendo strada, l’Africa.
L’Africa non è solo quella della narrativa occidentale, non è solo la brutta copia dei paesi coloniali, la democratizzazione fallita dei “decenni perduti”, dei diritti negati e dell’immigrazione. L’africa più di altre terre è la terra dei grandi contrasti, è il continente della lotta pacifista di Mandela contro l’apartheid, del Ghana e del Senegal, dei buoni governi di Capo Verde e della Mauritius Ed è anche un focolaio di possibilità, un bacino di nuove opportunità di sviluppo che non dovranno per forza ricadere nel vecchio modello produttivistico di sfruttamento capitalista. Un modello anacronistico che ha fallito, come appunto abbiamo detto, non può essere il binario su cui spingere, forzatamente, il fermento del nuovo continente, è qui che va cercata, va lasciato che si ricerchi, una nuova via di sviluppo, un nuovo modello.
Le tracce già ci sono, le possiamo trovare nella piccola economia locale, delle periferie e delle aree rurali, dove comunità di giovani, poveri, a volte disperati, sperimentano nuove forme umili di economia, che si basano, anche per necessità, sui valori della reciprocità, dell’inclusione sociale, e soprattutto, della comunione con l’ambiente.
Lorenzo Fargnoni non ha dubbi, come scrive su Left di novembre, questo sarà il secolo dell’Africa.
Entro il 2100 l’Africa sarà la “nuova” Cina, ci preannuncia.
Molti, negli anni ’80 non avrebbero potuto immaginare lo scenario attuale e le posizioni assunte da potenze come la Cina, l’India e l’Indonesia, ma i numeri e le analisi statistiche ci danno chiari elementi per ipotizzare cosa potrà accadere da qui alla fine del secolo e oltre.
L’Africa, secondo il Fondo Monetario internazionale, nei primi cento anni del prossimo millennio diventerà protagonista. Ma non bisogna aspettare fino al 2100 per vedere i primi segni di una vera e propria rivoluzione culturale che sono già in atto. Si leggono nelle analisi di macroeconomia sullo slancio delle piccole imprese che si stanno lanciando nel mondo dell’innovazione. Partendo naturalmente da alcune aree trainanti, come il sud Africa, la Nigeria e il Kenya, che sono le aree meglio infrastrutturate del continente, la spinta si propagherà a gran parte del continente.
Uno dei fattori più importanti sarà il boom demografico in controtendenza con quello dell’occidente che tende invece a invecchiare velocemente e non registra tendenze di risalita.
Secondo la Population Division dell’ONU la popolazione africana in meno di un secolo quadruplicherà, questo darà una spinta al numeratore del rapporto persone potenzialmente attive/persone inattive, mentre in Occidente l’invecchiamento della popolazione porterà ad un rapporto sempre più negativo.
Questo fatto rende già oggi il tasso medio di imprenditorialità e di imprenditorialità femminile incredibilmente tra i più alti. Le donne coinvolte in attività imprenditoriali, secondo il MasterCard Index of woman entrepreneurs 2021 sono il 26%, mentre in Italia non si spinge oltre il 22%, secondo l’Osservatorio sull’imprenditoria femminile di Unioncamere.
Sono soprattutto, quindi, donne e giovani che si giocano la carta della microimprenditorialità, anche grazie alla crescente digitalizzazione, che in parte supporta la mancanza di infrastrutture territoriali.
Tutto questo naturalmente non è sfuggito all’occhio attento dei grandi investitori esteri, in particolare Cina, Russia e Turchia e questo è da un lato una buona cosa necessaria, dall’altro porta con sé il pericolo concreto di un neocolonialismo di assalto che potrebbe deviare il corso a vantaggio di vecchi modelli di interessi e di interessi lontani dall’Africa.
D’altro canto, ci auguriamo che questa crescita avvenga nella direzione della massimizzazione del potenziale offerto all’Africa dalla natura, per lo sfruttamento delle energie rinnovabili, in un modello circolare, e non, come pure viene rivendicato alla Cop 27, continuando con il sistema lineare dell’energia fossile. Significherebbe perdere la partita del cambiamento definitivamente.
Resta perciò cruciale la funzione direttiva che devono assumere i paesi veramente progressisti che pure stanno registrando delle vittorie significative a livello globale, di cui abbiamo detto all’inizio, e i movimenti globali, che devono trovare e ritrovare lo slancio che li caratterizzava, unendosi alle istanze dei nuovi movimenti giovanili da Fridays For Future a tutti gli altri.
In Italia, quanto sta accadendo nel continente africano sembra sfuggire all’analisi, anche a sinistra. Mentre le destre di governo e di opposizione guardano unicamente all’Africa con la preoccupazione generata dall’arrivo di migranti, prevale ancora, anche fra gli analisti più attenti, unicamente una percezione generalizzata di un continente diviso in 56 Paesi, complesso e contraddittorio in cui le catastrofi climatiche, le carestie, le dittature e i conflitti si accompagnano anche a quei segnali di novità prima accennati il cui futuro non è segnato. Dovremmo, come sinistre di alternativa, aprire canali di interlocuzione più continuativi con i settori di società civile africana, forze sociali e politiche, movimenti, partendo da un principio di parità, nell’ascolto e nella proposta.
È necessario assumere insieme l’intima consapevolezza che è necessario e non rinviabile il superamento del capitalismo, un modello che è in una insanabile contraddizione con la sopravvivenza dell’umanità su questo pianeta.
Paola Nugnes
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Davvero un’ottima e condivisibile analisi, cara Paola e una prospettiva per cui lavorare