… dal Kurdistan all’America latina.
Un’ampia panoramica dell’odierna situazione politica e sociale dell’area latinoamericana e caraibica arricchita dall’esame di una cultura resistente esterna all’area latinoamericana, il Kurdistan, ma in dialogo con gli zapatisti maya del Chiapas.
Il 2022 è stato un anno complesso e contraddittorio in America Latina. La guerra in Ucraina sembra che non riguardi da vicino le popolazioni di queste latitudini, ma l’acuirsi della violenza e dell’estrattivismo sono probabilmente il volto che la guerra globale assume nel nostro continente.
La militarizzazione e la violenza continuano ad essere gli aspetti dominanti, in un anno segnato dall’avanzata del narco-paramilitarismo e dalle continue aggressioni contro i popoli indigeni e i movimenti popolari. Un anno in cui risaltano anche le vittorie elettorali di Gustavo Petro in Colombia e di Lula in Brasile, i due paesi più popolosi della regione sudamericana, ma con politiche regionali finora completamente diverse, come vedremo più avanti.
La militarizzazione è cresciuta in modo significativo, in particolare in due paesi retti da governi progressisti: il Messico e il Cile. López Obrador ha consegnato importanti opere infrastrutturali, come il Treno Maya, alle forze armate, che hanno creato società controllate dai militari per eseguire i lavori. Ha consegnato ai militari anche la sorveglianza degli aeroporti e delle frontiere e ha deciso che la Guardia Nazionale passi sotto il controllo del Ministero della Difesa Nazionale. Il fatto che abbia affidato ai militari la tutela dell’ordine pubblico, contrariamente a quanto aveva sostenuto in precedenza, mostra il livello di militarizzazione del paese. Amnesty International ha affermato che «la militarizzazione della pubblica sicurezza darà luogo a maggiori violazioni dei diritti umani» in un paese in cui la violenza non sta diminuendo.
Il governo di Gabriel Boric, che si definisce di sinistra, ha militarizzato il territorio storico dei mapuche, Wall Mapu, con più milizie armate e dotate di mezzi corazzati rispetto a quelle dispiegate dal governo di destra di Sebastián Piñera. È una risposta agli oltre 500 recuperi di terre dall’inizio della pandemia, una delle più poderose offensive delle comunità mapuche da molto tempo a questa parte. Ma è anche un riconoscere il fallimento dello Stato colonial-capitalista del Cile di fronte al lungo processo di ricostruzione del popolo-nazione mapuche che è «chiaramente mobilitato per l’esercizio del controllo territoriale», come sottolinea dal carcere Héctor Llaitul, il portavoce del Coordinamento Arauco Malleco.1
Sia López Obrador che Boric si sono assoggettati agli obiettivi del grande capitale, ma hanno anche qualcos’altro in comune. In Cile e in Messico, come in altri paesi della regione, il capitalismo sta assumendo un profilo mafioso e criminale, con pratiche che non sono più una deviazione dalla norma, ma sono diventate il nucleo dell’accumulazione del capitale.
Vorrei fare alcuni esempi. In Bolivia, le economie mafiose (oro, narcotraffico e contrabbando) hanno un peso economico decisivo: la produzione illegale di oro, il traffico di droga e il contrabbando ammontano a 7.500 milioni di dollari, mentre le esportazioni superano a malapena i 9.000 milioni. In Perù, il valore dell’oro illegale supera già quello del traffico di droga, e complessivamente queste economie si stanno espandendo in modo vertiginoso. Se in Perù e in Bolivia le esportazioni illegali di oro costituiscono circa il 30% dell’oro totale esportato, in Ecuador raggiungono il 77%, in Colombia l’80% e in Venezuela il 91%.
Ma la cosa più importante è ciò che sottolinea il think tank2 Desco, osservando che «formalità, informalità e crimine fanno parte dello stesso sistema». La produzione illegale mafiosa è parte integrante dell’economia capitalista. Lo dimostra il fatto che gran parte dell’oro illegale esportato dal Perù, un paese in cui esistono dati comprovati, finisce in raffinerie legali in Svizzera e a Miami. Il paese europeo è il primo importatore di oro al mondo, concentrando il 70% dell’oro importato, in gran parte ottenuto illegalmente.
Le conseguenze di queste forme di accumulazione del capitale mafioso sono terribili per i paesi dell’America Latina. In Perù si concretizzano in traffico di terre, tratta di esseri umani, contrabbando, taglio illegale di legname, traffico di droga, traffico di specie animali e vegetali ed estrazione mineraria illegale, specialmente in Amazzonia. Questa situazione è peggiorata con la pandemia, quando c’è stata sia la perdita di posti di lavoro regolari che l’aumento dei prezzi dei minerali, il che ha avuto come conseguenza una crescita del lavoro informale, che ha raggiunto il 77%. Le mafie hanno accumulato molto potere economico; questo ha permesso loro di avere maggiore influenza nella società e nell’apparato statale, conquistando ampi spazi di rappresentanza soprattutto nelle regioni amazzoniche e andine, il che si traduce in una maggiore instabilità politica, dal momento che queste «borghesie emergenti» cercano di legiferare in modo da legalizzare i loro affari e i loro interessi, che oggi si estendono a vasti settori della società: dalle attività economiche illegali alle università private e ad alcune chiese evangeliche.
Il conflitto tra borghesie consolidate e borghesie emergenti, il fatto che queste ultime cerchino di influenzare tutti i partiti (incluso il governo di Pedro Castillo), i loro modi di operare che non riconoscono la legalità, la loro lotta permanente per imporre i loro affari e i loro metodi mafiosi, sono tutti elementi che generano una grande instabilità. In Perù, sono caduti cinque governi in quattro anni. Nei 16 mesi del governo Castillo, ci sono state otto sostituzioni del ministro degli interni, con i relativi cambiamenti ai vertici delle forze di polizia, che hanno accentuato l’instabilità. In 16 mesi di governo, Castillo ha avuto cinque diversi consigli dei ministri e 81 sostituzioni di ministri, una ogni 6 giorni, il che ha paralizzato la pubblica amministrazione e ha mostrato la sua incapacità di gestire lo Stato.
Sebbene il caso peruviano sia davvero estremo, ciò che predomina in America Latina in questi anni è l’instabilità, la crisi di governabilità. Argentina e Bolivia hanno situazioni abbastanza simili. Il governo di Alberto Fernández naviga su un’inflazione del 90% all’anno e una crisi economica e politica quasi permanente, con la povertà che ha raggiunto il 40% della popolazione (35,5% secondo i dati ufficiali), con un governo che si dichiara popolare. In Bolivia, la lotta di Evo Morales contro il governo del suo stesso partito, guidato da Luis Arce e David Choquehuanca, genera un’enorme instabilità. Qualcosa di simile accade nel caso del governo ecuadoriano, che ha la minoranza in parlamento; il presidente Guillermo Lasso ha lanciato una crociata contro il traffico di droga e la criminalità con l’obiettivo di legittimare il suo governo impopolare.
È ancora troppo presto per valutare il governo di Gustavo Petro. In ogni caso, ha consolidato la sua alleanza con il Comando Sud degli Stati Uniti, dichiarando che nessuna delle sette basi gestite dal Pentagono in Colombia sarà rimossa, anche se per il momento i rapporti con il Venezuela sembrano meno tesi. L’accordo raggiunto con la federazione degli allevatori di bestiame, che hanno creato e sostengono gruppi paramilitari contro i contadini e le popolazioni indigene e nere, mira a legalizzare le terre che sono state espropriate con la violenza e ad assegnarle sotto il titolo di «riforma agraria». Tuttavia, coloro che avranno accesso a quelle terre saranno assoggettati alle catene produttive controllate dai suddetti allevatori di bestiame (o meglio, narco-allevatori), il che è un segno della debolezza del governo di fronte alle mafie capitaliste.
Non poche persone credono che l’arrivo di Lula al governo possa smuovere le cose in Brasile e in tutta la regione, riaprendo la strada dell’integrazione (l’Unasur3 non esiste più) e favorendo un nuovo clima che promuova riforme interne. Questa visione perde di vista due fatti centrali: la polarizzazione politico-militare nel mondo e politico-sociale in America Latina e in Brasile, sommata alla ‘istituzionalizzazione’ dei principali movimenti; tutto ciò porrà degli ostacoli difficili da superare.
Un esempio di queste difficoltà è il vicepresidente scelto da Lula, Geraldo Alkmin, che è stato il suo più grande avversario politico negli anni della sua presidenza, dal 2003 al 2011. L’assegnazione della vicepresidenza mette in luce i rapporti di forza in Brasile, con una destra potente che controlla il Congresso e si opporrà decisamente ai cambiamenti. Ma rivela anche le scelte di Lula, che intende promuovere un governo molto moderato, più di quello dei suoi primi due mandati. Per completare il quadro, i movimenti sono molto deboli e soprattutto si sono sottomessi alla logica del Partito dei Lavoratori (PT) e di Lula, per cui non faranno una politica indipendente. Il movimento indigeno, quello che si è maggiormente mobilitato sotto il governo di estrema destra di Bolsonaro, può essere neutralizzato, dato che Lula ha creato un Ministero dei Popoli Indigeni che sta già dividendo le organizzazioni e le comunità.
Per completare questa breve panoramica, dovremmo menzionare il ruolo che stanno svolgendo i popoli organizzati e i movimenti sociali della nostra regione. In generale, possiamo dire che non stanno attraversando il loro momento migliore. Le ragioni sono varie.
La prima e la più importante è la lunga e profonda vessazione che i popoli e le comunità subiscono nel contesto dell’estrattivismo, sia da parte delle multinazionali che da parte di coloro che le sostengono e ne traggono vantaggio, dallo Stato attraverso le forze armate e la polizia, ai narcotrafficanti, ai paramilitari e alle varie milizie che operano nelle aree interessate dall’espansione delle attività estrattive. Questa offensiva non ha fatto che intensificarsi negli ultimi anni, anche se viene da lontano, dagli anni 1990 o anche prima, quando il neoliberismo è sbarcato nel nostro continente.4 Ciò che si vive sul terreno è una confluenza di gruppi armati che sono fra loro complementari, dal momento che puntano tutti contro quel settore della popolazione che continua a resistere in modo organizzato al modello che si vuole imporre. Gli omicidi di leader della resistenza, come Berta Cáceres o Samir Flores (in Honduras e in Messico), e l’aumento vertiginoso dei femminicidi e della scomparsa di persone hanno trasformato la lotta sociale pacifica in qualcosa di estremamente pericoloso. Per non parlare delle minacce permanenti, delle molestie e degli attacchi da parte dei grandi mezzi di comunicazione asserviti al potere, che riescono a trattare come atti di «terrorismo» la resistenza mapuche o le occupazioni pacifiche di terre da parte di coloro a cui erano state rubate. Interi popoli come i mapuche sono considerati dai mass media come criminali, contro i quali è ammessa qualsiasi azione violenta.
Questa offensiva permanente ha indebolito molti movimenti, in cui è rimasto solo il nucleo organizzativo più saldo dopo che moltissime persone si sono allontanate. Di conseguenza la loro capacità di mobilitazione sta risultando indebolita dall’assedio condotto in particolare dalle mafie paramilitari e dai narcotrafficanti, che controllano casa per casa le famiglie militanti, come è accaduto durante le dittature e durante il fascismo.
In secondo luogo, le istituzioni statali e i governi progressisti promuovono programmi sociali che dividono le comunità e quindi indeboliscono le organizzazioni. Questi programmi sono in realtà complementari all’estrattivismo. Sebbene dicano di voler combattere la povertà, vanno di pari passo con la militarizzazione delle aree rurali e urbane. Mentre con una mano distribuiscono fondi ‘omeopatici’ ai settori popolari, con l’altra creano le condizioni perché le imprese globali del settore minerario, agricolo, zootecnico e edilizio, tutte legate al capitale finanziario, facciano grandi affari occupando e inquinando i territori dei popoli.
Il grosso problema è che questo doppio atteggiamento, che consiste nell’usare lo stesso linguaggio e le stesse modalità dei movimenti facendo però la politica del capitale, genera un’enorme confusione che, forse, è ciò che questo tipo di governi ‘progressisti’ persegue.
Il terzo problema è in gran parte legato ai due precedenti, ma in modo molto particolare al capitalismo mafioso che sta diventando egemone in tanti paesi e città. Per inciso, ricordiamo che metà della popolazione di Rio de Janeiro (città con dodici milioni di abitanti) è controllata da milizie paramilitari, eredi degli squadroni della morte della dittatura militare (1964-1985).
La domanda che voglio porre è la seguente: che genere di Stato corrisponde a un’economia mafiosa o criminale, che non rispetta le leggi ma impone e distrugge?
È evidente che non è lo «Stato del benessere» né uno Stato più o meno democratico di qualche tipo. Però non è nemmeno una dittatura in cui ogni attività dei movimenti viene perseguita e la loro politica viene criminalizzata. In America Latina, a fianco delle economie criminali abbiamo le elezioni, abbiamo una certa libertà di espressione anche se i mezzi di comunicazione sono fortemente concentrati, abbiamo libertà di organizzazione e di manifestazione, solo però per le classi medie (sindacati e affini) e mai per gli indigeni, la popolazione nera e meticcia, i poveri delle città e delle campagne, le donne e i giovani dei settori popolari.
Credo che rispondere alla domanda formulata sopra sia fondamentale per poter affrontare una seria resistenza a lungo termine. I popoli, le persone che stanno in basso, non possono illudersi credendo che la democrazia esista, perché ciò significherebbe smettere di proteggere i loro luoghi sicuri e lasciare che le forze del sistema si occupino dei loro spazi e territori, dove James Scott afferma che gli oppressi fanno prove di ribellione. Come organizzarsi e resistere in una società in cui nella zona dell’essere c’è democrazia e nella zona del non-essere (per usare le espressioni di Fanon) c’è violenza criminale?
Voglio scegliere di non dare una risposta a questa domanda, perché ciò spetta ai collettivi che stanno resistendo. Gli zapatisti hanno risposto sul piano dei fatti: nelle loro comunità, municipi e regioni hanno intrapreso una resistenza civile pacifica, sviluppando l’economia, la sanità e l’educazione all’interno della resistenza e per la resistenza. Nello stesso tempo hanno promosso la candidatura di Marichuy e un «viaggio per la vita» che ha attraversato gran parte dell’Europa allo scopo di incontrare altri che stanno in basso.
In conclusione, dobbiamo accettare il fatto che il mondo sta cambiando, e continuerà a cambiare, in direzioni molto diverse. A questo punto, penso che dobbiamo ripensare le nostre vecchie strategie e continuare ad approfondire il pensiero critico.
* * *
Uno dei fatti più sconcertanti per noi che ci collochiamo nel campo anticapitalista deriva dal seguente paradosso: accettiamo che il mondo sia cambiato e che le esperienze di presa del potere siano fallite, ma il nostro pensiero critico continua ad aderire a concetti e proposte nate in un altro periodo storico, anche precedente allo sviluppo del campo socialista.
Questa discrepanza tra il mondo reale e le nostre scelte teoriche e politiche è probabilmente una delle maggiori fonti delle frustrazioni e delle debolezze che ci troviamo ad affrontare. In effetti, siamo ancora legati all’idea di rivoluzione incentrata sulla conquista del potere statale, alla costruzione di partiti e organizzazioni gerarchiche, alla pianificazione dei passi da compiere (strategia e tattica) elaborata da un piccolo gruppo di maschi bianchi illuminati, alla separazione dell’etica dalla politica per dare priorità ai fini rispetto ai mezzi, all’azione pubblica rispetto alla crescita interiore, per citare le tematiche più evidenti.
Buona parte delle idee che continuano a plasmare la pratica anti-sistemica sono diventate inferriate che rinchiudono la lotta in una prigione politico/concettuale che impedisce il dispiegamento di energie emancipatrici. La centralità della lotta per il potere, ad esempio, presuppone che tutte le mobilitazioni e le lotte debbano puntare in quella direzione, subordinando le lotte concrete all’obiettivo «finale». Il concetto stesso di «lotta finale» (come recita il testo dell’Internazionale),5 che non può che essere collegato alla conquista del potere, è forse la rete di idee più longeva e meno creativa che si possa immaginare.
Una domanda si impone: perché le persone disposte a dare la vita per una causa hanno così tante difficoltà a mettere in discussione certezze più che messe in dubbio dalla vita? Sembra evidente che non esiste un’unica ragione per questo comportamento, poiché lo sforzo di continuare il percorso della vecchia politica risponde a limiti sia concettuali che psicologici, dato che sottoporre a critica le certezze implica entrare nel campo dell’insicurezza personale, nell’inquietudine e nell’angoscia prodotte dalla mancanza di risposte efficaci a situazioni complesse come quelle che viviamo in questo periodo. Forse per tale motivo, spesso occultiamo i nostri fallimenti ed errori dando la colpa di tutti i nostri problemi all’imperialismo e alle destre, il che fra l’altro ci consente di eludere l’autocritica necessaria per correggere la rotta.
Come invito al dialogo collettivo e alla riflessione, vorrei esporre una mezza dozzina di difficoltà da affrontare se vogliamo mettere in funzione il nostro pensiero critico e incoraggiare la sperimentazione ribelle lungo strade ancora poco esplorate, abbandonando la strada battuta della mobilitazione per avanzare domande che avvicinino i lavoratori al potere, per qualunque via.
La prima consiste nell’attaccamento a certezze che ci permettono di credere, come sostiene Cornelius Castoriadis6 nella sua analisi del marxismo come dottrina. Questo ha dimostrato di avere la capacità di sostenere la lotta per tempi lunghi e in circostanze molto avverse. Tale dottrina, che pretende di essere marxista, è stata elaborata mediante la combinazione della scienza economica con una metafisica razionalista della storia, che si concretizza nelle famose «leggi della storia», che avallano sia l’«inevitabile» trionfo proletario che la millenaria «speranza di una salvezza garantita» (Castoriadis, 1997, pp. 55-56).
Il filosofo greco-francese, concentrando l’analisi sul soggetto anticapitalista, la classe operaia, ci ricorda come nel corso dell’Ottocento quest’ultima «si auto-costituisce, si alfabetizza e si forma da sé», dando vita a individui che confidano nelle proprie forze, pensano da soli, studiano a lume di candela dopo faticose giornate di 14 ore e non abbandonano mai la riflessione critica. Quando il marxismo dottrinale monopolizza, secondo Castoriadis, il movimento operaio, appaiono i suoi effetti devastanti:
[Il marxismo] sostituisce questo individuo con il militante indottrinato da un vangelo, che crede nell’organizzazione, nella teoria e nei dirigenti che la detengono e la interpretano, un militante che tende ad obbedire loro incondizionatamente, che si identifica con loro e non può, il più delle volte, rompere con questa identificazione se non distruggendo se stesso (Ibidem, pp. 56-57).Alcune di queste certezze hanno permeato l’immaginario della sinistra con tale intensità da riuscire a sfidare sia il passare del tempo, sia le realtà geografiche e gli evidenti fallimenti delle rivoluzioni, per diventare dogmi affermati, annullando la possibilità di una riflessione autocritica. L’attaccamento a una teoria semplificata di natura evolutiva, la necessità di avere dirigenti in cui riporre una fiducia quasi assoluta, la centralità dell’economia per spiegare qualsiasi processo sociale e un’idea di rivoluzione incentrata sulla costruzione di un potere centralizzato, rimangono idee vigenti sia nelle forze che scommettono sulla presa del potere sia in quelle che hanno scelto di incastrarsi nelle istituzioni attraverso il percorso elettorale.
In realtà, gran parte di questo immaginario proviene da culture assai precedenti a quella socialista e risale alle tradizioni millenarie dell’umanità, attualizzate dall’immaginario capitalista di natura scientista. Come sostiene lo spagnolo Eugenio del Río, il pensiero socialista ha «radici plurisecolari», che vanno dal Rinascimento e dalla Riforma fino alle origini del cristianesimo, costituendo «un anello nella catena della modernità» (Del Río, 1993, p. 334). È possibile tuttavia che l’eredità più dannosa del marxismo sia la sua cieca fiducia nel progresso, come Benjamin7 sottolinea con acutezza denunciando il conformismo della sinistra dell’epoca: «Nulla ha corrotto la classe operaia tedesca come l’opinione di nuotare con la corrente» (Benjamin, 2010, p. 25).
In effetti, la socialdemocrazia durante i primi tre decenni del XX secolo ha creato una scuola che scommetteva tutto sullo sviluppo tecnico e scientifico, facendo del lavoro in fabbrica, come materializzazione di quello sviluppo, un’azione politica in sé. «La classe disapprese, a quella scuola, sia l’odio che la volontà di sacrificio. Entrambi infatti si nutrono dell’immagine degli avi asserviti, e non dell’ideale dei discendenti liberati» (Ibidem, p. 27).
A questo dovremmo aggiungere un senso di superiorità morale di buona parte dei militanti, perché sentivano di appartenere a una classe che avrebbe trionfato e che possedeva una dottrina infallibile. È del tutto comprensibile, come sottolinea Castoriadis, che uscire da un tale insieme di certezze sia stato estremamente difficile, in gran parte perché metterle in discussione equivaleva a mettere in dubbio la propria identità e il significato di una vita costruita su di essa.
La seconda difficoltà sta nei problemi che derivano dalla conversione di una teoria, sempre incompiuta e approssimativa, in dottrina dalle certezze assolute. È uno dei temi sviluppati dalla femminista nera bell hooks8 nella sua ampia polemica con il femminismo accademico bianco, per molto tempo egemonico.
hooks ha sostenuto che «le pratiche escludenti messe in atto dalle donne che dominano il discorso femminista hanno reso praticamente impossibile l’emergere di teorie nuove e diverse» (hooks, 2020, p. 38). In tal modo l’esistenza di un unico discorso legittimo soffocava la diversità delle voci e impediva alle donne dei settori popolari di unirsi al movimento, con il risultato che il femminismo stava diventando un’ideologia borghese.
Essa ritiene che la tendenza al dogmatismo distrugga la teoria femminista, che è nata da un sentimento di oppressione, pretendendo di porsi al di sopra dell’esperienza viva, scartando gli affetti per dare priorità a un presunto carattere scientifico. A tale proposito cita il libro «The Way of All Ideology» (Il percorso di tutte le ideologie) della filosofa femminista Susan Griffin, che ritiene che «quando una teoria si trasforma in un’ideologia inizia a distruggere il suo essere e la sua auto-conoscenza», si attribuisce ‘la’ verità e mira a «disciplinare la gente» perché segua coloro che detengono il sapere/potere. «Tutto ciò che non riesce a spiegare diventa il suo nemico», sottolinea Griffin in una frase che ci rimanda a gran parte della nostra esperienza nel dibattito con la vecchia cultura politica (hooks, 2020, pp. 39-40).
Del dibattito attivato dalla hooks, mi interessa evidenziare come la conversione di idee e teorie in ideologia serva gli interessi di uno strato sociale privilegiato che, dominando l’arte del discorso legittimo, perpetua ed espande i suoi privilegi, escludendo ed emarginando coloro che possono minacciarli. Coloro che mettono in discussione questo discorso sono demonizzati perché starebbero mettendo in discussione i privilegi all’interno del campo emancipatore, sia delle femministe bianche che dei leader politici e sindacali o dei rivoluzionari dei paesi dipendenti formati nelle università.
Le forme che l’ideologia assume sono ben lontane dai modi in cui si esprimono i popoli e i gruppi sociali oppressi, in nome dei quali le une e gli altri parlano. Quell’élite intrinsecamente conservatrice che detiene il patrimonio del pensiero critico ha molto da perdere: status, benefici e riconoscimento che le danno un insopportabile senso di superiorità. Ecco perché si aggrappa a una pratica dottrinale lontana dalla realtà, prendendo in ostaggio idee e pensieri nati in un mondo che sta in basso in cui preferisce non mettere di nuovo piede, se qualche volta lo ha fatto.
La terza difficoltà è che i gruppi antisistema assomigliano sempre più al sistema. Per dirla con le sagge parole di Fernand Braudel nella sua riflessione sulla sconfitta inflitta dai popoli barbari alla Roma imperiale, «ogni volta che i barbari trionfano è perché sono già per metà civilizzati» (Braudel, 1984a, p. 66). Allo stesso modo in cui «la civiltà si chiude sopra il barbaro» quando l’altro viene convertito da una cultura che si crede superiore, la condizione del trionfo della rivoluzione, dell’entrata dei ribelli nel palazzo d’inverno, è che siano stati impregnati dei modi che predominano all’interno delle sue mura.
La rivoluzione culturale cinese non ha forse avuto l’intenzione di costringere i propri quadri che amministravano lo Stato a rompere con la cultura politica che avevano interiorizzato nel corso della gestione? Sicuramente Lenin ha riflettuto in un modo simile a quello di Mao, sebbene quest’ultimo abbia spinto tale processo fino all’estremo, pretendendo che la violenza e l’umiliazione potessero essere strumenti per cambiare culture e abitudini.
È evidente che le sinistre sono ben lungi dal rompere con il patriarcato e il colonialismo. La ricerca di caudillos9 (Evo Morales, Lula, Rafael Correa, Hugo Chávez…) e la devozione acritica che viene loro tributata incarna la continuità di una cultura politica che, a un secolo dal trionfo della Rivoluzione russa, dovrebbe aver lasciato il posto ad altre variabili più orizzontali e meno gerarchiche. La sinistra latinoamericana è profondamente maschilista, ben diversamente dai suoi discorsi, come dimostra il suo rifiuto di condannare stupratori ben noti come Daniel Ortega, attuale presidente del Nicaragua.
La sinistra della regione è anche coloniale. L’atteggiamento paternalistico nei confronti dei popoli nativi e neri, che sono considerati oggetti di «aiuto» sociale ma mai soggetti su un piano di uguaglianza, o l’atteggiamento del Movimento per il Socialismo (MAS) della Bolivia nei confronti delle organizzazioni indigene CIDOB e CONAMAQ10 non lasciano spazio a dubbi. Come sottolinea la femminista María Galindo,11 in quel paese si sta costruendo, con la scusa della plurinazionalità, una «egemonia quechua-aymara» legata al MAS, costruita mettendo a tacere «le voci dei popoli dell’Oriente boliviano» (Galindo, 2022).
La sinistra elettorale ha abbracciato integralmente il marketing capitalistico creato per incoraggiare il consumismo. Un caso eloquente è la campagna elettorale del 2016 in Spagna, durante la quale Podemos ha presentato un programma che nella sua forma grafica imitava il catalogo della società di mobili e arredamenti Ikea, con la scusa che sarebbe stato il «programma più letto della democrazia» (Otero, 2016). Ispirarsi al marketing aziendale è molto più che una questione di forma, poiché interiorizza i valori della pubblicità e finisce per equiparare la politica alle tecniche di vendita e l’elettorato a comportamenti simili a quelli del consumatore.
Il sociologo Marcos Roitman osserva che la sinistra è sempre alla ricerca del nuovo, reinventandosi seguendo l’ultima moda, con quello che lui chiama un atteggiamento «risultatista» che la vede impegnata a cercare risultati che la giustifichino anche a costo di svuotare i contenuti. Per questo conclude che «vuole conquistare il potere a tutti i costi, ma senza un progetto» (Roitman, 2022).
La quarta difficoltà è che la sinistra evita il conflitto, cessando di lottare per le trasformazioni, che possono essere fatte solo a scapito degli interessi dell’1% più ricco, ma anche lascia la popolazione a carico dei mezzi del sistema. Il conflitto sociale genera presa di coscienza, in quanto consente ai vari settori di identificare i problemi che li riguardano e riconoscere chi sono i responsabili.
Lo psicoanalista e ricercatore Miguel Benasayag e la filosofa Angélique del Rey sostengono che il conflitto configura la nostra civiltà e che la sua assenza – in società che aspirano alla sua scomparsa – ci pone di fronte a una situazione drammatica, di auto-distruzione: «la negazione del conflitto può portare alla barbarie. Per questo è importante rifiutarsi di pensare separatamente il conflitto e la civiltà» (Benasayag e Del Rey, 2018, p. 4).
In effetti il conflitto è, da un lato, il potere collettivo capace di mettere un freno, o di porre un limite, alle tendenze alla barbarie a cui ci stanno portando lo sviluppo e il progresso; dall’altro, senza conflitto non possono emergere né il nuovo, né i soggetti collettivi capaci di generarlo. Verso la fine della loro opera, gli autori sostengono che il conflitto è il «fondamento della vita», la forza capace di esercitare la cura e allo stesso tempo creare nuove relazioni sociali, i mondi nuovi a cui aspirano quelli di noi che continuano ad essere anticapitalisti. Tuttavia, le sinistre elettorali stanno cedendo di fronte alla tendenza sociale e culturale che rifugge dal conflitto, che temono per una serie di motivi: il rischio di perdere il controllo delle loro basi sociali che possono spingerlo al di là di ciò che è conveniente per la leadership; il non voler apparire come radicali davanti alla società, dato che il conflitto è stato identificato con la violenza; e, infine, perché il pragmatismo le porta a dare priorità allo scenario istituzionale, dove il conflitto non ha posto perché si ritiene che destabilizzi le istituzioni stesse.
In questo modo, annullando il conflitto, decadono fino a diluirsi nella corrente dominante nella società, perdendo la capacità di critica perché temono l’isolamento, il nuotare contro corrente che è sempre stato un segno distintivo dei movimenti di emancipazione.
La quinta difficoltà è che persiste il desiderio di governare gli altri, che è diventato un luogo comune a sinistra. Questa opzione politica comporta diversi problemi. Governare è un modo di opprimere, di prendere decisioni che riguardano altre persone, sostituendole come soggetti collettivi. Implica anche penalizzare l’autogoverno o, meglio, la necessaria moltiplicazione di autogoverni (nei quartieri, nei paesi, nelle città e in tutti gli spazi della vita) che l’insieme dei processi di emancipazione comporta. Infine, nella misura in cui si pretende di governare su una totalità sociale, si dà per scontato un concetto di totalità di natura eurocentrica che non contempla realtà complesse come quelle dell’America Latina (Quijano, 2014).
Per Quijano, la visione eurocentrica presuppone che «in una totalità il tutto abbia un primato determinante assoluto su ciascuna delle parti» e quindi che «ci sia una e una sola logica che governa il comportamento di ciascuna e di tutte le parti» (Ibidem, p. 296). Invece, nel complesso dell’America Latina e nelle sue parti troviamo logiche completamente diverse e divergenti, il che rende impossibile l’esistenza di processi di transizione omogenei. A mio parere, questo fatto dovrebbe portarci a riflettere in modo totalmente diverso da come il socialismo europeo ha teorizzato il concetto di transizione.
Considerate una per una, le varie «parti» in America Latina sono unità totali con le proprie configurazioni, il che significa che possono avere una relativa autonomia, in virtù della loro eterogeneità sia storica che strutturale. La totalità esiste ma è diversa, non organica, cosicché il tutto non potrà muoversi «in maniera unilineare, né unidirezionale, né unidimensionale, perché sono in azione impulsi o logiche di movimento multiple, eterogenee e persino conflittuali» (Ibidem, p. 299). Le eterogeneità che Quijano analizza si trovano negli spazi dei popoli originari, neri, campesinos12 e meticci, nelle loro comunità, nei quilombos/palenques e nei territori dell’agricoltura familiare, ma anche nelle periferie urbane dove si sono insediati i diversi popoli, in seguito alle migrazioni. In questi spazi i rapporti di lavoro salariato convivono con l’economia di reciprocità, con i vari tipi di servitù e con la piccola iniziativa commerciale/familiare, in cui i rapporti di lavoro hanno caratteristiche diverse da quelle del lavoro salariato.
Ecco perché Quijano conclude che i processi di cambiamento non possono consistere «nella trasformazione di una realtà storicamente omogenea in un’altra equivalente, né gradualmente e con continuità, né per salti e rotture» (Ibidem). È impossibile che realtà così diverse e variegate possano uscire, tutte allo stesso tempo, da uno scenario storico per cedere il passo a un’altra realtà che prenda il loro posto. Dobbiamo considerare che alcuni popoli indigeni e neri stanno già lasciando il sistema capitalistico e stanno costruendo mondi molto diversi da quello ancora egemonico. In essi, i valori d’uso predominano sui valori di scambio, poiché non si producono merci, ma quei beni di cui le comunità hanno bisogno per prendersi cura collettivamente della vita. È la realtà delle «basi d’appoggio»13 zapatiste, ma anche di altri insediamenti e comunità di quartiere, sebbene in modo parziale, precario e incipiente. L’identificazione di questi processi è stata l’oggetto del mio lavoro negli ultimi tre decenni, orientato in gran parte dalla rivoluzione zapatista.
Per questo motivo, la visione della storia attribuita a Marx (e da lui stesso ricusata nella corrispondenza con Vera Zásulich), secondo cui si verifica un susseguirsi di modi di produzione (società primitiva, schiavista, feudale, capitalista e comunista), corrisponde a una teleologia storica che presuppone che il tutto e ciascuna delle sue parti escano interamente da un sistema per entrare in un altro. Poiché questa idea di totalità è impraticabile, lo è anche il concetto di egemonia (un argomento non affrontato da Quijano), che presuppone l’esistenza di una totalità omogenea e che gli zapatisti giustamente considerano una forma di oppressione, in mondi in cui predomina l’eterogeneità che è irriducibile all’unità omogeneizzante. Nella nuova concezione del cambiamento che sta prendendo forma in queste esperienze, l’autonomia e l’autogoverno sostituiscono la vecchia dicotomia tra riforma e rivoluzione.
Vorrei evidenziare una sesta difficoltà: la perdita di profondità storica che ha contaminato la pratica politica delle sinistre, la mancanza di una visione a lungo termine; mi riferisco all’immediatismo caratteristico di coloro che si sono arresi alla cultura dominante e al modo di fare politica che prevale in questo periodo. Il ruolo preminente che attribuiamo ai popoli originari, ma anche agli afrodiscendenti e ai campesinos, è strettamente legato alla conservazione al loro interno di un altro concetto di tempo, circolare invece che lineare, in cui non trova spazio l’idea di progresso. Al suo posto c’è l’impegno costante dei soggetti collettivi a vivere in armonia con l’ambiente, a conservare e a non depredare, a prendersi cura e a non accumulare né trasformare la natura in una merce.
Infine, vorrei evidenziare il rapporto tra il caos sistemico che stiamo vivendo, un periodo di profonda incertezza che ha ottenebrato il futuro di milioni di persone e in particolare dei giovani, con il risorgere di un certo millenarismo (non riesco a trovare una parola migliore) laico e rivoluzionario, che offre certezze come tavole di salvataggio quando ogni solido appiglio affonda intorno a noi. È probabile che la tendenza a una sorta di neostalinismo stia crescendo durante la pandemia in un settore di giovani studenti universitari. Conosco solo due casi, quello dell’Ecuador e quello di Euskal Herria,14 ma sicuramente non sono gli unici, poiché siamo di fronte a tendenze globali.
Queste tendenze presentano due ulteriori grandi problemi: l’incapacità di accettare il fallimento delle rivoluzioni socialiste nonché il ruolo del centralismo statale nella loro disastrosa deriva, e nello stesso tempo l’impossibilità di attingere a fonti diverse dalla lotta di classe, come il femminismo e le resistenze dei popoli originari, alcune delle quali focalizzate sulla costruzione di autonomie collettive. A distanza di un secolo da quando lo stalinismo aveva iniziato a prevalere nel movimento comunista internazionale e mezzo secolo dopo l’ascesa del femminismo e dei popoli indigeni, l’orologio della storia torna di nuovo… a Mosca nel 1930, diciamo. Riappare così un marxismo dogmatico, profondamente patriarcale e coloniale, che crede nel progresso e in buona parte delle dottrine che hanno mostrato il loro colossale fallimento.
Credo fermamente che la crisi sistemica, il crescente potere dittatoriale dell’1% e le risposte dogmatiche al capitalismo si possano superare solo con uno stretto contatto con i movimenti più dinamici e con la predisposizione ad apprendere riflettendo assieme alle diverse realtà di base. Ecco perché cerchiamo di seguire le orme e le ispirazioni dei popoli in movimento, delle donne e dei giovani antipatriarcali e anticapitalisti che, mentre resistono, creano i mondi nuovi di cui abbiamo bisogno per continuare ad esistere, per continuare a vivere.
* * *
Questo libro è la raccolta di diversi articoli che affrontano uno stesso tema: i popoli organizzati come soggetti collettivi della resistenza al capitalismo neoliberista e nello stesso tempo come creatori di mondi nuovi. Nei sette capitoli che seguono, l’esperienza viva dei popoli è la bussola che orienta la riflessione teorica e indica il tipo di transizione che stiamo vivendo verso i mondi altri che sono in costruzione e i modi in cui ogni popolo li sta difendendo.
Montevideo, gennaio 2023
di Raúl Zibechi (*)
NOTE
1 Ndt – Una delle organizzazioni militanti del popolo mapuche.
2 Ndt – Centro (letteralmente serbatoio) di pensiero.
3 Ndt – Unione delle Nazioni Sudamericane.
4 Ndt – Sull’estrattivismo si veda R. Zibechi, La nuova corsa all’oro. Società estrattiviste e rapina, Mutus Liber, Riola (BO) 2016.
5 Ndt – L’inno del socialismo rivoluzionario internazionale.
6 Ndt – Cornelius Castoriadis (Istanbul, 1922 – Parigi, 1997), filosofo, sociologo, economista, psicanalista e saggista greco naturalizzato francese, è stato uno dei grandi pensatori del XX secolo. Fu uno dei fondatori del gruppo marxista libertario Socialismo o Barbarie.
7 Ndt – Walter Benjamin (Berlino, 1892 – Portbou, 1940) è stato un pensatore ebreo laico tedesco dal genio multiforme (filosofo, sociologo, epistemologo…) la cui opera ha influenzato molti importanti studiosi suoi contemporanei; valorizzata postuma, è oggi studiata intensamente per la sua importanza. Morì suicida al confine franco-catalano per non cadere in mano alla Gestapo nazista cui temeva di venire consegnato.
8 Ndt – Pseudonimo di Gloria Jean Watkins, che l’ha scelto chiedendo che venisse scritto con le iniziali minuscole per mettere l’accento sulla sostanza dei suoi libri e non sulla sua persona.
9 Ndt – Per i termini riportati in lingua originale, si veda il Glossario in fondo al volume.
10 La Confederazione dei Popoli Indigeni dell’Oriente Boliviano (CIDOB) e il Consiglio Nazionale di Ayllus e Markas del Qullasuyu (CONAMAQ) sono stati oggetto di interventi della polizia del governo di Evo Morales per espellere i legittimi dirigenti e imporne altri vicini al MAS.
11 Ndt – María Galindo Neder (nata a La Paz, Bolivia, nel 1964) è un’attivista boliviana femminista radicale, cofondatrice del collettivo Mujeres Creando di cui è leader.
12 Ndt – «Contadini» in spagnolo, un termine che nel contesto latinoamericano assume un significato particolare (vedi il Glossario in fondo al volume).
13 Gruppi territoriali dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale.
14 Ndt – Euskal Herria Bildu è una formazione politica della minoranza basca in Spagna.