articoli

Meditazioni Keynesiane – Seconda sezione. “Escalation” (Sesta Meditazione)

di Giuseppe
Nicolosi

Un paio di anni fa mi è capitato di leggere un pregevole libro divulgativo dell’economista Mariana Mazzucato intitolato “Il valore di tutto”. Un testo scritto assai bene, che aiuta i profani come me ad avvicinarsi agli aspetti fondamentali dell’economia ripercorrendone la storia. Tra le pagine di quel libro scritte per rendere comprensibile al lettore il transito dall’economia classica all’economia neoclassica, Mariana Mazzucato propone, a un certo punto, un esempio pratico del concetto di “utilità marginale”. Il valore delle cose, nel cosiddetto “marginalismo”, è misurato sulla base della loro utilità per il consumatore. Si tratta quindi di un fattore soggettivo. Così, se la prima barretta di Mars che mangi al mattino può avere una significativa “utilità”, le cose cambiano rapidamente se continui a mangiare barrette tutto il giorno: presto le barrette smetteranno di piacerti e se insisti, finiranno per farti male. Come spiega Mariana Mazzucato:

A un certo punto quindi, l ‘utilità ricavata dal mangiarne diminuirà. Perciò l’utilità dell’ultima barretta è minore, e probabilmente molto minore, dell’utilità delle barrette precedenti. E’ ciò che si chiama ‘utlità marginale’ – nel caso della barretta Mars, che  per chi le  mangia vale sempre meno della precedente, si tratterà di una “utilità marginale decrescente1.

Mentre stavo scorrendo queste righe, risposi ad una telefonata di un amico, uno psicologo che si occupa di dipendenze. Tra le altre cose mi raccontò di un video su Youtube in cui un uomo sulla quarantina, gravemente obeso, mangia una dopo l’altra ben quaranta barrette di “Kinder fetta al latte”. Non contento, dopo le quaranta barrette, si mangia un intero pollo arrosto.
Si tratta di una delle tante manifestazioni del cosiddetto “Mukbang”, termine coreano con cui si indica una nuova pratica, sempre più diffusa, che consiste nell’abbuffarsi di cibo davanti a una telecamera per poi mettere la registrazione video a disposizione degli utenti su Youtube. Qualche tempo dopo, venni a sapere che il protagonista di quella abbuffata era deceduto, non direttamente a causa della sua passione per gli eccessi alimentari, ma per complicazioni cliniche in gran parte riconducibili ad essi.
Nella mia eccitabile fantasia, le barrette di Mars usate dalla Mazzucato per descrivere il concetto di utilità marginale e le barrette Kinder divorate da quel signore hanno iniziato una strana danza.
Il divoratore di Kinder, cimentandosi nel suo singolare “sport estremo” realizzava il sogno di ogni produttore capitalista: rompere il margine, spingere verso l’infinito l’utilità marginale della propria merce.
Per Omar – così si chiamava il mangiatore di Kinder – l’utilità marginale iniziava a decrescere circa trentacinque o trentasei barrette di Kinder più tardi di quanto sarebbe accaduto nel mio caso o in quello di Mariana Mazzucato. Perché ? Questo era il quesito che poneva il mio amico, che nella vita si occupa di tossicodipendenze. Quanto a me, preso nelle mie noiose indagini sulla storia delle teorie del controllo del comportamento umano e animale, non riuscivo a pensare ad altro se non al fatto che Omar sembrava una variante umana del ratto che non si arrende mai studiato da Olds e Milner nel 1954.

Quell’esperimento, realizzato in Canada, è uno dei tanti che dimostrano come spesso la differenza tra comportamentismo e cognitivismo si riduce a questioni di metodo. Olds è Milner erano interessatissimi a cosa accade nella “scatola nera”, al punto da indagarla sperimentalmente con dei microelettrodi impiantati nel cervello dei ratti. Ma escluso questo aspetto, certo non secondario, i loro esperimenti erano tipicamente comportamentisti, con tanto di Skinner-Box, leva per ottenere il rinforzo, rilevazione statistica della frequenza delle pressioni della leva e così via.
A dominare gli interessi della ricerca sperimentale nordamericana era invariabilmente la sintesi tra teorie associazioniste e utilitarismo, come aveva notato Bertrand Russell negli anni Quaranta. Solo che l’associazione veniva ora indagata, come già aveva fatto il russo Pavlov, al livello dei centri neuronali del cervello in cui il fenomeno sotto osservazione avviene: quel che succede nella testa del ratto mentre preme la leva. Condizionamento operante indagato, insomma, nelle sue basi neurali.

Se riflettiamo sul  fatto che le radici del comportamentismo vanno individuate nell’associazionismo e quindi nell’utilitarismo, come sottolineava Russell, ci rendiamo subito conto che il tanto celebrato “cambio di paradigma” tra comportamentismo e cognitivismo, ammesso che ci sia stato, s’è verificato soprattutto a livello di metodologia, non certo a livello degli interessi che muovevano la ricerca, che, per l’essenziale, sono rimasti i medesimi.
A questo proposito, alle osservazioni di Russell sulle analogie tra esperimenti sul condizionamento e associazionismo filosofico, si dovrebbe aggiungere qualche considerazione politica sul perché l’utilitarismo, fin dalle sue origini, si è sempre mostrato così interessato ai processi associativi, al punto che, oramai da decenni, si ostina a scandargliarli in modo sempre più cavilloso, fin nelle profondità più remote del nostro cervello.

Recentemente alcuni studiosi dotati di affilate risorse critiche hanno iniziato a indagare i rapporti tra l’economia comportamentale e l’utilitarismo. Neil Vallelly e, particolarmente, William Davies, hanno mostrato assai bene come la teoria della scelta razionale sia stata il nucleo centrale delle indagini di molti importanti economisti liberali fin dalla fine dell’Ottocento: dalle forme rudimentali di indagine sul piacere come “l’edonimetro” di Francis Edgeworth (collaboratore dell’economista William Jevons), ai complessi ragionamenti sulla decisione del premio Nobel per l’economia Gary Backer, fino ad arrivare alla attuale neuroeconomia, la teoria della scelta è sempre stata al centro degli interessi dell’economia riguardo gli studi sul comportamento. Come scrive Neil Vallelly:

La teoria della scelta razionale, che si basa tutta sull’individuo massimizzatore di utilità, illustra la misura in cui l’utilitarismo ha permesso all’economia di diventare una disciplina che teorizza la vita umana nel suo complesso, e non solo quegli aspetti che riguardano direttamente gli affari economic2.

Al di là del brivido che nei neoperaisti suscita l’irruzione “della vita umana nel suo complesso” nell’economia, tema che ci riporta a concetti come quello foucaultiano di biopolitica, Vallelly ha il merito indiscutibile di mostrare con chiarezza la mutazione della filosofia utilitarista nel neoliberismo contemporaneo. L’utilitarismo è una tradizione di pensiero che accompagna l’economia capitalistica con continuità e coerenza fino alla svolta neoliberale degli anni Settanta. Da quel momento esce, per così dire, da se stesso. Mentre il primo utilitarismo, quello classico di Bentham e dei Mill, non giustificava atti di crudeltà per massimizzare il piacere e riteneva (a torto) che dalla massimizzazione dell’utile del singolo dovesse sempre derivare un incremento del benessere per il maggior numero di persone possibile, dopo la svolta neoliberale degli anni Settanta il principio di massimizzazione dell’utile individuale si sgancia da ogni impegno etico verso qualsivoglia utilità collettiva generale e la sola regola etica che resta è quella enunciata Milton Friedman in un suo articolo del 1970: “l’unico obbligo morale per un azienda privata è guadagnare il più possibile”3.
C’è, tuttavia, un altro ambito in cui l’utilitarismo ha “cambiato pelle”: quella che Vallelly ha opportunamente chiamato “teoria della scelta razionale”, eredità diretta dell’utilitarismo, è diventata, nel volgere di qualche decennio, una teoria della scelta irrazionale. Parrebbe una battuta, peraltro assai poco perspicace se paragonata alla finezza argomentativa dei teorici della scelta umana. Si tratta, invece, di una considerazione che, dall’osservazione ovvia che il comportamento di Omar era irrazionale, vorrebbe spingersi verso conclusioni un po’ meno banali. La teoria delle decisioni ha seguito uno strano itinerario nel corso degli ultimi decenni. I suoi promotori e divulgatori non smettono di ripetere che c’è stato un importante cambio di passo nel corso del quale l’economia ha definitivamente abbandonato la figura dell’operatore economico razionale, l’homo oeconomicus, riconoscendo alle componenti emotive un ruolo fondamentale nelle operazioni di scelta. La cosa viene di solito fatta passare, in modo piuttosto peloso, per una sorta di umanizzazione del pensiero economico, una visione del consumatore finalmente riformata in senso democratico.
Tutti gli psicologi che sono stati insigniti del premio Nobel per l’economia negli ultimi trent’anni hanno svolto ricerche sulle dimensioni profonde delle operazioni di scelta. Ma una discussione critica sul significato di questo interesse dell’economia per tali ricerche non è stata promossa nell’ambito delle culture antagoniste. La paura di non essere all’altezza e di scadere nel ridicolo ha prevalso su qualsiasi tentativo di imbastire dei ragionamenti politici adeguati su questo ordine di problemi. Ma visto che cresce il sospetto che i nuovi chierici dell’economia contemporanea siano detentori di qualche forma di sapere esclusivo, che conservano in modo geloso, se intendiamo scoprire qualcosa nel merito, occorrerà mettere il naso in queste loro inesauste indagini sulle teorie della decisione. Naturalmente, se qualcuno si provasse a interrogarli, si sentirebbe rispondere che si tratta di un interesse puramente speculativo su cui l’economia per secoli non ha mai smesso di porsi domande e di ragionare. Rimane tuttavia da chiedersi perché l’economia capitalista non spenda denaro ed energie mentali paragonabili per fare ricerche (chessò?) sui comportamenti pro-sociali nei ratti o sull’identità di genere nei mammiferi. Argomenti altrettanto speculativi e non privi di interesse. Lo scopo pubblico di questi studi sui comportamenti di scelta, il loro risvolto pratico ufficiale, è ovviamente quello di garantire che i “decisori” politici e/o economici svolgano il loro compito con scrupolo e intelligenza e questo dovrebbe spiegare perché sono materia di primo piano nei corsi avanzati di management. Il punto critico è che tali indagini sembrano orientate assai più alla scoperta delle vulnerabilità dei sudditi, che alla soluzione brillante di gravi problemi economici o politici. Basti fare cenno alle oramai celebri teorie della cosiddetta “spinta gentile” (nudge), che è comportamentismo allo stato puro, rifritto in salsa statal-amministrativa, o a quelle sui cosiddetti “bias” gli errori logici o statistici che affliggono l’uomo della strada. Quelli che il professor Massimo Piattelli Palmarini, con ottima scelta terminologica, preferisce chiamare i paraocchi 4. Paraocchi che, non riesco a trattenermi dall’aggiungere, vengono prevalentemente fatti indossare agli animali da tiro. Gli errori sistematici sono gli scotomi, le macchie cieche della nostra intelligenza, le trappole in cui, come creature biologicamente imperfette, cadiamo regolarmente.

Chi studia la svolta neoliberale degli anni Settanta non dovrebbe soffermarsi soltanto sul crollo di qualsiasi residua dimensione di etica collettiva, ma anche sulla scoperta che i meccanismi emozionali (umani e animali) sono gli elementi alla base delle operazioni di scelta. Non sarebbe ingenuo iniziare a chiedersi se la longevità di questo morto putrefatto che non vuol morire, di questo orribile zombie chiamato capitalismo, non dipenda anche dalle conseguenze di lungo periodo di questo tipo di indagini.
Omar non massimizzava il proprio utile. Era invece intrappolato in un loop che massimizzava l’utile della Ferrero a sue spese. E questo non soltanto per la quantità di Kinder “fetta latte” che acquistava di tasca sua, ma soprattutto per la pubblicità gratuita che forniva all’azienda dolciaria attraverso le sue esibizioni di Mukbang su Youtube (che venivano seguite, per strano che sia, da centinaia di migliaia di persone).
Per avere un’idea, ancorché approssimativa, di quale sia la posta in palio conviene tornare, per un momento ancora, all’esperimento di Olds e Milner, quello che ha permesso una prima individuazione dei centri nervosi della gratificazione. Quel nucleo del cervello e le zone circostanti, comuni a tutti i mammiferi e piuttosto simili nelle diverse specie, sono stati oggetto di ricerche sempre più raffinate negli ultimi cinquant’anni. Se ne conoscono in grande dettaglio l’anatomia, i principali neurotrasmettitori, le funzioni che da esse dipendono. Per quel che qui interessa, si tratta anche dei centri che regolano il cosiddetto comportamento emotivo. Per fornire una descrizione schematica del loro funzionamento, si può affermare che, almeno in senso generale, si tratta di processi regolati dalla legge del feed-back negativo. La regolazione basata sul principio del feedback negativo spiega molte attività di base del sistema nervoso: i meccanismi di regolazione della respirazione, del tasso glicemico del sangue, della temperatura corporea, della fissazione oculare, solo per fare alcuni esempi, agiscono in base allo stesso principio di base, quello, per intendersi, che regola il funzionamento del termostato. Un dispositivo che, per mantenere la temperatura costante, automatizza il processo che permette a una caldaia di spegnersi non appena raggiunge una data temperatura e poi di accendersi di nuovo, quando la temperatura ambientale scende al di sotto di una soglia stabilita. L’autoregolazione a feedback permette dunque di colmare automaticamente e in modo relativamente stabile la discrepanza tra il risultato attuale (per esempio dieci gradi di temperatura) e quello atteso (poniamo, dodici gradi di temperatura ambientale) mantenendo i valori relativamente costanti.

Fin dall’Ottocento, è stata adottata l’espressione generale “omeostasi” per definire questi processi di autostabilizzazione degli organismi. Queste dinamiche di regolazione biologica, negli anni Cinquanta del Novecento, vennero inserite a “botta sicura” nella cornice concettuale della cibernetica, che in quel periodo stava raggiungendo la sua maturità teorica. In generale, la cibernetica si occupava dei meccanismi di regolazione e controllo nelle macchine e negli animali. L’etimologia del termine cibernetica, che viene dal greco kybernḗtēs timoniere, allude appunto al controllo fine dei movimenti dell’imbarcazione e ai dispositivi necessari per regolarne la direzione.
La teoria della scelta razionale si è trasformata in una teoria della scelta emotiva (irrazionale) perché l’indagine scientifica ha mostrato con sempre maggiore chiarezza che, tra i circuiti cerebrali di autoregolazione basati sul feed-back, sono quelli che controllano comportamenti di base come la sessualità, la nutrizione, le reazioni di attacco e fuga, ad essere coinvolti direttamente nelle principali operazioni di scelta: dal voto politico, all’acquisto di un’automobile. Sono questi processi, più che le nostre risorse logico/razionali, che sovrintendono alle decisioni che operiamo nella vita ordinaria. Questo risultato ha portato nuove frecce all’arco dell’accoppiata associazionismo/utilitarismo. Se l’indagine sui processi di decisione ha rivelato molti limiti della razionalità degli esseri umani, la neuroeconomia continua a fornire informazioni chiave sui fondamenti biologici dei processi di scelta.
Probabilmente, una delle interpretazioni più interessanti del rapporto tra teoria della scelta e sostrato neuronale è quella fornita dal professor Gianvito Martino, del San Raffaele di Milano. Martino aggiunge un tassello di rilievo allo scenario che qui abbiamo sommariamente descritto. Questo studioso ha rielaborato un concetto che risale a Darwin e venne poi recentemente ripreso da Stephen J. Gould e Elisabeth Vrba, che hanno coniato, per definirlo, il neologismo “exaptation”. Si tratta di una sorta di opportunismo biologico, che permette ad alcune funzioni degli organismi di convertirsi in altre. Nella spiegazione che ne ha fornito Gianvito Martino in un libro scritto con un suo collega:

Con tale termine si intende la propensione degli organismi viventi a “cooptare” o “convertire” strutture e funzioni (incluse quelle cerebrali) che si sono sviluppare per una certa ragione adattativa: una sorta di opportunismo funzionale. Se si analizzano i circuiti cerebrali che spingono un animale a decidere – rischiando – di abbandonare un’area in cui il cibo scarseggia per cercarne un’altra potenzialmente più ricca, si capisce come essi (e i tipi di neuroni che li compongono) siano gli stessi circuiti utilizzati da un soggetto umano che scelga di perseguire un’opportunità economica meno certa – e quindi più rischiosa – ma potenzialmente più remunerativa5.

In una conferenza tenuta presso la fondazione Zoé, Gianvito Martino è stato più esplicito sostenendo che, secondo lui il denaro, negli umani, ha occupato spazi del circuito neuronale che, biologicamente, apparterrebbero originariamente al comportamento alimentare, al nostro rapporto con il cibo.

Da qualche tempo assistiamo a ricorrenti fenomeni di “scompenso”, di danneggiamento della regolazione omeostatica di base, che possiamo iniziare a considerare come socialmente estesi, di massa. Mi riferisco a quelle che abbiamo chiamato, scimmiottando il gergo dell’economia utilitarista, rotture collettive del margine, derive parossistiche dell’utilità marginale. Quando il dispositivo a feed-back negativo cessa per qualche motivo di svolgere il suo lavoro, può accadere che l’intero sistema entri in una dinamica a feed back positivo, con un cosiddetto effetto a cascata, una serie di risposte che vanno fuori controllo e tendono a moltiplicarsi. Un osservatore esterno, un antropologo alieno come quello della canzone di Roger Waters Amused to death, non avrebbe grandi difficoltà a trovare delle regolarità inquietanti in questi fenomeni collettivi di squilibrio.
Di esempi, piuttosto impressionanti, se ne possono fare numerosi, che vanno ben oltre la vicenda del povero Omar su cui ci siamo dilungati in modo piuttosto irrispettoso. Nel successivo capitolo discuteremo in qualche dettaglio l’evoluzione del gioco d’azzardo negli ultimi vent’anni. Con il termine “escalation” intendo precisamente questo tipo di movimento, che asseconda grandi interessi economici e che si manifesta, in termini di numeri, con incrementi di consumo clamorosi, come quelli che sono avvenuti nel settore degli psicofarmaci, nella vendita delle armi negli USA o, appunto, nel gioco d’azzardo. Ma anche la dinamica dei messaggi di odio nel web potrebbe essere ricondotta, in termini generali, ai medesimi processi di “escalation” emotiva, abilmente indotti dai gestori delle grandi piattaforme della rete per i propri interessi commerciali e/o politici.

Giuseppe Nicolosi

  1. Mariana Mazzucato, Il valore di tutto, Editori Laterza, 2018.[]
  2. Neil Vallelly, Vite Rubate, Blu Altantide, 2022.[]
  3. Milton Friedman, The Social  Responsability of Business is to Increase Its Profits, in  “The New York Times Magazine”, 13 settembre 1970.[]
  4. Massimo Piattelli Palmarini, Psicologia ed Economia delle Scelte, Codice Edizioni, 2005.[]
  5. Gianvito Martino, Marco Pivato,  Usare il cervello: ciò che la scienza può  insegnare alla politica,  La Nave di Teseo, 2018.[]
Articolo precedente
Non si salva il Mondo senza estirpare il Capitalismo
Articolo successivo
L’obiettivo è l’art. 27 della Costituzione?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Compila questo campo
Compila questo campo
Inserisci un indirizzo email valido.