Riprendiamo da monitor-italia.it l’articolo di Riccardo Rosa –
È uscito alla fine di gennaio il quarto report trimestrale 2023 sulla criminalizzazione dei cosiddetti scafisti in Italia, a cura di Arci Porco Rosso e Borderline-Europe. Il report segnala che negli ultimi dieci anni più di tremila persone sono state fermate con l’accusa di essere degli scafisti, ma che la media di persone arrestate per ogni arrivo è diminuita (tre persone ogni duemila arrivi, a fronte delle sei nel 2021 e nel 2022). “La diminuzione dei fermi eseguiti per esempio dalla Procura di Agrigento – si legge nel report – va letta alla luce della massiccia operazione posta in essere dalla polizia tunisina, con la benedizione e il finanziamento dell’Europa […]. I governi si vantano di ben settecentocinquanta fermi nel paese nordafricano negli ultimi tre mesi, con strategie violente di intercettazione e refoulement, come denunciato sia da Amnesty International che dal Forum tunisino per i diritti economici e sociali. […] Anche in Egitto l’inasprimento della legge nazionale contro i ‘trafficanti’ ha portato a diffusi arresti e processi ingiusti”.
Così come in più occasioni hanno fatto altre associazioni, giuristi e solidali, gli autori del report denunciano dubbi sulla correttezza delle accuse e sulla modalità con cui vengono portati avanti i procedimenti in Italia, “che spesso sembrano delle vere e proprie sperimentazioni giuridiche”.
La figura dello scafista, d’altronde, è stata consacrata a capro espiatorio cui far scontare le continue tragedie che si susseguono nel Mar Mediterraneo, e utilizzata in generale per tranquillizzare le coscienze mostrando condanne dure e inflessibili, facendo pagare a un singolo le storture di un sistema che produce ogni giorno di più diseguaglianze e sofferenza. È per questo motivo – lo si spiega più approfonditamente qui – che la figura dello scafista e quella del trafficante di esseri umani sono state sovrapposte ad arte, tanto nel discorso pubblico quanto sul piano normativo. Grazie a questa sovrapposizione, chi prova a condurre in un porto sicuro una barca con a bordo centinaia di persone, perennemente a rischio naufragio, spesso dopo essere stato minacciato dai veri trafficanti, ha buone possibilità di ritrovarsi condannato a una pena altissima, perché considerato parte dell’organizzazione criminale che ha pianificato e gestito il viaggio. Mentre, però, i numeri riguardanti gli arresti e le condanne vengono propagandati dai bollettini della polizia e dai politici, dai quotidiani e dai telegiornali, i lati più oscuri della gestione repressiva del fenomeno migratorio vengono occultati, trovando spazio nella narrazione solo quando in un centro di espulsione c’è un suicidio o scoppia una rivolta (non è un caso che il film italiano candidato agli Oscar racconti l’odissea dei migranti in viaggio verso l’Europa oscurando scientemente gli anni di carcere e detenzione amministrativa, le torture e infine le morti a cui questi vanno incontro, in quanto “clandestini”, una volta giunti nel nostro civilizzato occidente).
Per contrastare questa invisibilità è indispensabile ribadire concetti e raccontare storie. Ricordare, per esempio, che nel solo carcere di Poggioreale, a Napoli, sono al momento detenuti cinque presunti scafisti (un gambiano, un egiziano e tre sudanesi), arrestati in occasione di tre diversi sbarchi, e a rischio di una condanna che va fino ai dodici anni di carcere. La strutturazione dei tre procedimenti appare discutibile e lo svolgimento dei processi rischia al solito di essere condizionato dall’assenza di mediatori culturali e da un approccio non sufficientemente consapevole da parte dei giudici rispetto al contesto di provenienza degli imputati (soggetti peraltro iper-vulnerabili e di età giovanissima). Nel caso specifico dei tre sudanesi è stato necessario alla difesa indicare un esperto in dialettologia araba, evidenziando la necessità di una traduzione corretta per imputati che provengono da un paese in cui ci sono oltre ottanta tra lingue e dialetti (sarebbe stato gravemente lesivo per il diritto di difesa degli imputati interpellare un mediatore che parlasse soltanto l’inglese e l’arabo). Uno dei presunti scafisti, appena ventenne, ha inoltre evidenti segni di tortura sul corpo, dovuti a una detenzione subita in Libia, elemento che dovrebbe ridurre le possibilità che questi abbia dallo stesso paese organizzato un viaggio verso l’Italia, e indurre a considerare la sua fuga dal Nord-Africa uno “stato di necessità”. Anche in questo caso il tribunale non ha voluto prevedere una perizia ed è stato necessario che la difesa ne fornisse una “di parte”.
A ulteriore prova dell’ingiustificato accanimento nei confronti di questi ragazzi va infine sottolineata l’insistenza a oltranza da parte dei giudici sulla pratica del trattenimento in carcere in attesa del giudizio. Anche quando, attraverso una rete di associazioni e solidali, si riesce a fare richiesta per le misure cautelari domiciliari, il tribunale tende infatti a rifiutare l’istanza, ritenendo il capo d’accusa reiterabile: il trenta per cento degli arrestati attende così in carcere, anche per anni, la conclusione del primo grado di giudizio.