Riprendiamo questo articolo di Luca Angelini –
Ve lo ricordate? Cinque anni fa, i Verdi mettevano a segno clamorosi successi alle elezioni Europee, arrivando a conquistare oltre 70 seggi all’Europarlamento. E Ursula von der Leyen prometteva che il Green Deal sarebbe stata la stella polare per il cammino della Commissione europea da lei guidata. Ora quei seggi si sono ridotti di quasi un terzo e Von der Leyen sembra più che disposta ad «annacquare» molte proposte del Piano Verde — come del resto già fatto alla vigilia della campagna elettorale — pur di non perdere il sostegno di parte dei Popolari e assicurarsi un secondo mandato. Ma il 2019 era anche l’anno in cui le marce per il clima e il movimento Fridays For Future lanciato da Greta Thunberg sembravano inarrestabili e inondavano non soltanto piazze e strade, ma anche giornali e telegiornali. Invece, il venerdì prima del voto, al 302esimo sciopero per il clima, davanti alla sede di Stoccolma della Commissione Ue, con Greta c’erano sì e no una ventina di manifestanti.
Certo, gli ultimi cinque non sono stati anni normali. Prima il Covid, poi la guerra in Ucraina, quindi il ritorno del carovita e infine il conflitto in Medio Oriente. La hit parade delle paure ha visto continui nuovi ingressi e il cambiamento climatico, a quanto pare, è sceso parecchio in classifica (pur continuando a far danni tanto se non più di prima). Basta, a spiegare l’apparente sparizione di quella che qualcuno aveva già ribattezzato la «generazione Greta»? Secondo Karl Mathiesen, di Politico Europe, che ha provato a dare una risposta a quella domanda, c’è anche dell’altro: «Un movimento che una volta era unito attorno a un unico, semplice appello rivolto alle generazioni più anziane a non rubare il loro futuro, è ora lacerato da divisioni interne – sulle tattiche elettorali, sulle controversie interpersonali e sulla nuova emergenza politica globale della guerra di Gaza. Dopo anni di protesta, anche questi giovani attivisti si stanno stancando».
A confermarglielo è anche la polacca Dominika Lasota, che è stata figura di spicco dei Fridays For Future nel suo Paese e in Europa: «Onestamente, siamo in confusione. E siamo anche in grande inferiorità numerica e divisi». Ma non è soltanto una questione di numeri. Luisa Neubauer, che è un po’ la Greta Thunberg tedesca (sia lei che Lasota erano state invitate nel 2022 da von der Leyen nei suoi uffici di Bruxelles), dicono che le forze del fronte opposto, in particolare i partiti politici di estrema destra che hanno vinto alla grande quest’anno, sono diventati più «professionali» e più brave nel trasformare la politica climatica in un’arma. Una plastica dimostrazione sono le retromarce e le concessioni sul Green Deal che alcune centinaia di agricoltori hanno portato a casa marciando su Bruxelles con i trattori.
Il fatto è che il moltiplicarsi delle crisi ha portato, forse inevitabilmente, il movimento a schierarsi su molteplici fronti, oltre a quello ambientale, con il risultato di diluirsi e, in qualche caso, dividersi. La solidarietà a Gaza, ad esempio, ha visto Thunberg in prima linea (qualcuno forse ricorderà il suo arresto, kefiah al collo, dopo le proteste per la partecipazione di Israele all’Eurovision di Malmoe), mentre Neubauer è rimasta, almeno inizialmente, fedele alla tradizionale riluttanza tedesca a prendere aperta posizione contro Israele. Un altro attivista di primo piano, che chiede l’anonimato, dice a Mathiesen che il movimento per il clima ha in generale «perso il suo focus ed è rimasto coinvolto in campagne più ampie su Gaza e Israele che hanno distolto l’attenzione dai principali inquinatori».
Ci sono anche opinioni diverse su quale sia la tattica migliore da adottare. Il fatto che Greta Thunberg abbia fatto un passo indietro sulle campagne mediatiche, ma abbia allungato di molto la sua lista di arresti e fermi, in varie manifestazioni per la giustizia globale, lascia intendere che ormai inclini per forme di protesta più radicali. Lasota e Neubauer non sono d’accordo. «Sento che abbiamo abbandonato quel che riuscivamo a fare meglio, cioè scuotere l’intera scena politica», dice la prima. Le forme più piccole e radicali di protesta, come i blocchi di stradali di Letzte Generation in Germania, di Ultima Generazione in Italia o di Just Stop Oil nel Regno Unito, hanno dimostrato «di non funzionare», aggiunge Neubauer.
Insomma, i ragazzi e le ragazze di Greta ammettono di essere, in parte, causa del loro stesso male. Non del tutto, però, obietta Neubauer. In Germania di marce e manifestazioni se ne fanno ancora, spesso con migliaia di partecipanti. Le generazioni meno giovani, però, non sembrano più interessate a prestarvi attenzione. Perché, protesta Neubauer, dovrebbero essere soltanto i più giovani a essere ritenuti responsabili del fatto che il cambiamento climatico non sia stato stavolta al centro della campagna elettorale? «Fino a che punto è soltanto un problema nostro?», si chiede ricordando che gli europei con diritto di volto erano 373 milioni.
Si dirà che è forse un bene che le «follie ambientaliste» della generazione Greta come non si stanca di chiamarle, ad esempio, il vicepremier e ministro Matteo Salvini, possano aver fatto il loro tempo. Ma l’alternativa è davvero più rassicurante? Il Financial Times titola a tutta pagina che, fresco sondaggio Ipsos alla mano in vista del voto anticipato di domenica, è delle ricette economiche del Rassemblement national di Marine Le Pen che i francesi soprattutto si fidano. Ma, solo qualche giorno fa, lo stesso FT, in un editoriale del board, parlava delle proposte in materia sia dell’estrema destra che dell’estrema sinistra come «fantasy economics». E, sul quotidiano economico francese Les Echos, Marie Bellan scrive che «l’ecologia del buon senso» che Le Pen e il suo delfino Jordan Bardella non smettono di propagandare in contrapposizione a quella «punitiva», se non addirittura liberticida, è quella in cui «possiamo continuare a utilizzare il gasolio e riscaldarci con il petrolio senza aumentare le emissioni di gas serra, possiamo pagare meno la nostra elettricità rinunciando alle energie rinnovabili, possiamo abbassare la bolletta del gas continuando a vivere in case che disperdono gran parte del calore».
Peccato che gli esperti del settore la trovino un’ecologia assai poco credibile. Un esempio è l’ostilità dell’Rn verso le rinnovabili in generale e l’eolico in particolare (in passato, Le Pen aveva proposto non solo di non installare nuove pale, ma di smantellare quelle esistenti). «Abbandonando il grande piano di investimenti per l’energia eolica offshore, in mare aperto, abbandoneremmo allo stesso tempo un’offerta di prezzo dell’elettricità che si avvicina ai 40 euro per megawattora, un prezzo molto competitivo», sottolinea Nicolas Goldberg, consulente energetico specializzato presso Colombus Consulting». Tale rifiuto quasi viscerale delle turbine eoliche si spiega, secondo Bellan, con la promessa del Rn di un ritorno alla Francia di una volta, prima degli shock petroliferi, una Francia dove l’energia costava poco, dove l’agricoltura vedeva rendimenti crescenti, dove certamente si faceva economia di mezzi e recupero, ma per necessità finanziaria, non ecologica: l’immutabile e sognata Francia dei terroir». Antoine Pellion, segretario generale della Pianificazione ecologica, è tranchant: «L’Rn gioca sull’illusione che sia possibile non cambiare nulla e preservare gli stili di vita attuali. Mettiamo la Francia sottovetro, manteniamo i paesaggi così come sono, ma ciò vuol dire dimenticare che gli effetti del cambiamento climatico, l’erosione delle coste, le ripetute inondazioni, il degrado delle foreste, sono già realtà e stanno già modificando i paesaggi e il territorio».
In verità, un’alternativa energetica il Rassemblement national la propone: l’energia nucleare, con una ventina di nuovi reattori da costruire. Altro scenario giudicato poco credibile dagli esperti del settore, soprattutto se si guarda al calendario e agli esempi recenti: «I sei nuovi reattori nucleari annunciati da Emmanuel Macron, ai quali si è recentemente aggiunta la promessa di otto reattori aggiuntivi — spiega Bellan —non saranno pronti prima del 2035, nella migliore delle ipotesi. Nel frattempo, un maggiore utilizzo di combustibili fossili si renderà necessario con costose importazioni di petrolio e gas e la perdita di sovranità energetica che la Francia sta faticosamente cercando di ripristinare».
Il paradosso finale che Bellan fa notare è che, mentre per molti aspetti il Rn gioca sulle grandi paure — paura dell’insicurezza, della «grande sostituzione» per l’immigrazione incontrollata e via dicendo — di fronte al riscaldamento globale «non cerca di cavalcare alcuna paura o ansia climatica, ma tende piuttosto a giocare la carta della cecità e dell’immobilità».
Il catastrofismo spesso è controproducente, ma la sottovalutazione può esserlo ancora di più.