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L’unicità di ogni sterminio

di Stefano
Galieni

“È un errore gravissimo mettere sullo stesso piano, in occasione del giorno della Memoria, l’incommensurabile tragedia della Shoah e altre, pur terrificanti vicende del nostro tempo, a cominciare dall’inammissibile e vergognosa mattanza che l’attuale governo israeliano sta ininterrottamente compiendo da più di cento giorni nei confronti del popolo di Gaza dopo il barbaro attacco di Hamas ai civili israeliani del 7 ottobre 2023. Radicalizzando le posizioni con questo intollerabile parallelo non solo si offende la memoria di milioni e milioni di ebrei sterminati dalla macchina di morte nazista, ma si danneggia pesantemente anche l’impegno per l’immediata cessazione dei bombardamenti su Gaza e per la ricerca di una soluzione politica al tragico conflitto in corso. Tale soluzione non può che essere quella di due popoli in due Stati, a garanzia della sicurezza di entrambi”. Partiamo da un brano del comunicato dell’ANPI nazionale, diramato alcuni giorni fa, in prossimità del 27 gennaio e che ha suscitato non poche polemiche in questi giorni in cui il tentativo di pulizia etnica messo in atto dal governo israeliano, si configura sempre più come vera e propria pratica di genocidio. Non è casuale che in alcune città, in special modo a Roma, la comunità palestinese e chi la sostiene tornerà a scendere in piazza per chiedere non solo il “cessate fuoco” ma la fine dell’apartheid e dell’occupazione dei territori palestinesi, seppur con diverse accentuazioni. Due fatti che ci dovrebbero costringere a riflettere. Ha ragione l’ANPI a riaffermare l’unicità della Shoah, (peccato l’aver dimenticato lo sterminio rom nel testo), hanno ragione i palestinesi e chiunque sostenga le loro legittime rivendicazioni, a voler pervicacemente scendere in piazza. Ma esiste uno spazio, politico e culturale, per quanto risibile, fra lo stabilire una “gerarchia dei crimini” e la nebulosa assenza di analisi che vede nel paragone con la Shoah realizzarsi la classica “notte in cui tutte le mucche sono nere”, ovvero l’equiparazione che nulla spiega e nulla affronta.

Basterebbe, per cominciare a fare questo, storicizzare e contestualizzare la miriade di genocidi che si sono perpetrati nei secoli e si continuano a realizzare, divenendo capaci di evidenziarne specificità e caratteristiche e partendo dal punto di semplice esplicitazione: ogni crimine contro l’umanità è in quanto tale incompatibile con la nostra idea di costruzione di reale modifica sociale. E sarebbe significativo – seguendo questo spirito – assumere la antica e banale posizione per cui ovunque e comunque si è dalla parte degli oppressi. A rendere difficile questa operazione non è soltanto il fatto che alcune vicende tragiche per intere popolazioni, sono andate ormai dimenticate, ma una prospettiva eurocentrica e coloniale resa ancora più corrosiva dall’imperare del revisionismo storico globale dalle molte facce. Due esempi facili e per certi versi evocativi possono rappresentare questa vera e propria deriva. Il genocidio in Ruanda, di cui ad aprile ricorre il trentennale dell’inizio, seppur praticato in condizioni di guerra civile ha avuto la caratteristica tipica delle “pulizie etniche” che hanno attraversato secoli della nostra storia. Si sono uccise circa un milione di persone, appartenenti ad un’etnia peraltro formata “artificialmente”, dalla dominazione belga, minoritaria nel Paese che andava sterminata in quanto tale. Viceversa, nella Cambogia di Pol Pot, lo sterminio praticato non è stato determinato da divisioni prestabilite. Ha riguardato tutte e tutti coloro che non erano considerati in grado, perché contaminati dai “valori occidentali”, di poter far parte della nuova umanità agognata dal regime dei Khmer Rossi. Saloth sar (il vero nome di Pol Pot), fece deportare nei campi di rieducazione, con una determinazione visionaria, quasi scientifica, anche alcuni propri familiari.

Ma raccontare le vicende ruandesi significa affrontare la dominazione belga in una parte dell’Africa Sub Sahariana, il ruolo criminale giocato dalla chiesa e dalle parole ‘odio e dell’invito al massacro lanciato dalla Radio delle Mille Colline, significa raccontare delle responsabilità europee e della totale indifferenza che per mesi ha permesso di utilizzare categorie razziste e disumanizzanti per definire quanto avveniva. Eppure il massacro ha avuto anche sue motivazioni politiche derivanti dalla volontà di destabilizzare tanto il Ruanda che il confinante Burundi, le cui risorse, in termini di metalli preziosi e terre rare, fanno tutt’ora gola a molti.

Di tutt’altro genere quanto accaduto in Cambogia dal 1975 al 1979, utilizzato ancora come dimostrazione dell’equivalenza dei totalitarismi e per la condanna tout court della famigerata parola “comunismo”. Meno grave deportare milioni di persone dalle città nelle campagne? Costringere ai lavori forzati, uccidere i potenziali dissidenti o coloro che risultavano costituire un ostacolo al “super grande balzo in avanti”, di fatto mai avvenuto? Le vicende cambogiane si inseriscono nel periodo complesso che ha portato a ridefinire radicalmente gli equilibri in tutto il mondo cosiddetto “indocinese”, prima con l’estromissione della Francia poi del gigante statunitense. In tale contesto un intellettuale proveniente dall’alta borghesia cambogiana, che aveva studiato a Parigi e partecipato tanto alla vita politica del PCF che alle campagne di solidarietà nella Jugoslavia del Maresciallo Tito, realizza per tre anni un progetto atroce e autoritario, fondato sulla collettivizzazione e sul “ripartire daccapo”, quasi con un approccio millenaristico, e utilizzando alcuni stilemi della Rivoluzione Culturale cinese. L’eliminazione di quasi un quarto della popolazione del Paese – si ripete, senza alcuna “motivazione basata su presunte ragioni etniche” – si è realizzata anche grazie al prevalere della realpolitik a cui ci si è abituati. Prima il silenzio, nonostante un iniziale sostegno cinese al nuovo regime, poi l’indebolimento progressivo del regime di Pol Pot, hanno portato ad una condizione tanto assurda quanto rimossa. Dopo che una parte dei khmer rossi aveva disertato e si era rifugiata nel confinante Vietnam, (già comunista), dopo che l’esercito vietnamita entra nel conflitto e rapidamente entra nella capital Phnom Pen, per quasi un ventennio ed unicamente in chiave antisovietica, Stati Uniti e Cina, direttamente o indirettamente, hanno continuato a sostenere le forze rimaste fedeli a Pol Pot, ovvero al genocida. Sono tanti gli esempi nella storia, soprattutto nel XX secolo, che dovremmo poter interpretare, considerare, rielaborare, alla luce di diverse chiavi di lettura, senza fermarci all’atroce classifica basata sul numero delle vittime, senza accontentarsi di una logica assolutoria e consolatoria. Questo facendo i conti anche con le responsabilità oggettive e soggettive dei singoli Paesi che oggi pretendono di ricostruire una oggettività storica a proprio uso e consumo.

E, da ultimo, sarebbe estremamente utile – per quanto scomodo – essere in grado di concretizzare quel generale “mai più”, partendo da una reale presa di coscienza delle responsabilità, nelle diverse pratiche di sterminio messe in atto nella storia recente, storicizzando e non rimuovendo i crimini passati e presenti. Ad attuare e a rendere possibile la Shoah non è stato unicamente il regime nazista ma il senso comune che ha attraversato l’Italia delle leggi razziali e che ha favorito le denunce, le deportazioni nei lager. Quel senso comune che contemporaneamente inneggiava ad un impero fondato sul sangue di uomini donne e bambini, prima in Libia e Somalia, poi in Etiopia, Albania, Istria e Dalmazia. È storia nostra come è storia che ci appartiene quella che ci rende oggi complici consapevoli di quanto accade in Medio Oriente. Si badi bene, non in quanto assoggettati, agli interessi di Usa e Nato, ma proprio in nome e per conto di un Unione Europea che oggi sembra fondata sulla guerra come unica caratteristica identitaria. Fra guerra e genocidio la linea è sottile, soprattutto da quando la maggior parte delle vittime dei conflitti sono civili, tanto è che gli scenari presenti e, si teme futuri, hanno asimmetrie diversificate, fondate sulla possibilità o meno di avere accesso a strumenti di resistenza militare. Intanto nel silenzio è ripreso il genocidio nel Mediterraneo, che contrappone l’etnia di un continente opulento a quella di chi vorrebbe di tale opulenza fare parte, o a chi non accetta di essere condannato a non avere prospettiva. Sapremo mai chiamare queste morti che non fanno rumore, che lasciano poche tracce, con la necessaria capacità di elaborazione che ci permetterebbe di ridare senso al mai ottemperato “Mai più”?

Stefano Galieni

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