articoli, recensioni

Lotta di classe, senza confini

di Stefano
Galieni

“Confini di classe, Diseguaglianze, migrazione e cittadinanza nello Stato capitalista”(Feltrinelli, pp. 74, 10 euro) di Lea Ypi è un testo, a detta di chi scrive, tanto denso e breve quanto urgente e semplice per i concetti che esprime. L’autrice, nata a Tirana, laureatasi all’Università La Sapienza di Roma, è oggi professoressa di filosofia politica alla London School of Economics and Political Science.
Il breve testo di fatto raccoglie tre articoli, che provano a disarticolare alcuni fra i paradigmi principali su cui si fondano oggi tanto le politiche delle forze xenofobe quanto quelle che si proclamano progressiste. Il punto di partenza su cui insiste l’intero volume parte dalla necessità di rideclinare l’idea stessa di cittadinanza, il senso e il significato che questa assume in un pianeta dominato dal sistema di produzione capitalista e da forme di colonialismo e di neocolonialismo che di fatto non sono mai state dismesse, a destra come a sinistra. Ed è interessante notare – per comprendere meglio bisogna leggere il suo memoir “Libera. Diventare grandi alla fine della storia” – come una ragazza che ha vissuto il regime di Enver Hoxa, divenendo adulta, si sia ritrovata a condividere le analisi marxiste, giungendo a conclusione che quello che aveva vissuto nel regime a Tirana, non avesse nulla a che fare con i principi ispiratori del comunismo. 

I concetti essenziali che emergono da questo volumetto impongono, soprattutto ad una sinistra come la nostra, di rivedere profondamente alcune nozioni di base. Si parte dall’idea legata al concetto di Stato Nazione secondo cui la cittadinanza, più che essere un diritto formale riservato a chi possiede i requisiti per poterlo trasformare in diritto sostanziale, diventa una sorta di gabbia in cui il potere costituito si riserva di decidere chi includere e chi escludere. I governi conservatori, di Stati che si considerano liberali (concetto quanto mai vago oggi), di fatto garantiscono tale condizione ad una parte dei propri cittadini. Coloro che arrivano da altri Paesi sono sottoposti ad una selezione funzionale: chi arriva portando con sé ingenti ricchezze, acquisisce rapidamente i diritti degli autoctoni; coloro che, la maggior parte, svolgono mansioni in condizioni di subalternità non debbono e non possono godere degli stessi requisiti, ne va della possibilità di trarre profitto dal loro lavoro ma, soprattutto dal potere di determinarne ogni giorno le condizioni di vita che possono essere garantite. Ai governi più xenofobi, in tempi di denatalità e di inverno demografico, lavoratrici e lavoratori immigrati servono, ma debbono restare in condizione di perenne subalternità. Le forze politiche che hanno costruito il proprio consenso sul contrasto all’immigrazione vincono oggi perché hanno convinto le classi sociali autoctone più svantaggiate che la responsabilità di ritrovarsi con salari bassi, con meno welfare e con maggiori problemi a progettarsi un futuro, derivi dalla presenza di migranti. Sono questi che, nel pensiero collettivo dominante, rubano il lavoro, pesano sul bilancio dello Stato – e non è vero – mettono a rischio la sicurezza nelle città, incutono timore in nome del fatto che sono portatori di culture altre.
Sotto traccia l’autrice afferma che la destra non fa altro che praticare gli obiettivi per cui cerca di governare. E la sinistra? Qui Lea Ypi non si addentra nelle mille e spesso intraducibili frammentazioni di tale concetto, nel mondo occidentale e in Europa in particolare. Punta l’attenzione soprattutto su quel mondo progressista e socialdemocratico che contende il governo alle destre ma che non produce mai reale alternatività. L’autrice individua due correnti di pensiero su cui dà un giudizio impietoso: quella multiculturalista, secondo cui il compito della sinistra deve limitarsi a proporre e rendere accettabile l’idea che in un Paese trovino spazio modelli culturali diversi, che lo Stato deve rendere compatibili proponendo reciprocità nell’accettazione e quello sovranazionale che insiste sulla libertà di movimento, ovviamente governata, in Europa, dalle leggi vigenti, in grado di garantire a chi arriva di poter trovare realizzazione in un proprio progetto migratorio. Due sono gli errori fondanti di tali prospettive.

Intanto, partendo dal presupposto che l’approccio illuminista di una cittadinanza universale, se mai c’è stata, non ha oggi base reale per concretizzarsi, tanto l’approccio multiculturale che quello sovranazionale, non fanno altro che riaffermare una gestione gerarchica e in fin dei conti coloniale dei diritti. È lo Stato a decidere quali sono le “differenze culturali” compatibili ed  è la  comunità di Stati a determinare le condizioni per coloro che varcano i confini di ogni singola entità nazionale. Non c’è insomma messa in discussione di alcun potere, forse si allentano alcuni vincoli per alcune persone, ma unicamente funzionali all’utilità del sistema e ai limiti che questo continua a determinare. Del resto, come afferma più volte Ypi, anche secondo il c.d. mondo progressista l’arrivo di nuovi soggetti va governato affinché non entri in competizione con il welfare garantito agli autoctoni, altrimenti diviene generatore di conflitti ingestibili. Insomma la riproposizione minacciosa di un concetto che ormai fa parte anche di organizzazioni di cui si presuppone anche una maggiore maturità politica, racchiuso nella minaccia della “guerra fra poveri”.§La professoressa Lea Ypi, rigetta i due percorsi proponendone un terzo, tanto più semplice da spiegare quanto più complesso da dover affrontare in termini di risposta, non solo politica e ideologica ma di prassi concreta. Chiede di piantarla di considerare l’immigrazione come interconnessa all’idea di comunità da assorbire, con cui fare i conti, in una visione intimamente coloniale e, aggiungerebbe chi scrive, suprematista, e di riprendere dalla cassetta degli attrezzi, l’antico termine di “lotta di classe”. Perché insomma la sinistra non fa i conti con una contraddizione interna a se stessa, ovvero il fatto che gran parte delle persone che arrivano e si stabiliscono nei paesi ricchi, attiene al mondo del lavoro, spesso sottopagato e sfruttato, che potrebbe riconoscersi e sentirsi accomunato da tale caratteristica e non in base al paese di provenienza, al colore della pelle, alla religione professata, al genere? O, sempre forse interpretando le parole dell’autrice, per quale motivo anche le analisi intersezionali, se sembrano  comprendere il ruolo giocato da “genere” e “razza”, tendono a considerare meno fondamentale quello di “classe”?
Una risposta qui è fornita ed è scomoda da digerire per una sinistra moderata che opera per ricomporre una convivenza che non è ricostruibile attraverso battaglie parziali per l’ottenimento di diritti formali. Introdurre l’idea di classe, ovviamente tenendo conto delle complessità inerenti il fatto che viviamo nel XXI secolo, significa riaffermare che la sola chiave di svolta, per modificare il presente è l’antico ma sempre valido motore del conflitto. Un conflitto che, in quanto tale potrebbe riservare sorprese non da poco. Come il fatto che le tante e i tanti autoctoni o, meglio, mutuando il linguaggio di Ypi “indigeni”, dei paesi ricchi, potrebbero trovare maggiore interesse ad un’alleanza con chi vive forme di sfruttamento che con chi, in nome dell’appartenenza nazionale o di una presunta identità culturale, opprime entrambi.
Un percorso in salita che difficilmente potrà portare consensi dove si è affermata l’idea, anche grazie alle responsabilità delle sinistre che hanno cercato compatibilità con il modello di sviluppo neoliberista, anche per chi più è sfruttato, di avere un proprio ruolo intermedio, nella guerra contro i poveri. Ma, secondo Lea Ypi, e chi scrive condivide, solo una visione di questo tipo potrà fermare, in tempi non certo brevi, l’ascesa delle destre xenofobe e populiste ammantate di finto sovranismo. Inseguire l’avversario di classe, tentando di mitigare e addolcire gli effetti devastanti prodotte dalle politiche che questo mette in atto non fa altro che rafforzarne la posizione.
La scelta di prospettare una ridefinizione del concetto stesso di cittadinanza, non su basi premiali, funzionali o affinché siano assorbite dal sistema dominante, ma perché lo si possa concretamente rimettere in discussione, in fondo non fa altro che riaffermare l’antica frase “proletari di tutti i paesi unitevi” e non certo per ottenere briciole entrando nell’immutabile gerarchia che domina la vita attuale.
Inevitabilmente, per comparazione, il pensiero di Lea Ypi è radicalmente alternativo ad alcune pulsioni di “sinistra conservatrice” che hanno trovato nella figura di Sahra Wagenknecht e nel suo BSW, la propria massima espressione. Quanto la prima rimanda ad una visione di classe che rivendica in quanto tale il proprio ruolo, tanto la seconda dichiara apertamente di dover privilegiare l’attenzione verso il proletariato nazionale, che parla una lingua e rivendica non solo il diritto a trovare una dimensione sicura di appartenenza, ma quello secondo cui, in nome della “coperta troppo corta”, si contenta di escludere chi viene da un paese diverso pensando così di rafforzare il proprio potere contrattuale e di non ritrovarsi abbandonato. Un errore micidiale, afferma la docente di origine albanese, senza fare alcun riferimento al quadro tedesco, perché secondo lei e secondo chi scrive, questo non fa altro che contribuire a frammentare la classe sociale di riferimento e a rendere immutabili i rapporti di forza.

Stefano Galieni

Articolo precedente
Dazi, Trump fa il bullo e l’Europa si inchina ai suoi piedi
Articolo successivo
Sapesse contessa… l’Unione Europea

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Compila questo campo
Compila questo campo
Inserisci un indirizzo email valido.