Dall’arrivo del Grande Bullo sulla scena internazionale molte cose sono cambiate, tutte all’insegna dell’imprevedibilità. Tra queste, vi è senz’altro il “free trade”, il mantra neoliberista che aveva forgiato l’incedere della globalizzazione, con l’abolizione di dazi e barriere commerciali che il WTO, l’organizzazione di cui gli Stati Uniti erano stati alfieri fino a un decennio fa, aveva contribuito a cancellare per gran parte degli scambi mondiali. Così, per quanto l’idea di applicare una tassa su tutti i beni provenienti dai Paesi con i quali gli USA hanno un deficit commerciale sia apparsa a molti un ritorno alle grezze politiche protezionistiche di un passato lontano, questo è ciò con cui dobbiamo fare i conti, con effetti potenzialmente disastrosi per l’economia globale. Eppure, davanti al Grande Bullo, l’Europa si inchina ai suoi piedi.
Dopo le minacce, l’incontro tra il presidente USA e la presidente della Commissione UE avrebbe prodotto un “accordo” su un valore medio dei dazi del 15% e l’impegno UE ad acquistare gas liquido e ad investire di più negli USA. La UE, da parte sua, non ha per ora articolato una reazione. Quale dovrebbe essere?
Negli ultimi anni, l’interscambio in beni della UE con gli USA è andato costantemente crescendo (€ 532,2 mld di export contro € 334,7 mld di import nel 2024) ed è sempre stato in surplus. Nel mondo, il valore dell’export totale dei Paesi UE (€ 2.557 mld) è inferiore solo a quello della Cina (€ 3.125 mld) e supera quello USA (€ 1.869 mld). La UE, in sostanza, è seconda al mondo. Gli USA, da parte loro, sono il maggiore importatore di beni al mondo (€ 2.934 mld), più dei Paesi UE (€ 2.523 mld) e della Cina (€ 2.364 mld). Gli Stati Uniti, peraltro, sono la destinazione principale dell’export UE (20,6% del totale) mentre vengono dopo la Cina in termini di import (21,3% contro il 13,7%). L’export europeo è composto per lo più da beni manufatti, macchinari e veicoli e prodotti chimici e farmaceutici. L’import, si compone delle stesse categorie con l’aggiunta di materie prime energetiche.
Altrettanto rilevante è l’interscambio di servizi tra UE e USA: nel 2023, i Paesi UE hanno esportato servizi per € 334,5 mld – voci principali: servizi professionali e tecnici, ITC, trasporti, viaggi e turismo – importandone € 482,5 mld, più o meno nelle stesse categorie, con l’aggiunta di copyrights e brevetti. Nell’insieme di beni e servizi, il surplus commerciale dell’UE è stato quindi di circa € 50 mld.
Rilevanti sono anche gli investimenti diretti esteri (IDE) europei, il cui volume complessivo ha superato i € 4.700 mld nel 2023 (€ 2.300 in entrata dagli USA, € 2.437 in uscita verso gli USA), a dimostrazione della profonda integrazione delle due economie.
L’Italia è il quinto Paese UE per valore di prodotti importati dagli Stati Uniti (€ 25,9mld, il 10,8% dell’import italiano, contro i € 69 della Germania), mentre è il terzo per valore dell’export (€ 64,8 mld, il 21,2% del nostro export totale, contro i € 161 mld della Germania). L’export italiano, com’è noto, contribuisce significativamente, nel suo complesso, al nostro pur anemico PIL. A fronte del rilevante surplus commerciale, siamo in attivo anche nell’interscambio scambio di servizi con gli Stati Uniti (€ 10,1 mld in entrata, € 12,7 mld in uscita). Il volume degli IDE italiani in USA è di circa 5 miliardi all’anno, mentre il flusso in entrata è molto minore (con ciò mostrando come l’Italia sia meno attrattiva per gli investitori USA). Ciononostante, sono molte le multinazionali presenti in Italia e contribuiscono non poco all’interscambio (35% per l’export, 50% per l’import). Il 30,4% dello stock di capitale extra-UE investito nell’economia italiana è americano. Le multinazionali USA, poi, occupano circa 350 mila addetti e producono un quinto del valore aggiunto nazionale totale, soprattutto nella manifattura. Le multinazionali italiane, al contrario, occupano 156 mila addetti negli USA, contribuendo al 13,7% del fatturato USA totale.
Ai dazi tutti i nostri settori che esportano negli USA sono potenzialmente esposti (la stima è di più di un quarto dei beni), ma sono settori che interessano anche l’export USA verso l’Italia e l’UE, con interazioni strategiche che riguardano le catene delle forniture.
Ora, come è stato rilevato da più parti, i dazi trumpiani «non hanno senso». I dazi europei sui prodotti americani erano, fino a oggi, inferiori all’1% in media. Il saldo commerciale USA-UE è negativo, ma se includiamo i servizi (cosa che il Grande Bullo non fa) non è poi così pesante (€ 50 mld nel 2024). Le imprese USA, inoltre, fanno lauti guadagni in Europa (e in Italia) e gli investimenti europei negli Stati Uniti sono già consistenti (già superano i € 2.400 mld annui e non si capisce perché venga ora richiesto di aumentarli di altri € 600 mld). Anche l’idea di acquistare fino a $ 750 mld di gas in tre anni, quando la spesa nel 2024 è stata di $ 76 mld, appare totalmente irrealistica (senza considerare quanto ci costa il gas statunitense, quattro volte di più di quello russo). Tra l’altro, a rendere il cosiddetto “accordo” niente più che una lista di intenzioni, c’è il fatto che la Commissione UE non ha nessun potere di stabilire quanto sarà il volume degli investimenti europei negli USA né quanto gas liquido verrà acquistato, perché questi sono affidati al mercato, alle imprese private e agli investitori. Se questi riterranno conveniente farlo lo faranno, viceversa saremo punto e da capo.
C’è poi da vedere se la manifattura americana si gioverà dei dazi: l’effetto “sostituzione” con beni prodotti in loco potrà venire, ma nel tempo e solo dopo un effetto inflattivo e distruttivo non indifferente. Un dazio, infatti, non è che un aumento di prezzo sui beni importati, che pagheranno i consumatori e le imprese USA (è una tassa pagata al governo). Compreranno meno beni italiani ed europei a favore di beni home-made? Forse, ma in molti casi la sostituzione non sarà immediata e forse non sarà neppure possibile, perché i dazi colpiscono gli input intermedi. L’effetto finale sarà una diminuzione (modesta) del consumo (dell’import) e un aumento dei prezzi, che non farà felice il consumatore medio americano. La sostituzione, poi, richiede la rilocalizzazione di imprese negli USA, il che non sarà semplice. E comporterà comunque un aumento dei prezzi degli input. I dazi non riducono i deficit; piuttosto, riorientano investimenti e flussi commerciali. L’import forse diminuisce, ma così può ridursi l’export. Anche se potenzialmente aumenteranno le entrate fiscali del governo USA, di certo aumenterà l’azione del capitalismo clientelare delle lobby, che cercheranno di estorcere un buon deal a Washington in cambio del sostegno al Grande Bullo.
E la UE? La migliore risposta, in realtà, sarebbe quella di non fare nulla per ritorsione. Se lasciamo gli americani “cuocersi nel loro brodo”, la UE potrebbe limitare il danno se solo agisse finalmente come la superpotenza economica che è. Intanto, visto che il WTO è bloccato dai veti, perseguendo l’idea di un nuovo WTO, magari senza gli americani, “con chi ci sta”, negoziando con i BRICS. Persino i tedeschi sono d’accordo (all’ultimo summit UE se ne è parlato).
Di fronte ad una situazione in cui la più grande economia capitalistica del mondo appare in difficoltà – un debito federale «insostenibile», secondo il governatore della Fed, che costa 1.200mld di dollari di interessi, un dollaro che si svaluta che non può servire a finanziare nuovo debito, piazze finanziarie sempre più inaffidabili – invece di giurare fedeltà usque ad mortem agli USA, come l’UE ha fatto al recente vertice Nato dell’Aia, ora, davanti a queste richieste, essa non si pone neppure il problema di una possibile crisi sistemica, il che appare sinceramente improvvido. La UE si accoda agli Stati Uniti e ai vezzi del suo boss, accettando l’opzione “riarmista” a sostegno della loro industria militare, accettandone tutte le condizioni vessatorie.
È quindi un controsenso che una simile reazione avvenga senza generare alcun effetto sensato nella definizione delle politiche doganali da parte degli Stati Uniti – con, peraltro, un’incidenza minima sul PIL (meno dell’1% è la stima) – e rinunciando a ogni azione di natura fiscale verso i colossi americani che fanno utili enormi in Europa (senza contare le nostre grandi commesse di armi ad industrie americane). Così, sembra solo che l’Europa abbia deciso di farsi carico della tenuta del capitalismo statunitense in cambio di nulla.
Piergiorgio Ardeni
