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L’invasione dell’Iraq dopo 20 anni. Riflessioni su una catastrofe e su di noi

di Alessandro
Scassellati

In questo articolo cerchiamo di sviluppare ragionamenti e analisi su tre temi: la guerra in Iraq e le sue conseguenze;  lo “scontro delle civiltà” tra occidente e mondo islamico; e il suprematismo neoconservatore statunitense e le relazioni politiche globali.

Vent’anni fa, nella notte tra il 19 e il 20 marzo 2003, gli Stati Uniti (George W. Bush), il Regno Unito (Tony Blair) e una “coalizione dei volenterosi” (di cui non facevano parte Francia e Germania1, ma altri 47 paesi, tra cui l’Italia2), che si poneva l’obiettivo dichiarato di “diffondere la democrazia”, invasero l’Iraq con 130 mila soldati (ma complessivamente la Coalizione poté contare su 260 mila militari e 50 mila mercenari/contractors) in una disastrosa missione militare3 basata su imperfette informazioni4, mesi di bugie propinate al mondo (come le affermazioni della Casa Bianca di Bush secondo cui Saddam Hussein fosse in possesso di “armi di distruzione di massa” e fosse dietro l’attentato dell’11 settembre 20015 e un disinvolto disprezzo per il diritto internazionale6. L’invasione ha “aperto le porte dell’inferno”, come aveva dichiarato la Lega Araba, con centinaia di migliaia di morti civili (più di un milione di civili iracheni, secondo uno studio7, mentre sono rimasti uccisi 4.466 soldati americani e 326 degli altri 49 paesi della Coalizione, gettando nella guerra quasi 3 trilioni di dollari), decenni di guerra civile e violente violenze settarie in Iraq e l’ascesa del gruppo militante dello Stato islamico (IS), diretto e composto in parte da ex membri e ufficiali sunniti del partito secolare Ba’ath (il partito-Stato) dell’era Saddam, che venne incubato in un campo di prigionia statunitense8.

In uno schema che si sarebbe ripetuto più volte nei successivi due decenni di “guerra al terrore“, gli Stati Uniti e i loro alleati, a cominciare dal Regno Unito, presumevano che una schiacciante superiorità tecnica e militare sostenuta da un apparente super-potente military-industrial complex9 fosse tutto ciò di cui avevano bisogno per controllare una nazione lontana e la sua popolazione. Una campagna di massicci bombardamenti aerei e lanci di missili cruise Tomahawk per creare “shock and awe” (colpisci e terrorizza), fu l’avvio dell’invasione e già il giorno successivo le truppe di terra anglo-americane si erano spostate in Iraq. Saddam fu presto in fuga10 e all’inizio di aprile Baghdad fu formalmente occupata. Il 9 aprile un gruppo di soldati americani, con alcuni cittadini iracheni, buttarono giù la statua del dittatore Saddam in piazza Firdos e le immagini fecero il giro del mondo11. Venne così raggiunto uno degli obiettivi fondamentali dell’invasione: il “cambiamento di regime”.

Il 1° maggio, il presidente degli Stati Uniti George Bush ha organizzato uno spettacolo teatrale per i mass media su una portaerei, annunciando “missione compiuta“. L’America aveva posto fine a “grandi operazioni di combattimento” in Iraq. È stato un discorso che ha dimostrato tutta l’arroganza, l’ignoranza e il disprezzo americani per la realtà sul terreno in Iraq, dove decenni di spargimento di sangue erano solo all’inizio.

Gli errori strategici dell’occidente hanno determinato la tragedia duratura dell’Iraq. La catastrofica gestione dell’occupazione includeva la campagna di “de-baathificazione“, uno sforzo mal gestito per eliminare l’influenza di Saddam nel paese. Gli occupanti hanno sciolto l’esercito nazionale iracheno e il corpo di polizia12, devolvendo le funzioni di sicurezza e militari dello Stato a un amalgama di forze militari statunitensi, appaltatori stranieri (come la società contractor militare Blackwater, fondata dal miliardario Erik Prince) e milizie private allineate a partiti politici che hanno ricevuto potere dall’occupazione. Migliaia di ex dipendenti e soldati del governo si sono trovati improvvisamente senza futuro nel nuovo Stato dominato dagli Stati Uniti e hanno messo il turbo all’insurrezione. La prigione di Abu Ghraib è diventata sinonimo di abusi da parte degli Stati Uniti quando sono trapelate alla stampa fotografie e resoconti di detenuti lì torturati13. È stata imposta una Costituzione (2005) basata sulla divisione settaria su base religiosa/etnica/tribale (sunniti, sciiti, curdi, ecc.; un sistema noto come al-muhasasa14), come è stato imposto un sistema economico basato sul libero mercato non regolamentato dal governo, in cui le società straniere (euro-americane) così come le società costruite dalla diaspora irachena hanno avuto la parte del leone nel compito di ricostruire e sviluppare le riserve petrolifere dell’Iraq (le quinte maggiori al mondo)15. L’immenso patrimonio archeologico-culturale iracheno è stato saccheggiato16, mentre le truppe statunitensi stavano a guardare.

Gli Stati Uniti avevano promesso di portare la libertà agli iracheni, ma la loro occupazione di otto anni (2003-2011) ha provocato morte e distruzione su scala orribile. Ha lasciato dietro di sé un ordine politico autoritario, corrotto e settario che ha risposto alle proteste popolari con una brutale repressione e che presto non è stato in grado di far fronte all’ascesa dell’IS. E per due decenni successivi all’invasione i civili sono morti in numero terribile per mano di tutte le parti in conflitto, in sparatorie, attentati suicidi, raid aerei e fuoco incrociato.

In Italia e in tutto il resto del mondo ci furono prima dell’invasione grandi manifestazioni per impedire la guerra all’Iraq, con milioni di persone che si sono opposte dicendo: “Non in nostro nome” (Not in our name). Quella del 15 febbraio del 2003 fu la più grande in assoluto della storia dell’umanità, che attraversò l’intero pianeta seguendo il fuso orario del sole (in oltre 600 città del mondo). Con l’avvio dell’invasione, il mondo ha reagito alla guerra Bush/Blair con disapprovazione, ma quasi nessuna azione è stata intrapresa contro di loro. Non ci sono state sanzioni imposte dagli Stati agli Stati Uniti o al Regno Unito. Nessun investigatore del tribunale penale internazionale ha raccolto prove a sostegno di azioni penali per crimini di guerra. Alcuni individui e alcune organizzazioni per i diritti umani hanno chiesto che Blair fosse incriminato con l’accusa di aver commesso il reato di aggressione, ma nessun governo si è rivolto alle Nazioni Unite con una risoluzione per aprire un procedimento penale contro di loro.

Alla prima resistenza baathista (i seguaci del partito Ba’ath di Saddam) si è presto sostituita una resistenza legata al jihadismo, un esito che è stato in qualche modo voluto dall’occupazione. Gli occupanti hanno creato un vuoto dentro l’Iraq e aperto le frontiere. La totale assenza delle istituzioni ha rappresentato per estremisti e fondamentalisti islamici un vero e proprio pozzo dal quale attingere. È così iniziata la seconda generazione di Al Qaeda (la prima è quella dell’Afghanistan) e poi dalle sue ceneri ci sarà la terza generazione, quella di Daesh17. Gli islamisti hanno capito le sofferenze e le frustrazioni degli iracheni e le hanno strumentalizzate. Hanno di fatto soppiantato la prima resistenza quella del partito Ba’ath e dei nazionalisti. Reclutavano facilmente dai militari delle vecchie forze armate lasciati al loro destino. Sono diventati per questo più pericolosi perché potevano contare sull’esperienza di generali, ufficiali, gente abituata ad agire nel mondo militare. Prima Al-Qaeda è diventata un attore importante e poi Daesh è diventata una forza armata in grado di occupare un terzo dell’Iraq e una parte importante della Siria.

Allo stesso tempo, il contraccolpo geopolitico per le élite statunitensi è continuato sotto forma del rafforzamento del grande avversario di Washington nella regione, l’Iran18, che ha utilizzato il conseguente vuoto di potere per aumentare la sua influenza in Iraq, la cui maggioranza sciita non era più frenata dalla mano dittatoriale e sunnita di Saddam.

Vent’anni dopo la caduta del partito Ba’ath di Saddam Hussein, l’Iraq opera – sulla carta – come una repubblica federale democratica con una regione autonoma a maggioranza curda nel nord. Le autobombe non squarciano più quotidianamente le strade della capitale. I cecchini non si accovacciano in cima agli edifici. Molte meno persone vengono uccise o rapite a causa della loro identità settaria o etnica. Le truppe statunitensi non controllano più una brutta rete di posti di blocco in cemento che un tempo smembravano gli spazi urbani. Lo Stato islamico, che ha invaso l’Iraq e la Siria nel 2014, non controlla più aree di territorio. Ma, da un punto di vista geopolitico, l’Iraq continua ad essere sotto il controllo degli USA (che hanno ancora 2.500 militari sul terreno) e Iran19, con la Turchia che con sistematicità interviene militarmente nel Kurdistan iracheno. I rapporti tra USA e Iran sono stati particolarmente conflittuali negli anni di Trump riguardo a questioni come l’accordo nucleare (JPCOA, da cui Trump è uscito unilateralmente) o i progetti di estrazione del gas iraniano e, soprattutto, la sicurezza d’Israele.

Una situazione che continua ancora oggi con il governo di Mohammed Shia al-Sudani, molto vicino all’Iran, ma che non dispiace agli USA. Uno schema, però, che è stato rotto dalle rivolte popolari del 2018 (nella regione meridionale di Basra) e del 2019 (con la cosiddetta rivolta di Tishreen): gli slogan dei ragazzi e delle ragazze che hanno tenuto per mesi la piazza erano rivolti sia contro l’Iran che contro gli Stati Uniti. Dicevano: “voi avete distrutto questo paese, noi non vi vogliamo, USA e Iran, tutti fuori”. Una rivolta nata da un processo dal basso ed includente contro la divisione settaria basata su etnia e religione, la corruzione20, l’ingiustizia sociale. Più di 600 persone sono state uccise e molte altre sono state ferite, rapite, arrestate o fatte sparire con la forza, nell’indifferenza della comunità internazionale, dalle milizie settarie e dalle forze di polizia. In tutto il Paese giornalisti e attivisti che criticano potenti leader e gruppi politici spesso scompaiono, vengono arrestati o uccisi.

Pertanto, il paese non è ancora riuscito ad uscire da una terribile impasse. Il 75% dei suoi 42,2 milioni di abitanti è sotto i 25 anni e il 40% ha meno di 15 anni21, e quello che è certo è che non vuole più guerre, clientelismo, distruzioni. Il tasso di disoccupazione ufficiale in Iraq oggi è del 16%. Tra i giovani, è molto più alto: il 36%. La maggior parte degli iracheni lavora nel settore informale. Non hanno protezione, sicurezza del lavoro o benefici sociali perché lo Stato è in bancarotta. Questa classe precaria comprende persone di diversa estrazione sociale: studenti universitari, operatori sanitari, insegnanti e così via. Fornisce il carburante per massicce proteste contro il sistema politico iracheno che continuano a scoppiare nel paese. Le cose sono particolarmente brutali per le donne irachene. I cosiddetti delitti “d’onore” hanno luogo frequentemente. In alcune zone le donne sono visibilmente assenti dai luoghi pubblici. Le ragazze spesso non sono autorizzate dai loro genitori ad uscire in pubblico, mentre la partecipazione femminile alla forza lavoro è solo dell’11%22.

Il danno alla reputazione che la guerra in Iraq ha inflitto globalmente agli Stati Uniti è stato immenso. Nel 2003, Washington si godeva il “momento unipolare” da poco più di un decennio, quando Bush invase l’Iraq, innescando un’opposizione globale senza precedenti, mentre calpestava il diritto internazionale, il multilateralismo e le “norme” in cui ora i funzionari statunitensi si avvolgono in modo poco convincente. Se gli Stati Uniti erano la potenza globale indiscussa, si erano improvvisamente rivelati profondamente irresponsabili e pericolosi. L’Iraq fino ad oggi rimane un punto critico per un Sud del mondo riluttante ad allinearsi con gli Stati Uniti sull’invasione dell’Ucraina23, e non è una causa minore della potenziale espulsione degli Stati Uniti dalla regione mediorientale da quello che i funzionari statunitensi considerano il loro principale rivale, la Cina, diventata il mediatore del riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita e leader di un blocco (politico, economico-finanziario e militare) euroasiatico e globale in formazione, alternativo a quello occidentale. Il successo attuale della Cina mette in luce i difetti della politica di sicurezza nazionale americana, in particolare la politica del non riconoscimento e delle sanzioni, insieme alla dipendenza dall’uso della forza militare per ottenere guadagni nella politica internazionale.

Mentre la strategia militare “shock and awe” ha lasciato il posto al caos, all’insurrezione, alla distruzione e alla morte, la guerra avrebbe dovuto screditare il progetto suprematista americano che l’ha generata. Invece, la ricerca del primato dura. Come ha scritto lo storico Daniel Bessner sulla rivista Harper’s Magazine l’anno scorso, decenni di egemonia militare globale statunitense hanno conferito agli Stati Uniti “una cultura politica militarizzata, razzismo e xenofobia, forze di polizia armate fino ai denti con armi di qualità, un budget per la difesa gonfio e guerre senza fine”. Il potere degli Stati Uniti sta incontrando una resistenza crescente in tutto il mondo e Washington desidera contrastarla quasi tutta, ovunque, continuando a confondere la proiezione del potere degli Stati Uniti con gli interessi americani, cercando ancora di sopraffare i rivali ed evitare di frenare le ambizioni degli Stati Uniti. I risultati sono stati abbastanza disastrosi durante il momento unipolare degli Stati Uniti. Ora, contro le grandi potenze armate di armi nucleari come Russia e Cina, potrebbero essere molto peggiori e mettere a rischio la vita umana sul pianeta. Inquadrando la guerra in Ucraina come una lotta tra democrazia e autocrazia, Biden mostra che gli Stati Uniti non hanno imparato la lezione dell’Iraq (d’altra parte Biden era allora presidente della commissione per le relazioni estere del Senato e votò per autorizzare la guerra)24.

Lo “scontro delle civiltà”: occidente contro il mondo islamico 

La guerra in Iraq è stato uno dei tasselli di uno “scontro delle civiltà” teorizzato da Samuel Phillips Huntington (Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 2000) tra il mondo occidentale e la parte più tradizionalista, fondamentalista ed integralista del mondo musulmano. Uno scontro che è stato ampiamente provocato sul piano politico e culturale. Da un lato, c’è la mancata risoluzione del conflitto Israelo-Palestinese, che si trascina dagli anni ’40 del secolo scorso25. Dall’altro lato, c’è stato l’intervento militare dello schieramento americano/occidentale, prima in modo surrogato, con le cosiddette “proxy wars”, attraverso il sostegno:

  • ai mujaheddeen musulmani e ai “signori della guerra” in Afghanistan, sostenuti dalla CIA con la “Operation Cyclone”, riforniti dal Pakistan e finanziati dall’Arabia Saudita, nella vittoriosa guerra contro l’Armata Rossa sovietica dal 1979 al 1988 (ritiratasi nel 1989, dopo aver perso 20 mila uomini), che poi dal 1992 si è trasformata in una sanguinosa guerra civile tra sunniti e sciiti (della minoranza hazara) che ha fatto emergere i mullah taleban (“studenti coranici”) ed è durata fino al 2001. I taleban non sono riusciti mai a mettere sotto uno stabile controllo le zone più occidentali e settentrionali, dove i “signori della guerra”, spesso anche coltivatori d’oppio, non ne tolleravano lo zelo. Il governo dei taleban ricevette scarso riconoscimento internazionale (Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Pakistan);
  • al regime iracheno di Saddam Hussein nella guerra contro l’Iran sciita dal 1980 al 1988, costata più di un milione di morti e finanziata da sauditi e altre monarchie del Golfo con 50-60 miliardi di dollari.

Lo scontro tra mondo musulmano e mondo occidentale è poi proseguito in modo diretto a cominciare dalla cosiddetta Prima Guerra del Golfo (1990-1991), definita a suo tempo una “guerra giusta” perché motivata dalla liberazione del Kuwait, dopo l’invasione da parte dell’esercito iracheno. Dopo l’attacco terroristico di Al Qaida al World Trade Center di New York e al Pentagono (11 settembre 2001), la sicurezza e l’identità sono diventati i temi prevalenti del dibattito politico nel mondo occidentale in rapporto al mondo islamico. Il panico diffuso tra gli americani e i loro alleati è stato utilizzato (specialmente negli Stati Uniti) per giustificare uno stato di emergenza permanente, con conseguenze dannose per le libertà civili e il dibattito pubblico interno, nonché per le molte migliaia di civili che sono diventati “danni collaterali” in Iraq, Afghanistan, Pakistan e altri Paesi di religione musulmana.

Il 20 settembre 2001 il presidente Bush ha cercato di calmare il popolo americano con un discorso in una sessione congiunta del Congresso. “Questa sera siamo un Paese che si è svegliato dal pericolo e che è chiamato a difendere la libertà. Il nostro dolore si è trasformato in rabbia e la rabbia in risoluzione“, ha detto. Quella risoluzione, ha continuato a spiegare Bush, era che i talebani consegnassero “ogni terrorista” in Afghanistan “o avrebbero condiviso il loro destino”. Ma, è stato quello che ha detto dopo che ha posto le basi per una “forever war” che ha consumato oltre 20 anni, coinvolgendo milioni di persone negli Stati Uniti e in tutto il mondo. “La nostra guerra al terrorismo inizia con al-Qaeda”, ha dichiarato fiducioso il presidente, “ma non finisce qui. Non finirà finché ogni gruppo terroristico di portata globale non sarà stato trovato, fermato e sconfitto”. Parole che hanno impegnato gli Stati Uniti e i loro alleati a perseguire una guerra che non poteva essere vinta, perché quegli obiettivi erano assolutamente impossibili da raggiungere.

Abbiamo così avuto una escalation sul piano militare del conflitto con il mondo musulmano come conseguenza della strategia dei neoconservatori americani basata sulla “guerra globale al terrorismo” e all’”asse del male” (una frase coniata dallo speechwriter di George W. Bush, David Frum, che identificava Iraq, Iran e Nord Corea come nemici degli USA), sullo “scontro delle civiltà“, sulla “esportazione della democrazia” e sull’imposizione di un “nuovo ordine internazionale” attraverso la “terapia” dello shock-and-awe, con la guerra in Afghanistan (dal 7 ottobre 2001 al 15 agosto 2021), con la Seconda Guerra del Golfo (dal 2003 al 2011) – generata da Bush jr e Blair in modo unilaterale come guerra preventiva, senza un piano strategico coerente (soprattutto su come gestire il dopoguerra) e senza il consenso dell’ONU, sulla base del falso teorema e della costruzione a tavolino di false prove (la più grande fake news della storia contemporanea confezionata dall’allora segretario di Stato Colin Powell in un discorso al Consiglio di Sicurezza il 2 febbraio 2003 in cui ha falsificato la “pistola fumante” che accusava Saddam, mostrando una fiala contenente antrace e immagini satellitari di siti in cui sarebbero state stoccate le “armi di distruzione di massa”), che il regime di Saddam Hussein possedesse un arsenale di “armi di distruzione di massa” che avrebbero minacciato il mondo intero -, con le “primavere arabe”, le guerre civili in Libia, Siria e Yemen (dal 2011), la guerra all’IS (2014-2018), lo Stato Islamico nato tra l’Iraq e la Siria26, e gli attacchi terroristici da parte di estremisti islamici in vari Paesi (soprattutto in Europa, Medio Oriente, Asia e Africa).

Una visione che è rapidamente divenuta così profondamente radicata nell’establishment di Washington e nei media statunitensi che quasi ogni considerazione di impegnarsi diplomaticamente con Paesi che non piacciono è stata di riflesso respinta o condannata come “appeasement”. Bush Jr ha invaso militarmente l’Iraq nel 2003 nonostante che Saddam Hussein, il dittatore iracheno, non avesse armi di distruzione di massa, nessun legame con al-Qaeda e nessuna responsabilità per l’11 settembre. Inoltre, Bush Jr. ha condotto gli Stati Uniti in una guerra inutile, non tenendo conto della dottrina Powell – l’idea promulgata dal generale Colin Powell mentre era Chairman of the Joint Chiefs of Staff durante la Prima Guerra del Golfo – che per gli USA sia possibile entrare in guerra solo quando sono in gioco interessi nazionali vitali e sia possibile assicurare una vittoria schiacciante. La Carta dell’ONU vieta specificamente l’intervento straniero negli affari interni degli Stati sovrani, ma questo divieto è stato aggirato dal principio della “responsabilità di proteggere” le popolazioni civili formulato da Tony Blair. Ma man mano che le vittime civili sono aumentate, è divenuto evidente che tale principio veniva utilizzato come una mera copertura per guerre incessanti di aggressione occidentale dalle quali, non a caso, l’ONU è rimasto quasi del tutto ai margini.

Tutte guerre non vinte o di fatto ancora in corso, con innumerevoli crimini di guerra, abusi ed orrori che sono stati svelati da WikiLeaks fondata dall’australiano Julian Assange (che negli USA rischia fino a 175 anni di carcere per aver divulgato, a partire dal 2010, più di 700 mila documenti riservati sulle attività militari e diplomatiche statunitensi soprattutto in Iraq e Afghanistan). Il fallimento ventennale di Washington in Afghanistan ha lasciato il presidente degli Stati Uniti Joe Biden umiliato quando ha ritirato precipitosamente tutte le truppe statunitensi, dichiarando nell’agosto 2021 che stava ponendo fine agli sforzi statunitensi “per rifare altri paesi“.

In 20 anni di “guerra globale al terrorismo”, 3,5 milioni di soldati americani hanno combattuto nei vari fronti, 7.057 sono stati uccisi in battaglia e 53.242 feriti, mentre altre decine di migliaia hanno dovuto combattere i problemi psicologici legati a forme di stress postraumatico (Ptsd). Uno studio di Thomas Howard Suitt della Boston University ha infatti stimato che sono ben 30.177 i soldati statunitensi, in servizio o veterani di guerra che hanno deciso di suicidarsi in conseguenza dei traumi mentali sviluppati in seguito ai combattimenti.

Una “guerra globale contro il terrorismo” che dal 2001 ad oggi, secondo il Costs of War Project della Brown University, in otto Paesi (Afghanistan, Pakistan, Iraq, Libia, Siria, Yemen, Somalia, e Filippine) ha provocato “danni collaterali” pari ad oltre 240 mila morti e almeno 37 milioni di sfollati tra le popolazioni civili dei Paesi coinvolti e che è costata agli USA complessivamente oltre 6.400 miliardi di dollari (includendo i costi futuri per l’assistenza ai veterani), la morte di oltre 14 mila soldati e oltre 300 mila veterani che soffrono di lesioni post-traumatiche.

Gli interventi militari diretti degli americani e dei loro alleati avevano l’obiettivo di imporre il cambio di regime in Afghanistan, Iraq, Libia e Siria e hanno lasciato dietro di sé il caos, centinaia di migliaia di morti, milioni di profughi, Stati falliti, pulizie etniche e religiose27, reclute terroristiche e guerre senza fine, ma sono serviti anche a consolidare l’idea che la “civiltà occidentale”, come succedeva durante la Guerra Fredda, abbia un nemico planetario, la “civiltà islamica”, e un “nemico” interno, la parte della cittadinanza che professa la religione musulmana, i “i figli di Allah” che, ha scritto Oriana Fallaci, “si riproducono come i ratti28.

Il suprematismo neoconservatore statunitense

Con la fine della Guerra Fredda, tra il 1989 e il 1991, gli Stati Uniti hanno perso il loro nemico storico e, conseguentemente, anche un quadro coerente per comprendere il mondo e il loro posto in esso. Quale fosse la loro ragione d’essere dato che non dovevano più affrontare un nemico esistenziale comunista. Non c’era più alcuna giustificazione per il loro impero globale.

Purtroppo, invece di mettersi in discussione, con l’emergere del movimento neoconservatore ogni prudenza, ogni autolimitazione degli impulsi a dominare il mondo e ad usare il potere coercitivo, è stata abbandonata dagli Stati Uniti. Il capitalismo finanziarizzato e globalizzato regolato dal neoliberismo è diventato il paradigma assoluto da applicare al mondo: un capitalismo senza vincoli, basato su global corporations in grado di operare su scala planetaria in un mondo aperto al movimento di beni, capitale, idee e persone, che avrebbe creato ricchezza su una scala inimmaginabile. L’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003 è così entrata a far parte di questo progetto neoconservatore post Guerra Fredda.

Poco più di un decennio prima dell’invasione dell’Iraq, tre degli uomini che sarebbero diventati i funzionari più influenti dell’amministrazione di George W. Bush – Dick Cheney, Colin Powell e Paul Wolfowitz – stavano lavorando al Pentagono per escogitare un nuovo concetto per guidare la strategia degli Stati Uniti nel mondo post Guerra Fredda. Anche se l’Unione Sovietica era crollata, volevano che gli Stati Uniti continuassero a proiettare una potenza militare superiore in tutto il mondo. Nel 1992, Powell, allora capo del Joint Chiefs of Staff, espresse chiaramente l’obiettivo. Gli Stati Uniti devono possedere “un potere sufficiente” per “dissuadere qualsiasi sfidante dal sognare di sfidarci sulla scena mondiale“, ha detto al Congresso. “Voglio essere il bullo del quartiere.”

Così fece Cheney, all’epoca segretario alla difesa del presidente George H. W. Bush. Incaricò il suo vice, Wolfowitz, di supervisionare la redazione della Guida alla pianificazione della difesa, un quadro completo per la politica di sicurezza degli Stati Uniti scritto nel 1992. In 46 pagine, Wolfowitz e i suoi colleghi (Scooter Libby e Zalmay Khalilzad) hanno spiegato come sostenere il dominio globale degli Stati Uniti in assenza di formidabili rivali. La chiave, ragionavano, era pensare e agire preventivamente. In mancanza di sfidanti contro cui bilanciarsi, gli Stati Uniti avrebbero dovuto impedire che ne emergessero di nuovi. Avrebbero dovuto dissuadere “i potenziali concorrenti anche solo dall’aspirare a un ruolo regionale o globale più ampio”. A tal fine, gli Stati Uniti avrebbero mantenuto un imponente esercito, dimensionato per far impallidire tutti gli altri e in grado di combattere due grandi guerre contemporaneamente. Avrebbero mantenuto alleanze e truppe in ogni regione del mondo (in circa 800 basi militari in 80 paesi di cui ancora dispongono) che Washington considerasse strategicamente significativa. In breve, avrebbero sostituito gli equilibri di potere con una preponderanza di potere americana.

In questa visione dell’egemonia americana, gli Stati Uniti sarebbero stati benevoli. Avrebbero interiorizzato gli interessi fondamentali degli alleati e agito a beneficio di gran parte del mondo. Nel formulare la propria politica estera, raccomandavano i pianificatori del Pentagono, gli Stati Uniti avrebbero dovuto “tenere conto degli interessi delle nazioni industriali avanzate in modo sufficiente da scoraggiarle dallo sfidare la nostra leadership o cercare di rovesciare l’ordine politico ed economico stabilito”. Il primato degli Stati Uniti avrebbe così soppresso il ruolo di sicurezza degli alleati e degli avversari degli Stati Uniti. Ogni nazione, tranne una, non avrebbero avuto nulla da guadagnare e molto da perdere costruendo il proprio potere militare. In questo modo, gli Stati Uniti avrebbero potuto rimanere al vertice per sempre, offrendo sicurezza globale a costi ragionevoli.

C’erano due problemi principali con questa teoria, e sono emersi non appena la bozza di Wolfowitz è trapelata ai giornalisti quel marzo 1992.

Il primo difetto era che la ricerca di egemonia degli Stati Uniti poteva indurre altri a reagire e controbattere. Piuttosto che sottomettersi alla pace perpetua secondo i termini di Washington, altri paesi avrebbero potuto sviluppare capacità militari per contrastare la potenza degli Stati Uniti. Con la Russia che vacillava dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la Cina ancora povera, gli Stati Uniti non avrebbero dovuto affrontare un’opposizione decisa per gli anni a venire. Ma più l’unica superpotenza ampliava i suoi impegni di difesa e la sua portata militare, più poteva incontrare e persino stimolare una resistenza. Col tempo, gli Stati Uniti avrebbero potuto trovarsi sovraesposti e rischiare guerre separate dagli interessi statunitensi, ad eccezione di quegli interessi creati circolarmente cercando in primo luogo il dominio globale. Il Pentagono di Cheney voleva il primato americano per rendere futile la resistenza. E se invece la resistenza avesse reso futile il primato americano?

Non era inoltre chiaro se il popolo americano sarebbe stato disposto a sostenere i costi del dominio globale, soprattutto se tali costi fossero aumentati. Il documento del Pentagono ha scatenato una reazione immediata. La nuova svolta strategica venne considerata con un certo scetticismo dai repubblicani internazionalisti e multilateralisti sopravvissuti agli anni di Reagan29. Allo stesso tempo, il commentatore paleo-conservatore Pat Buchanan, durante la sua campagna presidenziale, ha denunciato il piano come una “formula per un intervento americano senza fine“. L’audace ambizione per il primato allo stesso modo veniva respinta dai leader democratici, che erano favorevoli a un dividendo di pace per gli americani e alla sicurezza collettiva per il mondo. Biden, all’epoca senatore, schernì la strategia neocon: “La visione del Pentagono ritorna a una vecchia nozione degli Stati Uniti come poliziotto del mondo, un’idea che, non a caso, conserverà un ampio budget per la difesa“. Il consenso della Guerra Fredda a favore del contenimento del comunismo sovietico era stato forgiato in risposta a una minaccia esistente di una grande potenza. Sorvegliare il mondo post-Guerra Fredda, che presentava varie sfide, ma nessun grande nemico, era una proposta nuova e non testata che tanti americani ritenevano dubbia.

Dopo l’11 settembre 2001, con nemici come Al Qaeda o l’IS, la politica estera americana è stata essenzialmente fatta dal Dipartimento della Difesa, ed è diventata una questione che si è ridotta essenzialmente nel decidere dove inviare truppe, cacciabombardieri e droni (che ormai possono uccidere chiunque ovunque) nell’ambito di un intervento globale giustificato sulla base del mito dell’“eccezionalismo americano”, ossia del fatto che gli Stati Uniti si sono auto-assegnati il “destino speciale” (che si dice sia voluto dalla Provvidenza divina e per questo considerato “manifesto” e plasmato da ideali universali) di trasformare il mondo promuovendo la democrazia attraverso la guerra (insieme alla tortura ad Abu Ghraib e altrove, all’eliminazione fisica dei nemici con bombardamenti di aerei e droni e all’incarcerazione senza processi nel centro di detenzione di Guantánamo Bay dei sospettati). La dottrina dell’eccezionalismo, forgiata nel corso della conquista del territorio che va dalla costa orientale atlantica a quella occidentale pacifica, condotta con continue guerre contro i popoli nativi, gli inglesi, gli spagnoli e i messicani) sostiene che gli Stati Uniti sono intrinsecamente diversi e superiori alle altre nazioni. Questa superiorità significa che gli Stati Uniti sono soggetti a uno standard diverso. Si dice che le loro azioni siano benevoli e al di sopra del diritto internazionale, e gli Stati Uniti hanno il diritto di intervenire a loro piacimento in tutto il mondo, inclusa la costruzione di una rete globale di basi militari e guarnigioni che non permetterebbero mai a un altro potere di avere.

Ma, “eccezionalismo”, “internazionalismo” e “leadership globale“, altro non sono stati che degli eufemismi escogitati da politici, giornalisti e storici per mascherare ambizioni e comportamenti imperiali dell’America. I neoconservatori, basandosi sulla convinzione di una superiorità politica e anche morale (“la più grande democrazia del mondo“) che andava affermata e difesa, hanno identificato gli interessi americani in modo espansivo, sostenendo che gli Stati Uniti possano e debbano applicare il proprio potere politico-economico e militare – unilateralmente e universalmente – per preservare la loro posizione dominante, proteggere i loro interessi e promuovere i loro ideali conservatori in tutto e su tutto il mondo.

Con la “war on terror” e leader radicali del Congresso come Newt Gingrich e Paul Ryan, sostenuti da movimenti neoconservatori di massa come il Tea Party, i moderati repubblicani sono via via divenuti una minoranza a Washington. Con Trump hanno rischiato di estinguersi. Piuttosto che sottomettersi ad un bombardamento da parte dei principali avversari pro-Trump, i senatori Robert Corker e Jeff Flake hanno optato per la pensione. Con la morte del senatore John MaCain e dopo le elezioni di midterm del 2018, nonostante la resistenza del conservatore libertario Charles Koch e del suo potente network finanziario e fondazionale (critico verso le politiche di bilancio, migratorie e commerciali di Trump), il Partito Repubblicano è diventato pienamente il partito di Trump, del suo nazionalismo economico e unilateralismo in politica estera. Gli stessi neoconservatori, che nel 2016 aborrivano Trump, sono entrati nella sua squadra con Mike Pompeo, John Bolton e Robert C. O’Brien (che ha sostituito Bolton alla guida del CSN), mentre altri – come Robert Kagan, Max Boot e Bret Stephens – continuano a essere opinionisti influenti di Brookings Institution, American Enterprise Institute, Institute for the Study of War, Foundation for Defence of Democracies, Council on Foreign Relations, The New York Times, The Washington Post, CNN, MSNBC, The Atlantic, Foreign Policy, Foreign Affairs e altre pubblicazioni. Soprattutto, Trump aveva accentuato il suo aggressivo unilateralismo in politica estera (ad esempio, sulle questioni iraniana, cinese, yemenita, israelo-palestinese) e reso infuocato lo scontro (costituzionale) con il Congresso (ad esempio, sulle questioni immigrazione e costruzione del muro lungo il confine con il Messico), con la pressoché totale acquiescenza dei repubblicani.

I trumpiani credono che il multilateralismo (basato su quelli che essi considerano degli “amorphous deals”) incarni un internazionalismo idealistico e liberale obsoleto che determina il declino dell’egemonia economico-politica globale degli Stati Uniti. Essi si rifanno alla scuola di pensiero incarnata da Andrew Jackson (uno sterminatore di popolazioni indiane native), eletto nel 1829 come primo presidente americano populista (a pochi giorni dal suo insediamento, nel gennaio 2017, Trump aveva appeso un ritratto di Jackson nello Studio Ovale). I Jacksoniani non vedono la repubblica come un insieme di ideali, ma come lo Stato nazionale del popolo americano (bianco), la cui politica estera deve essere focalizzata sulla difesa di quello Stato nazionale contro le influenze maligne e gli impulsi cosmopoliti delle élite.

Per loro il mondo non è una comunità globale, ma un’arena in cui gli Stati-nazioni, gli attori non governativi e le imprese lottano e competono sulla base dei rapporti di forza per acquisire dei vantaggi. Per loro lo scontro di oggi non è anche per estendere i diritti umani universali (tra i quali ci sono i diritti alla vita, al movimento e all’asilo) e i valori della democrazia e della libertà (anche se le politiche americane non sono sempre state all’altezza di questi valori, come direbbero i cittadini di Iran, Vietnam, Cambogia, Indonesia, Filippine, Cile, Bolivia, Brasile, Argentina, Repubblica Dominicana, Grenada, Panama, Cuba, Haiti, El Salvador, Guatemala, Nicaragua, Libano, Iraq, Afghanistan, Somalia, Libia, Congo, e di molti altri Paesi) al di fuori dello schieramento occidentale, ma per difendere sia la supremazia della cultura “giudaico-cristiana” delle “nazioni bianche” dagli attacchi di altre civiltà, in particolare, dall’espansione dell’Islam (il “terrorismo islamico-radicale”), sia la supremazia economica e militare americana dalla competizione dell’Unione Europea e della Cina. Quest’ultima viene ormai considerata come un Paese egemonizzato da una leadership che vede il proprio modello “confuciano, mercantilista, autoritario” come “la strada del futuro” e che quindi non è un Paese che può essere considerato un partner strategico degli USA da trattare con l’appeasement e l’engagement, ma lo “strategic competitor”, l’avversario da combattere di cui l’America sembra avere sempre bisogno.

Molte di queste posizioni – a cominciare dalla visione della Cina come “avversario strategico” – sono ormai condivise dai democratici e dall’establishment che gestisce la politica estera americana nell’amministrazione Biden. Le maggiori differenze riguardano l’enfasi retorica. Biden parla di multilateralismo in relazione alla coalizione occidentale delle “democrazie”, ma nei fatti si tratta di un multilateralismo strettamente sotto il dominio americano e gestito attraverso la NATO. L’Unione Europea è stata e si è sacrificata sul piano politico ed economico sull’altare dell’obiettivo di indebolire la Russia (che prima della guerra in Ucraina era il suo principale fornitore di combustibili fossili – gas e petrolio – e altre materie prime a basso costo, ora in parte sostituiti dal gas liquefatto statunitense comprato a prezzi ben più alti), cercando anche di spingerla contro la Cina (il principale partner economico del blocco). Biden usa la retorica dei diritti umani, ma in modo molto selettivo per quanto riguarda i paesi target, mentre continua ad adottare la politica di Trump dei respingimenti in materia di immigrazione e di accoglienza dei richiedenti asilo.

Alessandro Scassellati

  1. L’approccio militaristico unilateralista adottato dalla presidenza di George W. Bush (“o sei con noi o sei con i terroristi“) in occasione dell’invasione dell’Iraq nel 2003, allorquando Donald Rumsfeld e i neoconservatori disprezzarono apertamente la “vecchia Europa” (contrapponendola ad una “nuova Europa” sottomessa ai loro voleri che comprendeva Regno Unito, Spagna, Italia e buona parte dei Paesi dell’Europa orientale) che, con la dissociazione franco-tedesca (Chirac-Schröder) dalla formula della coalition of the willing (la coalizione dei volenterosi) a guida rigorosamente americana, contribuì alla mancanza di legittimazione internazionale della guerra.[]
  2. L’intervento dell’Italia non è stato esente da episodi di violenza, come si è visto nell’attentato suicida che nel novembre 2003 a Nassiriya costò la vita a 19 soldati italiani, quasi la metà delle vittime subite durante l’intera missione (33). Indipendentemente da ciò, ci sarebbero voluti altri tre anni prima che l’esercito italiano iniziasse il processo di ritiro. L’Italia sarebbe stata successivamente coinvolta militarmente nel Paese come parte dello sforzo globale per sconfiggere l’autoproclamato Stato islamico (IS) nel 2014. Ciò è consistito nel supporto aereo e terrestre insieme all’addestramento delle forze di sicurezza irachene e curde in anti-terrorismo e operazioni di controllo delle frontiere. In questo contesto, l’esempio più notevole del contributo dell’Italia alla campagna anti-IS è stata la partecipazione italiana alla liberazione di Mosul nel 2017-18. Oggi l’Italia è coinvolta attivamente in tutte le operazioni multinazionali in corso nel Paese, in primis la NATO Mission Iraq – NMI e la Global Coalition against Daesh. In questo quadro di partecipazione militare, Roma fornisce il secondo più grande contingente di truppe alleate dopo gli Stati Uniti – con oltre 1.260 unità schierate in Iraq e Kuwait – e guida le operazioni del NMI. Nel corso degli anni, le forze italiane hanno addestrato decine di migliaia di forze di sicurezza irachene e curde, sostenuto la stabilizzazione delle aree liberate e assicurato la protezione dei siti archeologici iracheni.[]
  3. In realtà, la guerra era iniziata nel 1991 con l’espulsione delle forze militari irachene dal Kuwait. Le forze armate statunitensi non tentarono di deporre Saddam Hussein, ma i funzionari statunitensi speravano che Saddam cadesse e incoraggiarono le rivolte popolari della maggioranza sciita del paese nel sud e della sua minoranza curda nel nord. Quando Saddam resistette reprimendo queste rivolte e uccidendo migliaia di iracheni, gli Stati Uniti non se ne andarono. Per il resto del decennio, hanno contenuto l’Iraq attraverso no-fly zone, bombardamenti di routine, ispezioni sulle armi, lo stazionamento a tempo indeterminato di circa 50 mila militari nel Golfo Persico (presenti ancora oggi), inclusa l’Arabia Saudita, per la prima volta nella storia, e sanzioni economiche. L’embargo imposto dalle Nazioni Unite e sostenuto dagli Stati Uniti ha indebolito le infrastrutture dell’Iraq, in particolare per quanto riguarda il sistema sanitario e la formazione scolastica. Durante gli anni ’90, l’Iraq poteva produrre petrolio a sufficienza solo per nutrire la propria popolazione. Non poteva nemmeno vendere il proprio petrolio all’estero: doveva passare attraverso un organismo internazionale istituito dalle Nazioni Unite – il programma Oil-for-Food – che controllava il regime delle sanzioni. L’industria petrolifera irachena, che rappresentava l’85% delle entrate statali, era stata nazionalizzata nel 1972. Nel corso degli anni ’90, quindi, l’Iraq è passato dall’essere una società relativamente altamente istruita, altamente alfabetizzata, politicamente impegnata ed economicamente in rapido sviluppo, con infrastrutture generalmente abbastanza buone, ad essere uno degli esempi più notevoli di de-sviluppo.[]
  4. L’invasione è stata lanciata sulla base di “prove” sulle “armi di distruzione di massa” che consistevano principalmente in qualunque cosa gli informatori iracheni sapessero che le agenzie di intelligence anglo-americane volevano sentire di più e per cui avrebbero volentieri pagato. Il più grande contributore a questo dossier che si autoavvera è stato un disertore fissato con l’alcol chiamato Curveball, che in seguito ha ammesso che le sue improvvisazioni sulle armi chimiche non erano vere.[]
  5. I funzionari di Bush sono stati onnipresenti in TV a sostenere le ragioni per la guerra con una campagna di disinformazione, a volte citando le stesse informazioni dubbie che avevano fornito anonimamente alla stampa mainstream come conferma indipendente delle affermazioni che stavano facendo. Il dissenso interno è stato spietatamente ignorato e soppresso, come quando l’ufficiale sotto copertura della CIA Valerie Plame è stata esposta pubblicamente da Scooter Libby e altri alti funzionari della Casa Bianca per aver contestato le loro bugie. Lo stesso Powell ha attinto alla notevole stima in cui lo tenevano i liberali statunitensi e il pubblico straniero per presentare un caso cruciale a favore della guerra alle Nazioni Unite che in privato ha deriso come “stronzata“. La Casa Bianca di Bush ebbe un tale successo che due anni dopo l’11 settembre, i sondaggi mostrarono che il 72% degli americani credeva che Saddam fosse coinvolto negli attacchi a New York e Washington. Nel 2018, nonostante l’incapacità dell’amministrazione di trovare prove della connessione negli anni precedenti, i sondaggi hanno rivelato che il 43% degli americani ci credeva ancora.[]
  6. La guerra non venne autorizzata dalle Nazioni Unite. Il rapporto dell’inchiesta Chilcot sul coinvolgimento del Regno Unito nella guerra (luglio 2016) scoprì in seguito che il Regno Unito aveva scelto di unirsi all’invasione prima che le opzioni pacifiche fossero state esaurite, e poi il primo ministro Tony Blair aveva deliberatamente esagerato la minaccia rappresentata da Saddam Hussein. Le agenzie di intelligence britanniche hanno prodotto “informazioni imperfette, lavorando fin dall’inizio sull’errato presupposto che Saddam avesse “armi di distruzione di massa”, e non hanno fatto alcun tentativo di considerare la possibilità che se ne fosse sbarazzato, cosa che aveva fatto. Gli aggressori hanno fatto di tutto per eliminare alternative pacifiche. Saddam Hussein ha cercato disperatamente di negoziare, offrendo alla fine tutto ciò che i governi degli Stati Uniti e del Regno Unito hanno dichiarato di volere, ma gli hanno chiuso la porta in faccia e poi hanno mentito al riguardo. Quando le Nazioni Unite hanno cercato soluzioni diplomatiche, i funzionari statunitensi sono entrati in quella che hanno chiamato “modalità di contrasto“, sabotando i negoziati. Quando il capo dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, José Bustani, si offrì di risolvere l’impasse sulle ispezioni sulle armi in Iraq, il governo degli Stati Uniti lo estromise illegalmente. Il primo governo a sostenere il suo licenziamento è stato quello del Regno Unito. Blair ha ignorato gli avvertimenti secondo cui l’Iraq potesse degenerare in una guerra civile dopo l’invasione, anche dal Segretario di Stato americano, Colin Powell, che ha predetto accuratamente “un terribile spargimento di sangue per vendetta dopo la morte di Saddam“. Il governo britannico non aveva alcuna strategia post-invasione e nessuna influenza sull’amministrazione irachena del dopoguerra gestita dagli Stati Uniti. Nel complesso, la Gran Bretagna non ha raggiunto i suoi obiettivi in Iraq, ha rilevato l’inchiesta Chilcot (alla quale fu proibito di pronunciarsi sulla legalità della guerra). La guerra ha minato l’autorità statunitense e britannica sulla scena internazionale, con il danno reputazionale che continua fino ad oggi, allorquando ha ostacolato gli sforzi per raccogliere sostegno per la lotta dell’Ucraina contro l’invasione russa.[]
  7. Secondo il New England Journal of Medicine, ci sono stati 650.000 morti iracheni. Anche la lotta degli Stati Uniti contro l’IS dal 2013 ha portato alla morte di 40.000 iracheni. Sono cifre documentate. Inoltre, ci sono stati 5 milioni di rifugiati iracheni. Alcuni sono fuggiti in Siria e Giordania sulla scia della guerra civile settaria, ma un gran numero è sfollato internamente, spostandosi da aree che avevano visto un alto livello di violenza verso distretti più pacifici. Sappiamo anche che l’occupazione di gran parte dell’Iraq da parte dell’IS e la successiva guerra contro l’IS hanno anche creato oltre 1 milione di rifugiati interni. Attualmente in Iraq ci sono due milioni di famiglie guidate da donne e innumerevoli orfani. Ciò ha messo a dura prova la capacità degli iracheni di ricostruire la propria vita sociale.[]
  8. È bene ricordare che al culmine della furia dell’IS nei territori di Iraq e Siria, diversi milioni di siriani hanno lasciato la Turchia in barca per la Grecia, o via terra per la Bulgaria, con Ankara che ha fatto ben poco per fermarli, poiché la migrazione è diventata un’arma per la  contrattazione politica ed economica (con 6 miliardi di euro che sono stati dati dai paesi dell’UE alla Turchia dopo la crisi migratoria del 2015). Enormi colonne di profughi si diressero verso l’Europa centrale, dove il sostegno alla loro situazione da parte del cancelliere tedesco, Angela Merkel, respinse l’ala destra del paese e alimentò il nazionalismo etnico razzista reazionario in tutto il continente. Gli attacchi terroristici guidati dall’IS nel 2015-16 in Francia, Belgio e Germania hanno ulteriormente alimentato la rinascita del populismo, dell’etnonazionalismo e del razzismo. Il controllo dell’immigrazione è stato un tema centrale per i Brexiteers, come lo è stato in Polonia, Francia e Italia. Donald Trump si è candidato alla presidenza su una piattaforma anti-immigrazione, vietando persino ai musulmani di alcuni paesi di entrare negli Stati Uniti nelle prime fasi della sua amministrazione. Ha mostrato scarso interesse nell’affrontare le conseguenze del conflitto in Iraq, insistendo sul fatto che il ritiro degli Stati Uniti nel 2011 aveva tirato una riga al coinvolgimento di Washington. Con il mondo e il discorso politico che in Europa hanno subito le sfide del nazionalismo interno e Trump determinato a distruggere l’eredità dei suoi predecessori, l’Iraq è diventato presto un pantano in cui gli Stati Uniti e i suoi alleati non sono più rimasti coinvolti, delegando ai curdi siriani e iracheni il compito di combattere l’IS sul terreno (salvo poi tradirli nel momento in cui avevano sconfitto l’IS a Raqqa nel 2017 e a Mosul nel 2018).[]
  9. L’industria bellica dei paesi occidentali costituisce una sorta di global military-industrial complex, cioè una formidabile concentrazione di interessi capace di esercitare una influenza determinante sulla politica internazionale, come evoluzione di quell’oligopolio privato nazionale intrecciato all’establishment militare governativo sorto negli USA nel corso della Seconda Guerra Mondiale, consolidatosi con la guerra di Corea (fino ad allora gli USA non avevano avuto truppe permanentemente di stanza nei Paesi alleati) e successivamente criticato dal sociologo Charles Wright Mills negli anni ’50 e dal presidente Dwight D. Eisenhower (nel farewell address del 17 gennaio 1961): “Dobbiamo stare in guardia contro l’acquisizione di un’ingiustificata influenza, sia cercata sia non cercata, da parte del complesso industriale militare [military-industrial complex]. Il potenziale per il disastroso aumento di un potere errato esiste e persisterà“. Purtroppo gli eventi dei decenni successivi hanno dimostrato che questa formidabile concentrazione di interessi è stata in grado di dare vita ad una forma di “capitalismo politico” che prospera grazie ad una militarizzazione permanente, condizionando fortemente la politica estera e interna americana e occidentale. Per salvaguardare “l’interesse nazionale” e prevenire la perdita di una superiorità tecnologica ritenuta il cardine del rapporto tra difesa, tecnologia e organizzazione, il Pentagono è sempre intervenuto pesantemente sui processi economici, orientando con miliardi di dollari di appalti la capacità innovativa e produttiva di una parte rilevante delle grandi corporations. Gran parte del cambiamento tecnologico è avvenuto e continua ad avvenire nell’orbita militare. L’informatica, l’aeronautica e l’attività spaziale sono gli epicentri di questa sperimentazione. Lo sviluppo del capitalismo digitale nell’ultimo decennio è una continuazione della precedente produzione militare ed è congruente con l’uso delle armi all’interno del Paese. I grandi fornitori del Pentagono approfittano della protezione del bilancio statale per produrre dispositivi venti volte più costosi dei loro equivalenti civili. Operano con grosse somme in un settore autonomo dalle restrizioni concorrenziali del mercato. Il compito della politica estera USA è diventato quello di usare cronicamente il potere militare (il cosiddetto hard power) come “garante dell’ordine mondiale” e combattere ogni tipo di guerra (arrivando a teorizzare la “guerra infinita”, una sorta di orwelliana “guerra permanente”), senza essere in grado di vincerle o di mettervi fine in modo onorevole. Ciò è in gran parte dovuto al fatto che il Pentagono ha finora impiegato il suo ampio budget nell’acquisto di armi ad alta tecnologia sempre più complesse e costose (sulle quali gli appaltatori industriali hanno grandi margini di profitto), progettate per combattere guerre contro Unione Sovietica/Russia e Cina, piuttosto che in armi più economiche e più semplici, e nell’addestramento delle truppe nelle tattiche necessarie per le guerre anti-insurrezione e anti-guerriglia che di fatto gli Stati Uniti hanno combattuto (in Vietnam, Afghanistan e nel Medio Oriente). Ad esempio, dopo le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq, con grave ritardo le forze militari sul terreno sono state dotate di veicoli corazzati e di giubbotti antiproiettile. Il Dipartimento della Difesa americano è il più grande datore di lavoro del mondo, impiegando 3,2 milioni di persone, di cui 1,3 milioni di militari, donne e uomini in servizio attivo, 742 mila civili, 826 mila nella Guardia Nazionale e nelle forze di riserva. Ha centinaia di migliaia di edifici e strutture sparse in oltre 5 mila siti, beni stimati in oltre 2.400 miliardi di dollari e gestisce un budget che per il 2023 è di circa 858 miliardi di dollari.[]
  10. Successivamente, il 13 dicembre Saddam Hussein fu catturato dagli occupanti e dopo un sommario processo venne condannato a morte tre anni dopo. In questo modo è stato tolto agli iracheni il diritto di conoscere tutta la verità. Durante il processo si è parlato solo dei crimini contro i leader dei partiti islamisti sciiti, mentre sono stati messi a tacere tutti gli altri crimini (le responsabilità di Saddam contro i militanti di sinistra o contro i curdi). Non si è fatta alcuna chiarezza su quale ruolo ha avuto nel sostegno al regime la comunità internazionale e nel fatto che Saddam utilizzò le armi chimiche. Inoltre, si è rischiato di trasformare Saddam in un simbolo, in una vittima.[]
  11. La CNN e altre reti trasmisero filmati ogni quattro o sette minuti di una folla di iracheni che esultavano mentre abbattevano una statua di Hussein. La realtà era che la piazza era quasi vuota, che la piccola folla era composta in gran parte da giornalisti e marines statunitensi, e che l’iracheno che aveva martellato la statua in seguito se ne pentì, essendo diventato un rifugiato nel caos post-invasione.[]
  12. In sostanza, vennero licenziati 400 mila soldati, assieme ai 60 mila delle Guardie repubblicane, oltre ai 40 mila paramilitari dei Feddayn e ai 650 mila riservisti. Lasciati senza lavoro né stipendio.[]
  13. Le forze statunitensi hanno commesso innumerevoli crimini di guerra, non ultima la tortura dei soldati catturati. Nel centro di detenzione di Abu Ghraib vicino a Baghdad, ufficiali statunitensi hanno umiliato i prigionieri iracheni in violazione delle convenzioni di Ginevra. L’invasione ha provocato una resistenza diffusa, ma le tattiche di contro insurrezione degli Stati Uniti hanno comportato incursioni nei villaggi che hanno portato a massacri di migliaia di civili disarmati.[]
  14. In questo sistema di spartizione, il presidente della repubblica deve essere curdo, il primo ministro sciita e il presidente del parlamento sunnita. È molto simile nella sua costruzione al sistema politico-istituzionale libanese molto più antico. Tuttavia, questo era totalmente nuovo per l’Iraq – non c’era storia di esso – mentre il sistema libanese aveva precedenti nel XIX secolo e fu reintrodotto sotto il mandato coloniale francese durante il periodo tra le due guerre. Nella sua più rozza iterazione, questo sistema ha fornito l’impalcatura di un patto politico ed economico tra la classe politica irachena post-invasione per spartirsi i ministeri e le istituzioni dello Stato e privatizzarne le risorse secondo quote etno-settarie. I principali beneficiari sono stati i blocchi sciiti, che rimangono al potere fino ad oggi, con i partiti sunniti come partner minori. I partiti curdi hanno il controllo nelle aree governate dal governo regionale curdo (nella regione del Kurdistan iracheno settentrionale), e sono emanazione delle due famiglie politiche dominanti, i Barzani e i Talabani, che hanno arricchito le loro cerchie a spese delle persone comuni che cercano di emigrare altrove (spesso verso l’Europa) per avere un futuro. Mentre queste élite possono avere un rapporto litigioso l’una con l’altra nella loro continua contrattazione per una quota maggiore della torta, esse costituiscono una nuova classe politica con interessi economici e uno stile di governo comune. Costruiscono potere offrendo patrocinio ai sostenitori che diventano loro clienti (sono 4,5 milioni le persone impiegate nel settore pubblico, mentre altri 2,5 milioni sono sul libro paga della pensione e il settore imprenditoriale privato fuori dall’economia informale è quasi inesistente). Assegnano persone a posizioni nei vari ministeri sotto il loro controllo. Questo è il loro modo principale per ottenere supporto. Il finanziamento di questo clientelismo proviene da risorse statali. Invece di essere investite nell’economia, queste risorse vengono utilizzate per acquistare clienti politici. Nel 2011, quando le forze statunitensi se ne andarono, la maggior parte delle istituzioni statali erano diventate arene di competizione tra questi partiti politici altamente militarizzati. La corruzione è integrata nel sistema a scapito della ricostruzione del paese e dello sviluppo della sua economia che andrebbe a beneficio dei cittadini iracheni. Lo Stato fornisce contemporaneamente tutto e niente. Ogni anno mette sul libro paga pubblico migliaia di persone in lavori improduttivi a vita e spende miliardi di dollari per sovvenzionare carburante, rete elettrica e generi alimentari di base. Fornisce sussidi alle vittime di violenze che risalgono alla guerra degli anni ’80 con l’Iran. La spesa mensile per stipendi, pensioni e assistenza sociale dei dipendenti pubblici è di circa 7,3 trilioni di dinari (circa 5 miliardi di dollari). Questo divora almeno la metà di ciò che l’Iraq guadagna ogni mese con le vendite di greggio, l’unica forma sostanziale di reddito dello Stato, lasciando poco per investimenti e aggiornamenti dei servizi pubblici. Di conseguenza, le infrastrutture si stanno sgretolando. La rete elettrica sovvenzionata è così decrepita che in molti luoghi fornisce solo 12 ore di elettricità al giorno. I proprietari di case e le aziende ricorrono ai generatori per colmare il deficit. Nell’OPEC, il cartello dei Paesi produttori di petrolio fondato nel 1960 da Iran, Venezuela, Iraq, Kuwait e Saudi Arabia per contrastare il potere delle “sette sorelle”, le compagnie petrolifere statunitensi e britanniche, e da allora guidato dall’Arabia Saudita, l’Iraq è il secondo produttore di greggio dopo l’Arabia Saudita, ma gran parte del carburante sovvenzionato viene importato perché le autorità non hanno costruito abbastanza raffinerie per lavorare il greggio nazionale.[]
  15. La privatizzazione delle risorse energetiche irachene si è rivelata molto redditizia per le compagnie petrolifere internazionali, in particolare per i subappaltatori di costruzioni, sicurezza e trasporto di petrolio. Questi subappaltatori hanno incluso anche uomini d’affari e personaggi politici iracheni che erano in partnership con le compagnie petrolifere, specialmente nelle spedizioni e nella commercializzazione.[]
  16. Un atto di terrorismo culturale è stato il saccheggio del Museo nazionale iracheno, dove almeno 15.000 antichi manufatti, che coprono 7.000 anni di civiltà, sono scomparsi a seguito dell’invasione. Cfr. Robert M. Poole, “Looting Iraq”, Smithsonian Magazine, February 2008.[]
  17. Al Qaeda (“la base”), l’IS/Daesh (lo Stato islamico sunnita nato in 90 giorni a cavallo fra Siria e Iraq il 29 giugno 2014, dove vivevano 8 milioni di persone ed esteso come il Regno Unito), al-Nusra e altri movimenti del jihad (“sforzo”) sunnita sono stati prodotti dalle contraddizioni e dagli errori delle politiche che gli americani e i loro alleati occidentali e arabi hanno adottato in Medio Oriente e, più in generale, nei confronti di una gran parte del mondo musulmano negli ultimi tre decenni. Contraddizioni ed errori politici che hanno determinato sia la distruzione di regimi autoritari, ma laici e nemici del jihadismo, in Iraq, Libia e Siria, sia un rafforzamento politico-territoriale della componente sciita rispetto a quella sunnita e dell’influenza geopolitica della Repubblica Islamica dell’Iran – che si è estesa da Herat in Afghanistan al Libano meridionale (la cosiddetta “mezzaluna sciita”), dalle montagne dell’Hindu Kush alle coste del Mediterraneo – rispetto a quella di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (insieme ai loro più stretti alleati: Bahrain, Kuwait, Giordania ed Egitto). Ma, anche un rafforzamento dell’influenza sul mondo arabo sunnita di Qatar e di Turchia, quest’ultima vista fino ad un paio di anni fa da Arabia Saudita e EAU con sospetto per le sue aspirazioni a far rivivere la gloria dell’Impero Ottomano e per il sostegno da parte del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan (e il suo alleato Qatar) ai gruppi di opposizione dell’Islam politico – in particolare alla Fratellanza Musulmana – che hanno sfidato dittatori militari e monarchie prima, durante e dopo la “Primavera Araba” del 2010-2011.[]
  18. È bene ricordare cha alla fine degli anni ’70, c’è stato il secondo shock petrolifero – con il raddoppio del prezzo del barile – a seguito della rivoluzione iraniana guidata dall’ayatollah Ruḥollāh Khomeini nel 1978-79 contro la monarchia dello Shah Mohammad Reza Palhavi e contro il “Grande Satana” americano (esemplificata dalla crisi dei 52 ostaggi sequestrati all’ambasciata USA per 444 per giorni, costata la rielezione al presidente Jimmy Carter) e della disastrosa guerra tra Iran e Iraq. Lo shock petrolifero ha contribuito a far arrivare l’inflazione al 14,8%, il tasso d’interesse fissato dalla FED al 19% e il prime rate al 20,5% negli USA nel maggio 1981.[]
  19. Durante la guerra contro Daesh c’è stato una sorta di accordo tra Stati Uniti e Iran per rifornire di armi alcuni gruppi di milizie. Ognuno armava la sua parte e lottavano quasi insieme. Il generale iraniano Qasem Soleimani, ucciso in un attentato dagli Usa il 3 gennaio 2020, entrava e usciva dall’Iraq durante la guerra contro Daesh, con una certa connivenza da parte dell’esercito degli Stati Uniti o della coalizione. Il conflitto tra Iran e USA non riguarda l’Iraq, ma l’Iraq è “la tavola da gioco” su cui questo conflitto viene praticato.[]
  20. L’Iraq è al 157esimo posto su 180 paesi nell’ultimo indice di corruzione di Transparency International, e sono frequenti le segnalazioni di funzionari di tutti i ranghi che accettano tangenti su contratti governativi. L’anno scorso, le autorità hanno riconosciuto che burocrati di alto livello avevano rubato 2,5 miliardi di dollari dalle banche statali. Il denaro non è stato ancora completamente recuperato.[]
  21. La popolazione sta crescendo rapidamente, del 2,5% all’anno, simile a molti paesi dell’Africa subsahariana e molto al di sopra della media dell’1,3% del  Medio Oriente e Nord Africa. Il grande peso della popolazione giovanile  significa che molti iracheni non hanno una conoscenza diretta di com’era vivere sotto Saddam Hussein. Sentono della sua brutalità dalla famiglia e dagli amici più anziani, ma non sono nemmeno soddisfatti dei loro attuali leader.[]
  22. Il numero di bambini che muoiono sotto i cinque anni si è quasi dimezzato, passando da 45 su 1.000 nati vivi nel 2000 a 25 nel 2020. La provincia più povera del paese è Muthanna, a quattro ore di auto a sud di Baghdad. La maggior parte delle aree ha tassi di povertà superiori al 40%, dove la povertà è definita come il dover vivere con meno di 105.000 dinari (circa 70 dollari) al mese, secondo uno studio della Banca Mondiale.[]
  23. Secondo l’Economist Intelligence Unit, circa il 58% della popolazione mondiale (esclusi i due diretti belligeranti) vive in paesi che sono neutrali nei confronti della guerra o propendono per la Russia. Nell’ultimo anno, il sostegno alla posizione dell’Occidente si è ridotto anziché aumentare: una manciata di paesi inizialmente critici nei confronti della Russia si è spostata verso la neutralità. Proprio il mese scorso, 39 paesi non hanno sostenuto una risoluzione delle Nazioni Unite che chiedeva alla Russia di ritirare le sue forze dall’Ucraina. Quelli che hanno assunto una posizione neutrale, tra cui Cina e India, rappresentavano circa il 62% della popolazione del Sud globale. La Russia non è diventata il paria internazionale che i leader occidentali affermano di essere. La sua economia ha per lo più resistito alle sanzioni internazionali, in parte perché gli unici paesi disposti a imporle sono i ricchi partner strategici degli Stati Uniti. A questo proposito si veda il nostro articolo.[]
  24. Biden, ora presidente degli Stati Uniti, si è recentemente recato a Varsavia per raccogliere il sostegno internazionale alla lotta dell’Ucraina per respingere l’aggressione russa. Dopo aver pronunciato il suo discorso, Biden ha dichiarato: “L’idea che oltre 100.000 forze potessero invadere un altro paese – dalla seconda guerra mondiale, non è successo niente del genere“. Peccato che in Iraq gli USA inviarono 130.000 soldati per invadere il paese. Smemoratezza, ignoranza o ipocrisia?[]
  25. E’ bene ricordare che nel 1917, ai tempi della dichiarazione Balfour con cui il governo inglese aveva promesso una patria agli ebrei in Palestina (senza mai nominare i palestinesi), qui c’erano 50 mila ebrei e mezzo milione di arabi, mentre nel 1945 – tre anni prima della nascita dello Stato d’Israele – gli arabi erano saliti a 1 milione e 240 mila, mentre gli ebrei erano 553 mila, per poi diventare 806 mila il 14 maggio 1948, quando David Ben Gurion fece la dichiarazione d’indipendenza, il giorno in cui i palestinesi commemorano la loro Nakba, “catastrofe”: l’espulsione di 845 mila palestinesi, i cui discendenti (circa 7 milioni) aspettano ancora l’applicazione della risoluzione 194, votata l’11 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale dell’ONU, che sancisce il loro “diritto al ritorno”. Dal 1948 i politici israeliani hanno promosso l’agenda sionista, invitando tutti gli ebrei della diaspora a non cullarsi in un falso senso di sicurezza e a trasferirsi in Israele, considerato come l’unico posto in cui possono essere veramente sicuri e realizzati.[]
  26. Nell’estate del 2014 i combattenti dell’ISIS avevano sbaragliato le truppe dell’esercito iracheno e controllavano 88 mila chilometri quadrati tra la Siria e l’Iraq, gestendo giacimenti di petrolio, vendendo petrolio grezzo e riscuotendo le imposte dai circa 8 milioni di cittadini. Il loro leader, Abu Bakr al-Baghdadi, il 5 luglio 2014 si era autoproclamato califfo dal pulpito del Grande Moschea di al-Nuri a Mosul, in Iraq, diventando il campione dei diseredati sunniti, disposti a recuperare glorie perdute e ripristinare precetti islamici. Sono stati i peshmerga (“coloro che fronteggiano la morte”, le forze armate del governo autonomo curdo) ad arginarli con l’appoggio degli USA e i loro alleati (la coalizione internazionale anti-ISIS aveva condotto oltre 13 mila bombardamenti in Iraq al 9 agosto 2017, con una spesa di oltre 14,3 miliardi di dollari dall’8 agosto 2014). Dall’agosto 2014 i peshmerga hanno partecipato alla coalizione internazionale che combatteva contro l’ISIS. La sfida per l’indipendenza dei curdi iracheni voluta dal presidente Massoud Barzani (al potere dal 2005, ma con mandato scaduto nel 2015), che voleva consolidare la sua posizione in vista di un prossimo voto politico, ha aperto un fronte di destabilizzazione della regione mediorientale, provocando tensioni non solo in Iraq (con il governo che ha considerato incostituzionale il referendum e gli sciiti che minacciavano di abbandonare il federalismo in favore di un governo espressione della loro maggioranza), ma anche in Turchia, Siria e Iran che vedono una possibile indipendenza dei curdi iracheni come un pericolo per la loro sicurezza nazionale.[]
  27. In Medio Oriente, lo “scontro di civiltà” ha portato alla quasi totale scomparsa degli antichi cristiani di Oriente che per secoli erano (seppure con difficoltà) convissuti con il mondo islamico. Un secolo fa i cristiani rappresentavano il 20% della popolazione del Medio Oriente e del Nord Africa, ma ora la proporzione è scesa a meno del 4%, ovvero circa 15 milioni di persone. Dall’inizio del secolo, milioni di cristiani nella regione sono stati sradicati dalle loro case e molti sono stati uccisi, rapiti, incarcerati e discriminati. In tanti sono scappati ed emigrati altrove nel mondo per sfuggire alle guerre e alla problematica convivenza con il mondo islamico. Resistono in Libano (1,3 milioni) e in Egitto, dove sono ancora tanti (oltre 10 milioni, per lo più copti). Negli altri Paesi i cristiani sono rimasti in pochi: 170 mila in Israele (ma la popolazione di cristiani palestinesi è scesa dal 15% al 2%), mezzo milione in Siria (erano 2 milioni nel 2011), 125 mila in Turchia, 250 mila in Iraq (erano 1,4 milioni prima dell’invasione USA) dove quelli che vivevano intorno a Mosul sono stati vittime di un tentato genocidio per mano dello Stato Islamico.[]
  28. Il dibattito pubblico nel mondo occidentale sull’Islam non si è limitato agli elementi religiosi (spesso anzi quasi del tutto ignorati), ma ha investito – in una logica di feroce contrapposizione totalizzante e distopica – questioni culturali, socio-politiche e di genere, arrivando a sostenere che l’Islam e i musulmani rappresentano la principale minaccia all’identità, alla coesione e alla sicurezza delle società occidentali. L’Islam è stato ridotto a jihadismo e quindi rappresentato come un’ideologia fanatica e totalitaria e come tale, l’antitesi di una democrazia liberale e secolarizzata (questa è anche la tesi dei governanti wahhabiti dell’Arabia Saudita); come una minaccia demografica che potrebbe portare i musulmani ad assumere il controllo della politica e della società; come una religione e una cultura in uno stadio evolutivo inferiore rispetto alle società occidentali, cristiane e moderne; come un portatore di opinioni autoritarie e illiberali, ad esempio in relazione all’uguaglianza di genere (con temi controversi come la poligamia, l’omosessualità, il ripudio, l’infibulazione, la velatura – con lo hijab e il burqa – delle donne) e alla libertà di espressione. L’«orientalismo» occidentale ha costruito una molteplicità di rappresentazioni distorte del mondo arabo-islamico che avevano l’obiettivo di indagare le «radici della rabbia musulmana» all’interno di un quadro ideologico che rispecchiava un razzismo eurocentrico e antimusulmano fondato su differenze culturali che giustificavano una risposta politico-militare. Secondo i sostenitori della tesi dello «scontro delle civiltà», proposta da Huntington, qualsiasi tentativo di riconciliare l’occidente con il mondo musulmano è destinato al fallimento. La tesi dello scontro delle civiltà è stata utilizzata come propaganda per giustificare le guerre di Bush e dei neoconservatori, le guerre dell’Occidente «civilizzato» contro i «barbari» del mondo musulmano. I paesi musulmani non adotteranno mai i valori occidentali (democrazia, Stato di diritto e diritti dell’uomo), e i paesi occidentali non riusciranno mai ad integrare le minoranze musulmane. Proprio come l’antisemitismo viene alimentato da una visione cospiratoria e distorta di un mondo in cui gli ebrei sono visti come gli agenti di potenti interessi che cospirano contro i deboli, il pregiudizio anti-musulmano viene alimentato da un’ossessione per l’immigrazione andata in tilt e vengono visti come «orde», «invasori» che «si riproducono come conigli», sovvertono le culture nazionali con la loro strisciante sharia e rappresentano una minaccia per le tradizioni «occidentali» «giudaico-cristiane» di tolleranza, libertà, democrazia e stato sociale. Sul concetto di «Orientalismo» come costruzione di rappresentazioni e narrative dell’«altro» orientale da contrapporre a quella di «Occidente», si veda il capolavoro di E. W. Said, Orientalism, Pantheon Books, New York, NY, 1978; nonché Culture and imperialism, Vintage Books, New York, NY, 1994. Molti scrittori del mondo arabo hanno affrontato rappresentazioni stereotipate e incontri ineguali nel loro lavoro. Il libro Season of migration to the north (1966) dello scrittore sudanese Tayeb Salih cattura l’essenza della condizione dell’ex colonizzato sospeso tra mondi e prospettive differenti. Il romanziere saudita Abdulrahman Munif ha coniato un termine speciale: al-teeh (perdita, confusione). Il suo capolavoro composto da cinque storie, Cities of Salt (Mudun al-Milh, pubblicato nel 1984), è uno dei migliori esempi di studi letterari postcoloniali. Racconta una storia di devastazione politica, economica, ambientale e culturale quando i neo colonizzatori (capitalismo americano e petrodollari) e i neo colonizzati (il Golfo) si incontrano. In epoca coloniale, gli arabi hanno promosso la resistenza anticoloniale, tra le altre cose, indossando abiti locali e impegnandosi nel preservare la loro cultura tradizionale. Oggi indossano la «thobe» araba (tunica lunga fino alle caviglie) realizzata con un tessuto proveniente dal Giappone e ciò riflette la commistione tra globale e locale in cui vive oggi il mondo arabo. Lo scrittore senegalese Mohamed Mbougar Sarr, vincitore del premio Gouncourt in Francia nel 2021, ha dichiarato di «cercare l’armonia tra tante identità» e ha scritto il romanzo La più recondita memoria degli uomini, Edizioni e/o, Roma, 2022, che indaga sul senso della vita e della scrittura come strumento per capire la complessità del mondo.[]
  29. Sin dalla fine degli anni ’40, quando Arthur Vandenberg, un repubblicano del Michigan che trascorse 22 anni alla Commissione per le relazioni estere del Senato, ruppe i ranghi con l’isolazionismo del suo partito e divenne un potente sostenitore della Dottrina Truman, della NATO e del “Piano Marshall”, c’è stata un’ala internazionalista (e free-trader) repubblicana che credeva in una statualità bipartisan in politica estera. La Guerra Fredda – combattuta su diversi fronti in molti modi, non tanto attraverso il rollback (la riconquista di posizioni entro la zona di influenza sovietica) e l’appeasement (la pacificazione), quanto soprattutto il containment (il bloccare o aumentare i costi dei tentativi dei sovietici di acquisire maggiore influenza) e il détente (una difficile ed incerta tregua) – aveva costretto il Congresso a fare affidamento su esperti regionali che comprendevano il valore delle alleanze e delle culture straniere, così come su esperti di controllo delle armi fluenti nel linguaggio della teoria della deterrenza. Persino Ronald Reagan, per quanto la sua retorica neoconservatrice fosse aggressiva, era consapevole dei pericoli che la guerra nucleare presentava e, nel 1987 aveva negoziato il Trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty), che ha condotto gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica ad eliminare migliaia di missili nucleari soprattutto in Europa dove erano stati localizzati tra il 1977 e il 1983. Per arrivare all’accordo e per raccogliere sostegno al Senato, si rivolse a diplomatici professionali e a figure come Paul Nitze, ex segretario della Marina e consulente informale di diversi presidenti. Forse l’ultima di queste figure sofisticate di diplomatico è stato Richard Holbrooke che per conto dell’amministrazione Clinton negoziò l’accordo di Dayton che nel 1995 pose fine alla guerra in Bosnia. Think-tanks come RAND Corporation e Brookings Institution erano a disposizione dei legislatori sia repubblicani sia democratici e i loro esperti hanno seminato una visione del mondo internazionalista nelle menti dei politici repubblicani per decenni. Senatori repubblicani, seppure fortemente nazionalisti, come Richard Lugar, Chuck Hagel (che è stato anche segretario alla Difesa nell’amministrazione Obama tra il 2013 e il 2014) e John McCain erano gli eredi di questa filosofia, come lo sono stati Edward Royce e Robert Corker. Lugar, ad esempio, era un esponente di spicco del bipartisanship e del compromesso, che lo rendeva un bersaglio dei guerrieri partigiani die-hard. Ha osato guidare il Senato nel prevalere sul veto del presidente Reagan di un disegno di legge che imponeva sanzioni economiche al regime dell’apartheid del Sud Africa. Lui e il senatore democratico Sam Nunn della Georgia portarono il Congresso a passare il Cooperative Threat Reduction Program, meglio noto come programma Nunn-Lugar, che ha assicurato lo smantellamento delle armi di distruzione di massa nelle ex repubbliche sovietiche. Il programma ha disattivato migliaia di testate nucleari dirette verso gli Stati Uniti e distrutto grandi quantità di armi chimiche e di altro tipo. Non a caso, Lugar era stato estromesso dalla politica nel 2012 da un fanatico del Tea Party. Il senatore McCain ha bilanciato per decenni la belligeranza nazionalista con un senso di responsabilità internazionale, un’attenzione a coltivare alleanze e il desiderio di proteggere la buona reputazione dell’America (ad esempio, opponendosi all’uso della tortura contro prigionieri di guerra e terroristi). In una lettera di saluto agli americani, scritta prima di morire, McCain ha espresso chiaramente la sua posizione: “Siamo cittadini della più grande repubblica del mondo, una nazione di ideali, non di sangue e suolo. Siamo benedetti e siamo una benedizione per l’umanità quando sosteniamo e promuoviamo questi ideali a casa e nel mondo. Abbiamo aiutato a liberare più persone dalla tirannia e dalla povertà come mai prima nella storia, e nel progresso abbiamo acquisito grande ricchezza e potere. Noi indeboliamo la nostra grandezza quando confondiamo il nostro patriottismo con le rivalità tribali che hanno seminato risentimento, odio e violenza in tutti gli angoli del globo. La indeboliamo quando ci nascondiamo dietro i muri, piuttosto che abbatterli; quando dubitiamo del potere dei nostri ideali, piuttosto che fidarci che siano la grande forza del cambiamento che sono sempre stati.” Nello scenario di quello che è stato definito come il “momento unipolare”, la visione del mondo dei repubblicani internazionalisti è divenuta sempre più obsoleta, sostituita dall’esercizio dell’hard power e dalla dottrina Cheney-Rumsfeld (definita da tre funzionari del Dipartimento della Difesa – Paul Wolfowitz, Scooter Libby e Zalmay Khalilzad – che avevano redatto la “Guida alla pianificazione della difesa” nel 1992) secondo cui non dovesse più esserci una potenza straniera che potesse competere con gli Stati Uniti, come era successo con l’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda. La leadership globale americana sarebbe tutta stata incentrata sul mantenimento dell’ordine: una potenza militare non sfidabile avrebbe consentito agli Stati Uniti di imporre la globalizzazione e di gestire e sorvegliare un ordine implicitamente imperiale favorevole agli interessi e ai valori americani. Questa visione di una “grande strategia” di un’egemonia globale neoliberista ha portato l’America ad impegnarsi in almeno sei campagne militari negli anni ’90: Panama, Somalia, Haiti, Bosnia, Kosovo e Iraq.[]
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