Le grandi e medie potenze stanno muovendo i loro pezzi sulla scacchiera globale per definire le rispettive strategie in un contesto determinato dalla guerra in Ucraina, ma i cui cambiamenti strutturali si potevano già intravedere prima della decisione russa di invadere l’Ucraina.
La Cina di Xi Jinping rilancia il suo ruolo internazionale con un più accentuato protagonismo. Evidentemente alcuni pericoli interni si ritengono almeno in parte superati. La politica di “zero Covid” aveva iniziato a far emergere un forte malcontento che rischiava di mettere in discussione il consenso e il controllo del potere sulla popolazione. Sicuramente avranno influito le misure repressive ma in misura maggiore la crisi è stata superata da un cambio deciso di politica. Questa capacità di reazione e prova di flessibilità non era da dare per scontata dati gli elementi di irrigidimento autoritario e di centralizzazione del potere attorno a Xi Jinping che si sono registrati negli ultimi anni.
La scelta di allentare decisamente le restrizioni poteva anche determinare un’esplosione di decessi (spensieratamente messa in conto da Lagarde a Davos) che invece sembra evitata. In questo caso più che le vaccinazioni, la cui efficacia sembra essere stata piuttosto limitata, avrebbe giocato realmente l’attenuazione della virulenza della pandemia unita ad una certa immunità di gregge.
Tutto questo, assieme alle misure assunte dal potere, ha favorito un deciso miglioramento delle prospettive economiche. Il terzo mandato di Xi avviene quindi in un momento di relativa tranquillità sul piano degli equilibri interni. Anche se pure da questo versante non mancano i problemi e la priorità sarà soprattutto quella di garantire una maggiore autonomia nella disponibilità di tecnologie avanzate, Xi Jinping può dedicarsi a quello che è considerato il pericolo maggiore per il futuro della Cina: l’offensiva degli Stati Uniti per una nuova contrapposizione globale.
La Cina ha assunto una serie di iniziative per presentare la propria visione del mondo nella quale viene definito un comune obbiettivo di “modernizzazione” (come ha più volte ripetuto Xi nel recente incontro con circa 500 partiti di tutto il mondo e di variegato orientamento politico ed ideologico), basato su una “cooperazione win-win” e sulla collaborazione tra le diverse “civiltà”, ognuna delle quali si misura secondo propri parametri e prospettive.
Tutto ciò richiede l’esistenza di un assetto del mondo di tipo multipolare e multilaterale nella quale venga messa in discussione l’esistenza di una potenza egemone che impone alla propria volontà grazie ad un’enorme potere militare e al controllo di alcuni snodi finanziari fondamentali.
La visita di Xi Jinping a Mosca rappresenta in questo contesto un passo fondamentale per la leadership cinese, benché richieda anche una certa dose di equilibrismo. La Cina rivendica una forte connessione con la Russia, la quale si esprime però principalmente sul piano economico, energetico e tecnologico, senza trasformarsi in blocco ideologico e militare. La Cina fa capire in modo esplicito che non è disposta a tollerare un tracollo economico del paese vicino anche se non necessariamente condivide le iniziative prese dalla leadership di Mosca. Certamente non ha apprezzato la decisione di risolvere i problemi di sicurezza legati al posizionamento ucraino dopo il ribaltone del 2014, con l’azione militare, ma ritiene che a monte di questa iniziativa, considerata sottovoce improvvida, vi siano delle motivazioni che vanno prese in considerazione.
La tesi cinese è che si debba innanzitutto ridurre la dimensione militare del conflitto, far tacere possibilmente le armi e da questo punto di partenza provare a trovare una soluzione politica basata sulla trattativa. Naturalmente la Cina non si è avventurata a indicare un possibile esito di questi ipotetici negoziati, né credo possa pensare di ottenere in tempi brevi risultati utili dalla propria proposta. Per ora si tratta, credo, di una iniziativa fondamentalmente di propaganda, con la quale la Cina si propone come una forza di stabilizzazione e pacificazione dei conflitti, contrapponendo la propria vocazione di pompiere a quella di incendiario attribuita, a ragione, all’Amministrazione Biden.
Certamente la Cina dispone di abilità diplomatica, come ha dimostrato il ruolo svolto nel riportare al tavolo del confronto Iran e Arabia Saudita, il cui scontro rischiava di incendiare l’intero Medio Oriente. Ma per l’Ucraina la situazione è molto più complicata. Usa e Unione Europea puntano alla sconfitta della Russia attraverso una combinazione di azione militare, in cui via via si eleva l’asticella del coinvolgimento nel conflitto, con l’applicazione delle sanzioni, convincendosi che prima o poi l’economia russa inizierà a “sanguinare”, come auspica un editoriale del “Washington Post”.
Zelenski continua a cavalcare la retorica della “vittoria” ma alla lunga il prezzo che dovranno pagare gli ucraini per l’improbabile riconquista della Crimea e delle regioni abitate dalla minoranza russa sarà sempre più alto e lascerà probabilmente sul campo l’ennesimo stato fallito. Come già accaduto dopo le “vittorie” occidentali in Libia, Iraq e Afghanistan. Per tacere dello stesso Kossovo dove la conquista dell’indipendenza di fatto è stata poi pagata dalla fuga di gran parte delle nuove generazioni verso i paesi dell’Unione Europea dove trovare una diversa qualità di vita.
Putin, da parte sua, non ha solo deciso l’invasione militare, ma ha compiuto una serie di atti formali, con l’annessione delle province occupate (comprese alcune che poi ha dovuto abbandonare per ragioni militari) dai quali è ora difficile tornare indietro.
Tutte ragioni per le quali la soluzione più ragionevole, quella derivante da una trattativa, risulta oggi pressoché impraticabile.
La Cina da sola non è in grado di bloccare e invertire la spinta verso una nuova conflittualità globale, per una serie di ragioni, tra le quali evidentemente, il carattere autoritario del proprio regime. Inoltre la sua logica di rifiuto di ingerenze nelle vicende interne dei singoli paesi, che in una certa misura è una condizione dell’assetto globale multipolare, la induce a mantenere rapporti anche con regimi di dubbia legittimità. La sua visione del multipolarismo rischia di essere vista, a ragione, come una difesa assoluta dello stato quo.
Per questo è necessario che scendano in campo altri Paesi in grado di presentare più solide credenziali democratiche e di rompere la contrapposizione ideologica attorno alla quale Washington cerca di allineare il mondo (a fine mese si terrà il secondo forum delle democrazie, proclamati come tali insindacabilmente dall’Amministrazione Usa). In mancanza dell’Unione Europea che in teoria potrebbe giocare un ruolo di mediazione e pacificazione e di riorganizzazione dell’assetto mondiale su linee di maggior equilibrio e di riconoscimento del ruolo che spetta alle nuove potenze emergenti, l’unico Stato che può svolgere questa funzione è il Brasile di Lula.
Il nuovo governo brasiliano si è associato alla condanna dell’invasione russa all’Onu ma ha seccamente respinto le pressioni Usa e tedesche per buttare altre armi nella fornace ucraina. Lula ha dichiarato che non andrà né a Mosca né a Kiev fino a che continuerà il conflitto. Già durante la campagna elettorale e poi dopo il suo insediamento, attraverso il nuovo ministro degli esteri, ha rifiutato la lettura manichea del conflitto sulla quale sono allineati la quasi totalità dei mezzi d’informazione dei paesi Nato e affini.
Il Brasile di Lula potrebbe raggruppare una serie di paesi latino-americani per svolgere sulla scena globale quel ruolo per il quale l’Unione Europea ha completamente abdicato. Intanto a fine mese il Presidente brasiliano si recherà a Pechino, confermando la volontà di mantenere buoni rapporti con la Cina. D’altra parte le relazioni economiche tra i due paesi si sono notevolmente intensificate negli ultimi anni e Lula ha bisogno di contare su un’economia in buona salute per riprendere quelle politiche sociali e di attenuazione della povertà che avevano rappresentato la parte più significativa dei precedenti due mandati. Politiche completamente abbandonate con la presidenza di Bolsonaro.
E’ possibile un asse Brasile-Cina, attorno al quale possano aggregarsi altri paesi come il Sudafrica o realtà del Medio Oriente e dell’Asia, per invertire la china sempre più scivolosa verso una guerra fredda che poi forse tanto fredda non sarà? Per ora e in mancanza di un movimento dal basso che affermi una diversa prospettiva e che colleghi crisi climatica, ingiustizie sociali, processi di democratizzazione e assetto globale multilaterale in un’unica e diversa prospettiva globale (“l’altro mondo possibile” di cui aveva parlato il movimento per la giustizia globale all’inizio del millennio), l’iniziativa sarà affidata soprattutto all’azione degli Stati. Vedremo se Lula avrà la forza e la capacità di assumersi un ruolo tanto difficile.
Franco Ferrari