L’intero nostro pianeta è popolato da statue e monumenti dei quali periodicamente si torna a discutere se sia giusto rimuoverli, abbatterli o lasciarli dove sono stati collocati. Certamente è spiacevole vederli innalzati in ricordo di personaggi moralmente abietti o di eventi storici riprovevoli. Su questo problema si è molto discusso anche in questi giorni ed è affiorato alla mia mente il ricordo di una strana vicenda passata alla storia perché riguarda un monumento dell’antichità e il suo curioso alternarsi di rimozioni e ricollocazioni dal luogo ove era stato posto, fino alla sua distruzione di cui è interessante ripercorrere le vicende durate molti secoli.
Nel IV secolo dopo Cristo assistiamo a un duro contrasto tra pagani e cristiani riguardante l’Altare della Vittoria posto a Roma nella Basilica Giulia insieme a una statua dorata, alata, e coronata d’alloro della dea Vittoria, sottratta dai Romani ai Tarantini al tempo della guerra contro Pirro nel 272 a.C. Il monumento fu spostato il 28 agosto 29 a. C. da Ottaviano (non ancora nominato Augusto) al centro della nuova Curia per celebrare la vittoria navale ottenuta nel 31 a.C. ad Azio contro Marco Antonio e Cleopatra. I senatori romani già da secoli davanti a questo Altare, sotto lo sguardo della statua, giuravano fedeltà alle leggi, in seguito agli imperatori, e bruciavano grani d’incenso agli dei.
Nel basso impero con la diffusione del Cristianesimo si acuisce il conflitto tra la nuova religione che crede in un solo Dio e quella romana con il suo pantheon di divinità.
Nel 355 l’imperatore Costanzo II, un cristiano fanatico, emana un editto che sancisce la chiusura di tutti i templi pagani, la condanna a morte per chi pratica l’idolatria e le arti divinatorie; due anni dopo ordina la rimozione dell’Altare e della statua della Vittoria dal loro stallo nella Curia romana. Ma questo primo colpo di mano antipagano è vanificato, dopo la morte di Costanzo II, dal suo successore Giuliano, l’imperatore filosofo detto l’Apostata, artefice della restaurazione dell’antica religione pagana e della ricollocazione del discusso monumento nella Curia. L’avventura continua con il figlio e successore di Giuliano, il cristiano intollerante Gioviano che ne ordina di nuovo la rimozione. Alla sua morte, nel 364, sale al trono Valentiniano I che, pur essendo cristiano, segue un’imparziale politica di tolleranza verso i pagani, ma nel 375 muore e gli succede il figlio sedicenne Graziano. Intransigente e bigotto quale è nomina suo Augusto per l’Oriente Teodosio, il generale iberico fervente cristiano, che nel 380 con l’editto di Tessalonica dichiara il cristianesimo religione ufficiale dell’impero. Proscritti gli altri culti, egli dà corso a tutta una legislazione antipagana. Graziano, imperatore d’Occidente, nel 382, influenzato dal vescovo di Milano, Ambrogio, ordina la rimozione dell’Altare e della statua per evitare ai senatori cristiani di dover assistere al rituale compiuto dai colleghi pagani all’inizio di ogni seduta. Inoltre sopprime i finanziamenti al culto pagano e alcuni diritti dei sacerdoti e delle vestali. La sua morte improvvisa porta al potere Valentiano II che ridimensiona l’emarginazione dei pagani avvenuta dal precedente sovrano e nomina prefetto di Roma Simmaco, un importante oratore che è stato bandito dalla città su ordine di Graziano per la sua protesta contro la rimozione dell’altare della Vittoria. Tornato a Roma il Prefetto scrive una relazione all’imperatore (passata alla storia con il nome Relatio tertia) chiedendo di reinstallare il monumento e di provvedere al ritorno di sacerdoti e vestali addetti al suo culto. Nel 384 d.C. il cristiano Ambrogio, vescovo di Milano, scrive a sua volta due lettere all’imperatore, chiede di avere copia della relazione presentata da Simmaco perché possa conoscerne attentamente gli argomenti. Ricevuta dalla cancelleria imperiale la copia della relazione, il Vescovo ne confuta tutte le argomentazioni.
Se Simmaco si è rivolto al Valentiniano con rispetto, Ambrogio è deciso, sente di rappresentare il primato della Chiesa su questioni religiose e vincerà la contesa, le richieste dei pagani non saranno accettate. Ma esaminiamo alcuni passi degli scritti dei due protagonisti di questo scontro.
Simmaco chiede all’imperatore, a nome dei senatori pagani, che vengano ricollocate nella curia l’Altare e la statua della dea. Egli legge alla presenza dell’imperatore e di tutto il concistoro la sua relazione accolta con l’ammirazione dei presenti per il rispetto nei confronti dell’autorità imperiale e lo stile elegante nell’esprimere le sue richieste e soprattutto con spirto di tolleranza per il pluralismo religioso.
Ambrogio l’uomo della nuova fede religiosa non vuole compromessi e chiude ogni possibilità di dialogo. Con abilità e scaltrezza si rivolge all’imperatore e lo mette in guardia dagli ornamenti verbali di cui si servono i letterati sapienti che catturano e abbagliano la vista distogliendo dal vero contenuto, poi lo esorta: «Ti chiedo solo che tu faccia attenzione non all’eleganza della forma ma alla sostanza degli argomenti». E lo incalza: «La voce del nostro imperatore faccia risuonare solo il nome di Cristo, pronunzi solo il nome di colui in cui egli crede». Per dare più forza ai suoi argomenti aggiunge: «Vi sono forse imperatori pagani che hanno innalzato altari a Cristo? Perché vogliono costringere mani pie e labbra fedeli a porsi a servizio dei loro sacrileghi culti?».
Per Simmaco non si può abbandonare il culto di quegli stessi dei che hanno accompagnato Roma nella costruzione di un impero universale. Per essere più convincente dà la parola alla città stessa, immaginando che sia lei a rivolgersi ai presenti: «Abbiate rispetto per la mia età, raggiunta grazie alla mia osservanza della religione! […] È stato questo culto a sottomettere il mondo alle mie leggi, questi riti a respingere Annibale dalle mie mura e i Senoni dal Campidoglio».
Ambrogio a sua volta fa parlare Roma: «Perché ogni giorno mi insanguinate uccidendo animali innocenti? Non nelle viscere degli animali, ma nelle forze dei guerrieri stanno i trofei della vittoria».
Simmaco vuole conservare il culto alle tradizionali divinità, ragione per cui Roma era divenuta una così grande potenza; sopprimendolo si rischia di compromettere le sorti dell’impero.
Ambrogio è subito pronto a demolire l’idea che siano stati gli dei a contribuire all’espandersi della potenza romana perché «è stata grande non per il favore delle divinità antiche, ma per il valore delle armi e per il coraggio dei suoi soldati». Per il Vescovo Roma è vecchia, e può essere salvata solo dalla novità del messaggio cristiano.
Simmaco auspica che alle vergini vestali siano restituiti i privilegi di un tempo, sovvenzioni, esenzioni dalle tasse e altro ancora.
Ambrogio consiglia di guardare alla purezza di tante vergini romane virtuose senza che abbiano un compenso, che rifiutano ogni ornamento che risalti la loro bellezza, seguono pratiche di vita severe, prive di qualsiasi desiderio di piacere: «la loro castità giunge al grado supremo di perfezione attraverso la pratica della rinunzia, del sacrificio». (Questo il ruolo della donna secondo il vescovo cristiano!).
Simmaco non vuole si cancellino le radici pagane di Roma, ma non condanna il fervore di nuove fedi: «Chiediamo pace per gli dei della patria […]. Dobbiamo riconoscere che tutti i culti hanno un unico fondamento. Tutti contemplano le stesse stelle, un solo cielo ci è comune, un solo universo ci circonda. Che importa se ognuno cerca la verità a suo modo? Non si può seguire una sola strada per raggiungere un mistero così grande».
Simmaco mostra un’intelligente e conciliante difesa delle diverse opinioni e anche delle opposte religioni. Le sue parole sono di uno straordinario equilibrio, che risulterà però sconfitto dall’intollerante sicurezza di Ambrogio. Questo lontano episodio storico ci offre l’occasione per una riflessione sull’avvento del cristianesimo nell’impero romano e sullo scontro con la cultura pagana la quale sta lentamente cedendo il passo alla religione monoteista. La contestazione dell’illuminata saggezza di Simmacoo, ignorata poi da coloro che decidono non solo la rimozione definitiva di altare e statua, ma addirittura la loro distruzione, ha del resto dei precedenti già sintomaticamente nefasti nel pensiero e nelle opere di alcuni fra i famosi apologisti cristiani, quali Tertulliano, il cui estremismo cristiano sarebbe addirittura naufragato nell’eresia di Montano e nella sua estremizzazione denominata “tertullianismo”, e, ancora peggio, nella teoria (tutt’altro che cristiana) della vendetta mortale che avrebbe colpito i persecutori: teoria propugnata da Lattanzio stesso nella sua opera De mortibus persecutorum, ove si capovolge la situazione: persecutori sono ora i cristiani nei confronti dei pagani. A proposito di ciò è necessario porre in risalto il colpevole silenzio della Storia in generale, e della storiografia ecclesiastica in particolare, sulle crudeli azioni punitive subìte dai pagani più restii ad accogliere la novità rivoluzionaria della predicazione cristiana.
2 Commenti. Nuovo commento
Stucchevole propaganda anticristiana! Fatti esposti in modo tendenzioso, considerazioni personali anacronistiche; tutto è lecito pur di gettare letame sul cristianesimo. Testi siffatti non hanno alcuno spessore scientifico e sono inadatti a uno studio serio.
L’articolo è scorrevole e di ampio respiro storico per cui si legge tutto di un fiato. Apprezzo la chiarezza espositiva, il garbo con cui sono descritte concezioni in contrasto fra loro, e la mancanza di faziosità in un campo tanto delicato.