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L’incerto finale della crisi bielorussa

di Franco
Ferrari

Al momento sembra difficile prevedere l’esito della crisi che si è aperta in Bielorussia dopo che la Commissione elettorale centrale ha attribuito la vittoria al presidente uscente Alexander Lukashenko con oltre l’80% dei voti. Gli ultimi giorni indicano un’opposizione ancora capace di grandi mobilitazioni pacifiche e un Presidente che punta a drammatizzare il conflitto cercando di trasmettere l’idea della volontà di andare anche ad un possibile scontro violento. Al di là del gesto da dittatore da operetta della passeggiata in tuta mimetica e kalashnikov nella mano di Lukashenko, la vera posta in gioco dello si deciderà nelle fabbriche e nelle cancellerie straniere.

Un’ondata di scioperi metterebbe in difficoltà il potere molto più delle grandi manifestazioni di massa. Finora c’è stata una reazione in numerosi grandi fabbriche, ma le informazioni che si possono raccogliere da varie fonti indicano che siamo lontani da un vero sciopero generale. Gli operai, che sembravano essere uno degli elementi del blocco che sosteneva Lukashenko, hanno dato evidenti segnali di crescente insoddisfazione, ma gli strumenti repressivi e di intimidazione in mano al regime sono ancora forti. Lukashenko ha minacciato di chiudere le fabbriche dove si sciopera o di importare crumiri dalla vicina Ucraina. In vista della riapertura delle scuole ha dichiarato che potranno lavorarvi solo coloro che aderiscono all’ideologia di Stato, che coincide con quanto pensa volta per volta lo stesso Lukashenko.

L’opposizione, il cui profilo politico non è sempre chiarissimo, ma in cui prevale la visione liberale, non ha finora trovato una figura adeguatamente rappresentativa né un programma che garantisca a una parte della popolazione bielorussa di  non trovarsi, una volta effettuato il cambio di regime, a pagare le conseguenze economiche e sociali di politiche liberiste. I principali candidati di opposizione sono stati arrestati prima di potersi candidare e così alla guida della protesta elettorale si sono trovate tre donne, rispettivamente due mogli di esponenti arrestati e l’agente elettorale del terzo incarcerato. Attualmente solo quest’ultima, Maria Kolesnikova, si trova ancora in Bielorussia e svolge un ruolo importante all’interno delle manifestazioni. Era la diretta collaboratrice di un candidato unanimemente considerato filo-russo e legato alla Gazprom ed anche l’unica ad avere già un ruolo politico.

All’impasse interna corrisponde una sorta di surplace internazionale.  La Russia ha rapporti contrastati con Lukashenko che ha sempre giocato opportunisticamente nei rapporti con le grandi potenze, oscillando continuamente tra est e ovest. Nel corso del 2020, dopo essersi trovato in conflitto con Putin si è avvicinato soprattutto agli Stati Uniti. A febbraio ha avuto un amichevole colloquio a Minsk con il Segretario di Stato USA Mike Pompeo (esponente dell’ala più aggressiva e anti-cinese dell’Amministrazione  Trump). Lo stesso Pompeo si è dato molto da fare per avviare le forniture di petrolio necessarie a Lukashenko per evitare conseguenze economiche negative dei tagli effettuati dalla Russia. La prima petroliera è partita da Beaumont nel Texas il 17 di maggio ed è arrivata nel porto lituano di Klapedia il 5 di giugno. Con la collaborazione di una società petrolifera polacca e delle ferrovie lituane, il petrolio è stato instradato in Bielorussia per essere trattato in una raffineria della Naftan, società statale. Ci si può chiedere, come mai tutto questo darsi da fare per salvare Lukashenko a due mesi dalle elezioni. Probabile che si pensasse ad un appuntamento del tutto simile a quelli precedenti, con poche e sparute manifestazioni di protesta subito finite nel dimenticatoio.

Il Presidente bielorusso, che in questo ha dimostrato sempre grande abilità, ha impostato la campagna elettorale in funzione della polemica anti-russa (con l’arresto di un gruppo di mercenari in transito nel paese) e dando grande rilevanza alla ritrovata intesa con gli Stati Uniti. Infatti l’arrivo della petroliera dal Texas ha trovato grande copertura mediatica sui siti governativi bielorussi. Anche dopo le elezioni, l’atteggiamento dell’amministrazione americana è stato molto prudente. Al di là delle dichiarazioni rituali, ha mantenuto i contatti sia con il governo bielorusso che con l’opposizione. Con la differenza, non irrilevante in diplomazia, che il colloquio con il ministro degli esteri di Lukashenko è stato sollecitato dagli Stati Uniti, mentre la Tikhanovskaya, candidata dell’opposizione, ha dovuto chiedere di poter parlare con un sottosegretario agli esteri dell’amministrazione Trump.

Un po’ più rumorose le reazioni dell’Unione Europea, su cui pesa la pressione dei paesi baltici e della Polonia, che rappresentano l’ala marciante del blocco anti-russo, ma le sanzioni annunciate sembrano più di forma che di sostanza. Sono state ritualmente applicate dopo ogni elezione presidenziale, per poi essere allentate poco dopo a seguito di qualche gesto di buona volontà da parte di Lukashenko. Non hanno mai prodotto un impatto significativo.

La Bielorussia non è l’Ucraina, paese nel quale si giocavano ben altri interessi e dove esisteva una forte base anti-russa legata alle vicende storiche del paese che spingeva per un rapporto privilegiato con l’Unione Europea. In Ucraina ci fu un ruolo di primo piano dell’ambasciatrice statunitense in loco che agì come un proconsole e indirizzò le proteste che in sé, avevano anche motivazioni economiche e sociali oltre che geopolitiche. L’italiano Pittella del Pd andò a fare comizi in piazza Maidan per alimentare lo scontro. Il risultato è che l’Unione Europea si è trovata a gestire i problemi di un altro Stato semi-fallito (economicamente e territorialmente ) senza poter incassare alcun beneficio. Per questo nelle cancellerie europee che contano, Parigi e Berlino, e nei think tank ad esse vicini, ci si tiene tanto a sottolineare che la Bielorussia non è l’Ucraina. “Non è un’altra Maidan” è una litania ripetuta in tutte le salse da esperti e consiglieri vari. Ed in effetti, la crisi bielorussa ha attori del tutto diversi da quelli ucraini.

La Russia ha tenuto un atteggiamento non privo di qualche ambiguità. Non ha contestato apertamente l’esito delle elezioni ma ha riconosciuto che qualche problema c’è stato. Difende la Bielorussia dalle possibile ingerenze esterne (quelle degli altri, non le proprie) ma apprezza il fatto che Lukashenko abbia promesso una revisione della Costituzione ed eventualmente, solo dopo di essa, nuove elezioni. Non vuole che la Bielorussia diventi un’altra spina del fianco e soprattutto che venga inglobata nell’UE e nella Nato, anche se al momento nessuno dell’opposizione (e nemmeno nelle piazze) ha avanzato proposte in tal senso, ma in un quadro di instabilità non si può mai prevedere l’esito finale. Non ha però dato credito più di tanto alle gesticolazioni militari di Lukashenko pronto a muovere l’esercito per difendersi da un’aggressione della Nato, di cui per ora non vi è traccia, se non nella propaganda del regime. Per altro lo stesso ministro degli Esteri ha parlato con un esponente dell’amministrazione americana ringraziandola per il sostegno alla “sovranità” del paese.

Al momento, tutti gli attori sembrano minacciare qualcosa che per altro non hanno intenzione o la capacità di mettere in atto, purché anche tutti gli altri protagonisti della partita se ne stiano fermi sulle loro posizioni. Tutto questo però potrebbe saltare in aria di fronte a qualche evento imprevisto o a qualcuno che decida di mettere attuare qualche colpo proibito per far saltare l’attuale precario equilibrio e sperare alla fine di conquistare tutta la posta.

La natura del regime di Lukashenko

Se questa è la fotografia che si presenta oggi, ci sono alcune domande di fondo alle quale bisogna rispondere. Qual è la natura del regime bielorusso? E quale giudizio bisogna darne da un punto di vista di sinistra e progressista.

Non aiutano in questo le letture manichee o prive di senso storico. Non mi sentirei di accettare acriticamente la definizione messa in circolazione, per ragioni di propaganda, da una vecchia  Amministrazione americana, di Lukashenko come “ultimo dittatore d’Europa”. Il mondo non è divisibile semplicisticamente tra “democrazia” e “dittature” (secondo la lettura ideologica di un politologo come Giovanni Sartori) ma fra paesi tendenti a processi di democratizzazione e paesi tendenti verso assetti più autoritari. Con molte gradazioni intermedie tra gli uni e gli altri.

Certamente la Bielorussia di Lukashenko non offre ai suoi cittadini una serie di diritti politici e sociali che dovrebbero essere considerati basilari. Tranne le prime elezioni che lo hanno portato al potere, con un po’ meno del 50% dei voti, tutte le successive sono state quasi certamente manipolate per offrire un risultato sempre superiore all’80%. Molti possibili candidati alternativi sono stati messi in prigione o esclusi in vari modi dalla competizione politica. Il controllo del potere sui mezzi di informazione statale è stato pressoché assoluto, per farsene un’idea basta guardare le pagine dell’agenzia di informazione governativa Belta. Le possibilità di organizzazione di forze politiche indipendenti e di movimenti sociali autonomi è fortemente limitata. Lo stesso vale anche per diritti sociali come la possibilità di scioperare o di organizzare sindacati indipendenti.

La struttura del potere, attraverso una serie di modifiche costituzionali, è stata totalmente sottoposta al controllo del Presidente della Repubblica che ha via via depotenziato qualsiasi possibilità di controllo e di influenza di centri di potere alternativi che siano il governo, il parlamento o le autonomie locali. Lukashenko non ha mai costituito un proprio partito politico e ha mantenuto il diretto controllo su tutti gli apparati militari e repressivi, così come su tutta la burocrazia che gestisce le imprese statali.

A fronte di tutto questo ha però garantito alcuni benefici sociali e una certa uguaglianza di condizioni di vita, e ha evitato la formazione di un’oligarchia di ricchi sfacciati e prepotenti. Ha sempre promesso una sostanziale stabilità di tutto il sistema evitando terapie economiche draconiane, conflitti sociali violenti ecc.

Le caratteristiche proprie della Bielorussa, che costituiva una delle zone più industrializzate e ricche della vecchia Unione Sovietica e non aveva conflitti di tipo nazionalistico o etnico rilevanti nei confronti di Mosca, sui quali potessero agire nuovi (o riciclati) imprenditori politici, hanno creato le condizioni per mantenere un reale consenso, anche se largamente passivo e frutto di una sostanziale spoliticizzazione organizzata della popolazione. I bielorussi hanno apprezzato Lukashenko soprattutto perché gli ha evitato un processo di trasformazione che in molte altre ex repubbliche sovietiche ha prodotto un drastico peggioramento delle condizioni di vita e delle aspettative sociali di fasce consistenti di popolazione.

La Bielorussia di Lukashenko è in sostanza un regime autoritario e paternalistico con elementi di bonapartismo, totalmente diretto dall’alto, con il potere effettivo concentrato in una sola persona. Questo sistema presenta una serie di contraddizioni irrisolte che prima o poi sembrano destinate a metterlo in crisi. Sul piano politico, l’assenza di una struttura di potere collegiale lo fa interamente dipendere dall’abilità e dal carisma populistico di Lukashenko, inevitabilmente destinati o a logorarsi o a finire per ragioni biologiche.

Sul piano economico, dopo alcuni anni di effettiva crescita, in parte garantita dai finanziamenti diretti o indiretti ricevuti dalla Russia, il sistema sembra entrato in un periodo di stagnazione. I settori trainanti sul piano industriale restano marginali nella catena del valore globale (come la produzione e l’esportazione di trattori) mentre la crescita di aziende nell’ambito dell’Intelligenza Artificiale è ha doppio taglio perché porta al rafforzamento di settori sociali che tendono a collocarsi più facilmente fra le forze di opposizione. Non va nemmeno sottovalutata la crisi demografica che colpisce la Bielorussia come molti altri paesi dell’ex blocco socialista e che ha portato  nell’arco di un paio di decenni alla “scomparsa” di un milione di bielorussi su poco più di dieci milioni di abitanti. La scarsità di giovani ha probabilmente favorito il lungo potere di Lukashenko ma alla lunga diventa un forte vincolo negativo per lo sviluppo economico del Paese.

Il regime ha fatto fronte alle crescenti difficoltà economiche riducendo alcuni benefici ma soprattutto introducendo una serie di leggi che hanno reso sempre più stringente la subordinazione dei lavoratori. Nelle campagne ha imposto l’impossibilità di abbandonare il proprio lavoro e di spostarsi all’interno del Paese. Nelle fabbriche ha eliminato il contratto di lavoro a tempo indeterminato, imponendo contratti annuali o di pochi anni, rinnovabili a totale discrezione delle direzioni delle aziende. Successive modifiche hanno parzialmente alleggerito ma non eliminato questa impostazione che farebbe la gioia di qualunque padrone alla Bonomi. Si comprende in questo modo perché l’opposizione, che nel tempo non era mai riuscita a mobilitare più di qualche migliaio o al massimo poche decine di migliaia di persone, oggi ne possa portare nelle piazze diverse centinaia di migliaia e rappresentare un pericolo reale per il potere.

Il “campismo immaginario” non è la risposta

Di fronte alla crisi bielorussa abbiamo assistito al tentativo di riprodurre analisi e posizionamenti derivati dallo schema ideologico del cosiddetto “campismo”. La difesa, per lo più acritica, di Lukashenko scaturisce da due letture non del tutto sovrapponibili ma entrambe del tutto sterili. 

Nel secondo dopoguerra e a partire dal prevalere dello stalinismo come corrente dominante del movimento comunista, la situazione mondiale è stata interpretata sempre come conflitto tra schieramenti di Stati, piuttosto che come conflitto tra classi. Oppure quest’ultimo era totalmente subordinato alla visione e agli interessi dell’Unione Sovietica. La fedeltà all’URSS era considerata la pietra di paragone per valutare una corretta posizione internazionalista. Questa tesi è stata oggi riproposta da un appello comune del Partiti Comunisti dei vari Stati nei quali si è frammentata l’Unione Sovietica.

Solo con la crisi irreversibile dello stalinismo a metà degli ani ’50 si è cominciata faticosamente a rimettere in discussione una concezione che era stata consacrata nel ’47 dalla relazione di Zdanov alla riunione di formazione del Cominform. Ma molti partiti hanno continuato a considerare l’allineamento alla burocrazia sovietica come un elemento imprescindibile della propria identità, subendo poi il contraccolpo del crollo del socialismo reale.

Nella visione campista tutti i conflitti e scenari vengono inquadrati in unico schema bipolare a prescindere dall’analisi concreta delle situazioni nazionali, delle forze sociali in campo e della direzione, progressiva o regressiva, nelle quali si muovono le leadership dei diversi stati. In questo modo, si crea una notte in cui tutte le vacche sono nere. L’Ucraina equivale alla Bielorussia. Iran, Cina, Corea del Nord, Venezuela o Bielorussia sono tutti parte di un unico “campo” con il quale allinearsi, in quanto elementi di un unico fronte “antimperialista”. La realtà viene dedotta dallo schema col risultato che le analisi che ne scaturiscono sono assai poveri di elementi reali, sostituiti dalla propaganda e anche da elementi di “cospirazionismo”.

Altre forze vedono invece nel regime di Lukashenko l’ultimo baluardo di un socialismo che è ancora largamente identificato con il socialismo burocratico e autoritario dell’Unione Sovietica. Nonostante siano passati trent’anni dal crollo di quel sistema, certamente per le pressioni esterne ma anche e soprattutto per le contraddizioni interne, non c’è stata nessuna rielaborazione teorica e critica delle ragioni della sua caduta. Ipotizzare che la Bielorussia di Lukashenko possa rappresentare un esempio, anche imperfetto, del modello di socialismo che si propone nel nuovo secolo vuol dire indebolire la credibilità di una alternativa al capitalismo che non ripercorra le esperienze fallimentari del passato.

Non restare schiacciati in un eterno bipolarismo

Il rifiuto di posizioni “campiste” o nostalgiche di un socialismo autoritario non impedisce di vedere che movimenti di opposizione come quello bielorusso, che pure avanza rivendicazioni legittime, siano tendenzialmente egemonizzati da posizioni liberali, se non apertamente liberiste e in qualche caso di nazionalismo aggressivo. Sarebbe però ridicolo vedere all’opera nelle strade bielorusse una massa di simpatizzanti nazisti, magari solo perché utilizzano una bandiera di cui i collaborazionisti si appropriarono durante l’occupazione tedesca (come la mussoliniana Repubblica di Salò si appropriò del tricolore italiano) ma che era nata nel 1918, in tutt’altro contesto e rappresentava anche quelle componenti nazionaliste che  al nazismo si opposero.

Tanto meno si deve cancellare l’ipocrisia con la quale Unione Europea o Stati Uniti impongono i loro criteri di “democrazia” o di rispetto della sovranità nazionale. La “democrazia” o la “legalità” si impone a quelli che sono considerati nemici ma si sorvola facilmente quando si tratta di paesi alleati o meglio ancora subalterni. Resta valido il criterio che espresse l’ex Presidente Usa Lindon Johnson, che in quanto texano non era famoso per l’eleganza delle espressioni, quando qualcuno gli chiese del perché gli Stati Uniti sostenevano un brutale e corrotto dittatore qual era Somoza in Nicaragua. “E’ vero – rispose l’erede di Kennedy – Somoza è un figlio di puttana ma è il nostro figlio di puttana”.

Le forze che invece si propongono di unire trasformazioni sociali e conquiste democratiche, soprattutto nei paesi dell’ex blocco socialista sono in molte situazioni ancora marginali, ma sono le uniche che offrono una prospettiva rivolta al futuro assai più che non l’attardarsi su posizioni ormai storicamente sconfitte e non più riproponibili.

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