Un errore di fondo. Da troppi anni, almeno dalla catastrofe siriana, ma forse ad una attenta analisi si potrebbe risalire anche ad anni precedenti, si continua a trattare il percorso delle migrazioni forzate di chi fugge dalla guerra con due angolazioni tanto speculari quanto insufficienti. Da una parte il terrore dell’invasione dei profughi, con tutte le declinazioni frutto di esasperazioni, fake news, ricerca di capri espiatori, tipiche di Paesi – non riguarda solo l’Italia – in perenne campagna elettorale. Chi analizza la questione da questo punto di vista, al di là di artifizi retorici, è poco interessato alle ragioni e ai retroscena che portano uomini, donne e bambini a lasciare tutto e a mettere a repentaglio la propria vita rompendo i ponti con il proprio passato. L’importante è un utilizzo in chiave propagandistica per “arginare l’invasione”. Da qui le proposte di improbabili blocchi navali (anche in Afghanistan, Paese privo di qualsiasi sbocco marittimo), cordoni militari, muri, da costruire ad ogni confine – forse per arginare la crisi nel settore dell’edilizia – ed ogni altro, spesso irrealizzabile, dispositivo atto a fermare la storia. Si tratta di un approccio, al di là dei giudizi etici, fallimentare e inattuabile, buono unicamente a dilapidare risorse in costosi quanto inutili sistemi di sicurezza, che risultano efficaci unicamente attraverso sistemi propagandistici fondati sul nulla, rassicuranti ma illusori.
Dall’altra parte – e va sottolineata una profonda specularità – da tempo i disastri provocati dalle guerre, col conseguente spostamento di profughi, viene analizzato e narrato unicamente come problema di carattere umanitario. Persone vulnerabili da aiutare, la cui circolazione va in qualche maniera gestita e regolamentata ma che, con diversi toni e articolazioni – che spesso risentono della concomitanza con appuntamenti elettorali –, sono unicamente vittime, oggetti da spostare da un Paese all’altro, effetti collaterali di una “esportazione di democrazia”, da far percepire sulla base di emotività di breve durata. Il tempo di qualche video o qualche immagine che mostri la sofferenza – preferibilmente di bambini o donne – sovente senza definire un passato che definisca e circostanzi le ragioni di tanto dolore e senza progettare un futuro, se non vagheggiando improbabili scenari geopolitici e la coscienza è a posto. L’informazione è confezionata, i buoni sentimenti sono soddisfatti e per il resto provveda il circuito del privato sociale ad agire e a farci dimenticare gli occhi e i volti visti, perché altri ne sono in arrivo, magari più notiziabili.
Ogni tanto si prova a fare un diretto uso politico di tali vicende, si pensi quanto accadeva ai boat people vietnamiti, o ai balzeros cubani, a kosovari ed albanesi, per restare in Italia, ma senza neanche esagerare. Il rischio di un’equazione con chi tenta di fuggire dai lager libici è troppo destabilizzante tanto per chi è ossessionato dal controllo del territorio quanto per chi, pur non mancando mai di evocare interventi umanitari, realizza in maniera ipocrita sistemi di impedimento alla fuga meno clamorosi e più sofisticati.
Il preambolo era necessario per azzardare una tesi. Senza affatto sminuire il valore umanitario del diritto/dovere dell’accoglienza ai rifugiati, perché non si considera tale questione dal punto di vista prettamente politico? Il senso del ragionamento, provocatorio e al limite del semplicistico è questo: venti anni fa il conflitto asimmetrico in atto, in assenza di prospettive politiche ad ampio spettro, ha utilizzato il terrorismo come arma contro le grandi potenze. Certamente si tratta del risultato di una strategia fallimentare da “apprendisti stregoni” con cui, nei diversi contesti sociali, le grandi potenze, in particolare quelle che agivano sotto l’egida della Nato, hanno prima sostenuto, in chiave reazionaria, le varie organizzazioni jahediste, salvo poi, ritrovarsele, incontrollate, a far pagare le conseguenze di tale sostegno. La stagione degli attentati iniziata l’11 settembre ma che da tempo covava in varie realtà ancora sottoposte ad un dominio neocoloniale, ben lungi dal poter essere giustificata – ha provocato in tutto il mondo la morte soprattutto di civili – aveva una propria logica insorgente. Una strategia che si è rivelata, a lungo andare, fallimentare. Utile sì a creare in Europa e negli Usa il nemico interno – ed esterno – contro cui tutto è lecito, con buona pace delle convenzioni internazionali, ma sconfitta tanto dal punto di vista militare quanto da quello politico. La preannunciata vittoria taliban in Afghanistan va inquadrata in tal senso come l’esito di una trattativa: nessuna interferenza in merito a quanto accadrà nel Paese in cambio non solo di accordi commerciali ma del rifiuto di fungere da base per qualsiasi azione terroristica al di fuori dai confini. Con buona pace di chi paventava già le bandiere nere alle porte di Roma, pronte ad attaccare la “cristianità” e il sogno di una nuova “Lepanto” in grado di ristabilire distanze obsolete.
Le “primavere arabe” prima, il conflitto in Siria poi e da lì a seguire hanno, ad avviso di chi scrive, fatto maturare una nuova consapevolezza. Il ventre molle dell’Occidente, l’Unione Europea, si è dimostrata in grado di assorbire e di reagire agli attentati ma è terrorizzata dall’arrivo dei rifugiati. Le politiche di respingimento attuate soprattutto dall’Italia, dalla Spagna e dai Paesi balcanici si sono rivelate insufficienti tanto dal dover portare a spingere ancora di più verso un processo di esternalizzazione delle frontiere iniziato già da molto tempo.
Gli accordi UE-Turchia (marzo 2016), come noto, hanno consentito al regime di Erdogan di detenere un potere contrattuale immenso. I circa 3 milioni di profughi siriani sono spesso utilizzati come strumenti di minaccia al punto che in momenti di tensione il Sultano ha minacciato di concedere, ad una parte di questi, cittadinanza turca per poi consentire loro maggiori facilità di accesso in Europa. Dal 2015 formalmente – in realtà da prima – l’UE tenta un’operazione simile con i Paesi africani, in primis con quelli rivieraschi. Le commesse – militari e non – con l’Egitto di Al Sisi, hanno fermato le partenze da quel Paese mentre tutt’ora più complessa resta la situazione libica. Il Memorandum of understanding (Mou) del febbraio 2017 ha permesso di definire maggiori relazioni con l’Italia al punto di definire con la Libia allora di Serraj oggi di Dbeibeh, non solo una zona di Search and rescue (Sar) di competenza esclusiva di Tripoli ma anche, attraverso le agenzie europee come Frontex, di operare respingimenti illegali e di massa dei profughi che giungono da Paesi dell’Africa sub-sahariana. Decine di migliaia di persone sono state fermate in questa maniera – alla faccia di chi straparla di “immigrazione incontrollata” – ed è avvenuto con i cambi di governo senza soluzione di continuità. Questo in cambio del sostegno ai regimi libici e ai loro centri di detenzione e tortura. Una vittoria politica della Libia ritenuta per l’UE insufficiente. Già perché gli obiettivi che si intendevano e si intendono ancora perseguire sono quelli di spostare ancora più a Sud le frontiere europee, con nuovi strumenti di contenimento e nuovi accordi con Paesi peraltro instabili e con cui le relazioni risultano complesse. Ma per farlo servono anche risorse economiche da distribuire ai singoli Paesi, sotto forma di “cooperazione allo sviluppo” e da questo punto di vista l’UE si è ad oggi rivelata estremamente avara. I vertici che si sono susseguiti a Malta – terra di mezzo fra Europa e Paesi africani – non hanno portato ai risultati sperati. Troppo alte le richieste africane, poche le garanzie offerte in cambio e troppo frastagliato il panorama per poter pensare di fermare gli spostamenti di persone dovuti non solo a conflitti ma a catastrofi ambientali, crisi economiche, assenza di prospettive future, regimi autoritari. In questi anni, dopo aver monopolizzato il controllo delle frontiere orientali, la Turchia – complice anche un’assenza europea – è subentrata non solo in Libia ma indirettamente anche in Tunisia e Corno D’Africa. Con un risultato a dir poco grottesco che dà l’idea di quanto la partita sia squisitamente politica e poco abbia a che fare con le emergenze umanitarie. Fra le proroghe votate a luglio in Parlamento delle missioni militari italiane all’estero ci si ritrova col fatto che le spese per l’addestramento della cosiddetta Guardia costiera libica serviranno di fatto ad ufficiali turchi che hanno preso il posto degli italiani in questa “meritoria opera”. Il peso di questa partita politica è destinato ad aumentare alla luce della crisi afghana. Se si eccettuano coloro che già da gennaio hanno deciso di lasciare il Paese sentendosi minacciati dall’arrivo al potere – non inaspettato – dei taliban, l’eventuale passaggio di profughi non ci sarà prima del 2023. Il viaggio è lungo e sarà costellato di ostacoli imposti dai Paesi confinanti, due saranno le rotte principali che si potranno intraprendere. La prima, la più battuta, porterà in Turchia, passando dall’Iran. La seconda traversando le repubbliche caucasiche, verso la Bielorussia e da lì in Polonia e Lituania. Erdogan sta già contrattando con l’UE tanto in maggiori sostegni a fronte della disponibilità a non far passare ulteriori profughi – sostegni che si tradurranno anche nell’avere mano libera nei propri scenari d’interesse strategico – quanto nel poter pretendere un ruolo maggiore sia in ambito Nato sia per poter pesare in Siria nel confronto con Russia e Iran. Se poi andrà in porto a breve termine l’obiettivo turco di presidiare l’aeroporto di Kabul, anche lo scenario afghano avrà un attore potente che saprà giocare le sue carte.
Non abbiamo volutamente qui trattato anche quando sta avvenendo fra Spagna e Marocco, né il ruolo che intende svolgere l’Algeria, da cui si parte verso la Sardegna, né tantomeno gli scenari – anch’essi interessati dagli spostamenti di persone – delle complesse aree del Sahel dove si vanno giocando interessi economici e politici ma in cui anche la “carta dei profughi” riveste un suo peso. Un’analisi del genere richiederebbe approfondimenti ancora maggiori. Ma per quanto detto, non è il caso che, come sinistra, ci si cominci ad occupare di una gestione politica di questa situazione e di come si debbano disinnescare i ruoli assunti, spesso per conto terzi, di alcune potenze regionali? L’accoglienza e la libertà di movimento potrebbero far divenire giganti d’argilla i dittatori di cui l’UE fa buon uso, quelli che critica pubblicamente ma che si rivelano spesso “necessari”. Una libertà di movimento che non porterebbe – come in maniera ossessiva viene ripetuto dai mezzi di informazione del nostro regime – a chissà quale invasione e/o sostituzione etnica. Una libertà di movimento e di costruzione di forme di resistenza, anche nelle diaspore che potrebbero innescare la base di un vero multilateralismo basato sui bisogni dei popoli.