Articolo già pubblicato il 14 luglio 2021 –
In questi giorni mi viene da pensare al contesto che portò all’approvazione della legge n. 92 del 30 marzo 2004, che istituiva il «Giorno del ricordo in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati». Com’è noto, la legge, che aveva le sue radici nell’iniziativa della destra missina e postmissina, prese le mosse da una proposta di legge del 2003, sottoscritta da esponenti di Alleanza Nazionale, di Forza Italia, dell’UDC e della Margherita, ed ebbe infine il favore di tutti i gruppi parlamentari, con l’eccezione di Rifondazione Comunista e dei Comunisti Italiani nel Gruppo Misto. Come appare anche dalla ricostruzione del suo iter legislativo da parte di Valerio Strinati, gli eredi dell’antifascismo si trovarono a subire e ad accettare gradualmente, con sempre minore resistenza, fino a farli propri, assunti e paradigmi revanscisti, nazionalisti, o fascisti tout court.
Erano gli anni in cui si predicava la necessità di “memorie condivise”. Tutta la questione assumeva un carattere esemplare. La violenza politica era reinterpretata come vittimizzazione degli italiani in quanto italiani, o in termini di vera e propria “pulizia etnica” – una reinterpretazione certamente contestata dalla storiografia, ma che rassicurava e soprattutto “unificava”. Essa consentiva in sostanza di espellere dalla comunità nazionale quell’elemento ideologico ritenuto responsabile della violenza. Un’operazione catartica. Esorcizzati così gli spettri di un conflitto definito da una radicale alterità (vuoi politico-ideologica, vuoi nazionale o culturale), il paese finalmente pacificato nelle sue memorie condivise poteva proseguire senza ulteriori scossoni sulla strada della “normalità”. È significativo che diversi eredi dell’antifascismo motivassero il loro consenso all’istituzione del Giorno del Ricordo con la volontà di porre fine alle strumentalizzazioni da parte della politica. Nel paese finalmente normale, di foibe e di esodo se ne sarebbero occupati solo gli storici.
Mi chiedo se tutti quei sostenitori “da sinistra” della legge avrebbero mai potuto prevedere la cronaca recente. Il disegno di legge Ciriani (Fratelli d’Italia) sul negazionismo delle foibe, che equipara queste ultime alla Shoah. La delega della memoria pubblica a soggetti apertamente revanscisti e anticostituzionali da parte delle amministrazioni locali. Altro che memorie condivise. E che dire delle illusioni, ripetutamente espresse, che l’istituzione del Giorno del ricordo avrebbe consentito di ricostruire su nuove basi la convivenza in un’area multiculturale e multinazionale? La riproposizione di una prospettiva essenzialmente nazionale ha semmai ufficializzato nel discorso pubblico la contrapposizione di memorie antagoniste che paiono il lascito dell’età dei nazionalismi. E così praticamente ogni 10 febbraio capita che fior di europeisti ai vertici delle istituzioni riescano a creare tensioni, per quanto brevi e senza seguito, con i nostri vicini sloveni e croati. Altro che Europa.
Vale la pena richiamare queste dinamiche nel nostro ambito nazionale nel considerare il significato e le implicazioni di un documento come la Risoluzione del Parlamento Europeo del 19 settembre 2019 «sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa», votata dal PPE, dal gruppo Identità e democrazia (a cui appartiene la Lega), dal gruppo Conservatori e Riformisti (a cui aderisce Fratelli d’Italia), dai liberali di Renew Europe e dal gruppo S&D (con circa la metà degli eurodeputati PD che hanno votato contro o corretto un voto inizialmente favorevole). Il gruppo GUE/NGL ha votato contro, mentre i Verdi con Alleanza Libera Europea hanno votato perlopiù a favore, e una minoranza, circa un sesto, si è astenuta. Il testo definitivo era stato frutto di una tortuosa mediazione, il che anche in questo caso ha prodotto la sostanziale accettazione, da parte di una vasta maggioranza del PE, di paradigmi che erano stati propri di una parte specifica.
Le forzature e mistificazioni della Risoluzione sono state subito rilevate da numerosi storici, anche lontani da simpatie comuniste. A cominciare dall’attribuzione dell’inizio della Seconda guerra mondiale al patto di non aggressione Molotov-Ribbentrop, che oscura il contesto di tensioni, instabilità, e violenze creato negli anni Trenta dai regimi autoritari e fascisti, nonché le complicità dei grandi stati liberali come la Francia e il Regno Unito e in generale delle classi dirigenti europee, ma che consente di stabilire una simmetria fra i regimi nazista e comunista, non da ultimo nella volontà di spartizione dell’Europa. Il passato viene strumentalizzato per dare conferma e rilevanza alle preoccupazioni del presente, segnatamente la presenza russa nello scacchiere geopolitico in una prospettiva di nuova guerra fredda. L’ansia di affermare la perfetta simmetria tra i totalitarismi si spinge a esprimere «inquietudine per l’uso continuato di simboli di regimi totalitari nella sfera pubblica e a fini commerciali», ricordando che «alcuni paesi europei hanno vietato l’uso di simboli sia nazisti che comunisti», e osservando «la permanenza, negli spazi pubblici di alcuni Stati membri, di monumenti e luoghi commemorativi (parchi, piazze, strade, ecc.) che esaltano regimi totalitari, il che spiana la strada alla distorsione dei fatti storici circa le conseguenze della Seconda guerra mondiale, nonché alla propagazione di regimi politici totalitari». La falce e martello come la svastica, insomma, come se non facesse di per sé parte della storia del movimento operaio, inclusi quei partiti che al Parlamento Europeo hanno votato a favore della Risoluzione.
Un punto di riferimento per orientarsi nel senso e nei risvolti di questo testo è il recente volume edito da Radici Future Nazismo, comunismo, antifascismo. Memorie e rimozione d’Europa, a cura di Pasquale Martino, con saggi di Davide Conti, Claudio Vercelli, Carlo Spagnolo e Lucia Boschetti. Una disamina critica di un documento politico ad opera di storici. Che non solo rettificano le varie forzature presenti nella Risoluzione, ma sollevano pure questioni fondamentali per quella continua (auto)educazione interculturale che dovrebbe costituire, in fondo, la “coscienza europea”.
Perché è senz’altro vero che le memorie che si sono sviluppate a Est e ad Ovest di quella che era una volta la “cortina di ferro” sono diverse, anche contrastanti. Il punto non è certo uniformarle o omologarle. Le memorie invece, come viene detto nell’introduzione, devono «confrontarsi tra loro e misurarsi con lo sforzo del dibattito storiografico, capace di far percepire agli uni e agli altri (europei dell’Ovest e dell’Est) il complesso di un quadro storico articolato, di cogliere le distanze ma anche le somiglianze» (p. 21). Per esempio, la partecipazione alla Resistenza antifascista nell’Europa centro-orientale, ben prima che arrivassero i sovietici, di comunisti e socialisti, il cui ricordo è oggi praticamente cancellato. O ancora, l’autoritarismo antidemocratico che è persistito dopo la Seconda guerra mondiale sia nell’“Europa dell’Est”, sia in paesi dell’Europa meridionale assegnati all’Occidente nelle dinamiche della guerra fredda.
Ma non è il confronto tra le memorie l’intento della Risoluzione; al contrario, ciò a cui invece punta, osserva Carlo Spagnolo, è l’«unificazione delle memorie», quasi in luogo di quella politica, come appare già dal titolo «L’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa». Si vuole affermare «un indirizzo per le memorie istituzionali europee» ossia «favorire una narrazione a scapito di altre» (pp. 132-133). La narrazione sarebbe quella antitotalitaria. Chi potrebbe mai obiettare all’antitotalitarismo?
Si tratta però di un antitotalitarismo astratto e astorico, quello espresso dalla Risoluzione, la cui funzione principale è senz’altro quella di affermare un’alternativa perbene al paradigma antifascista (quest’ultimo inteso in tutta la sua pluralità ideologica e politica), con la rimozione della tensione emancipatoria, della lotta dal basso per un futuro diverso e migliore. L’orizzonte è quello della “fine della storia”, un “eterno presente” che si può solo accettare. Come scrive Claudio Vercelli, in questa prospettiva il totalitarismo diventa «la cornice per risolvere qualsiasi complessità dei processi politico-sociali al di fuori della stretta dimensione liberale. Tutto il resto è, per così dire, una quisquilia per “intellettuali”, che vogliano irresponsabilmente baloccarsi dinanzi alle cataste di morti» (p. 81). In altri termini, la lezione “antitotalitaria” che qui viene dalla storia è che non ci sono alternative. Alle condizioni, alle politiche, alle classi dirigenti, alle ideologie dominanti, la cui contestazione da parte dei dominati richiamerebbe il terrore e la coercizione nell’Europa pre-1989. Non c’entra qui la condanna dei gulag, dell’occupazione sovietica, della stessa accettabilità di metodi violenti e coercitivi, da cui una parte della sinistra comunista ha da tempo preso le distanze. In questo senso, affermare che nazismo e comunismo sono la stessa cosa ha in pratica lo stesso significato, la stessa funzione e le stesse implicazioni di dire che non si può concepire una politica che non goda del favore dei “mercati”.
Al tempo stesso, la perdita di egemonia del paradigma antifascista comporta che nel senso comune il passato venga sempre più interpretato secondo concetti e schemi sorti o maturati nel periodo tra le due guerre. È questo l’aspetto regressivo e più preoccupante di tale revisionismo nella politica della memoria di cui la Risoluzione costituisce una delle manifestazioni. In particolare, si perde quel discorso autocritico nei confronti della propria nazione, del proprio passato, che è stata anche all’origine del processo di integrazione europea nel secondo dopoguerra. Invece, si rimette al centro la propria nazione immaginata come vittima e gli “eroi” (perlopiù militari) che hanno combattuto per essa, rimuovendo i momenti autoritari o fascisti della propria storia, e soprattutto l’oppressione esercitata nei confronti dei vari “Altri”. È chiara la regressione rispetto a quella coscienza europea basata sull’(auto)educazione interculturale e sull’(auto)emancipazione dai condizionamenti socioculturali relativi alla propria storia promossa in primo luogo dagli europeisti antifascisti della prima metà del XX secolo e continuata in seguito.
Questa nuova politica della memoria viene generalmente associata ai paesi dell’Europa centro-orientale come la Polonia o gli Stati baltici, tuttavia, come mostrano evidenti analogie con le dinamiche caratterizzanti il Giorno del Ricordo, non è circoscritta ad essi. Né si limita a riflettere semplicemente un “sentire popolare”, ma è stata promossa da soggetti specifici, a cominciare dalla Platform on European Memory and Conscience, un network di istituti patrocinato sin dal 2008 prima dal governo ceco e poi dai governi di Visegrád, con partnership nell’Europa settentrionale e negli USA, che ha al suo attivo la mobilitazione «contro i progetti memoriali troppo cosmopoliti e federalisti della neonata Casa della storia europea a Bruxelles» (p. 148). Il saggio di Lucia Boschetti ripercorre le tappe di un’attività decennale per parificare nazismo e comunismo (pure nella messa al bando dei simboli), perseguita in misura rilevante anche all’interno delle istituzioni europee, specie da parte di eurodeputati del PPE e del gruppo dei Conservatori e dei Riformisti, ma comunque di esponenti di tutti i gruppi politici, ad eccezione del GUE/NGL. In questa prospettiva la Risoluzione ne rappresenta il culmine e il coronamento.
Colpisce la noncuranza di tanti soggetti politici nominalmente antifascisti per le implicazioni di tale politica della memoria, che ha procurato alla Risoluzione un’ampia maggioranza al Parlamento Europeo (Davide Conti parla al riguardo di una «nuova politica di “appeasement” nei confronti della destra regressiva», p. 51). Non è la prima volta che le istituzioni europee imboccano, come in stato di sonnambulismo, strade opposte allo stesso obiettivo di un’«unione sempre più stretta», nell’illusione di “andare avanti”. Ancora una volta – come sempre – il futuro dell’Europa sarà deciso dalla consapevolezza e dall’azione dal basso dei suoi cittadini. Quelli antifascisti.
Francesca Lacaita