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La partita che si gioca nella scuola

di Francesca
Lacaita

di Francesca Lacaita –

Da ormai un mese in Lombardia e da poco meno nel resto del paese la consueta attività didattica in classe è sospesa causa coronavirus. Da allora si è in regime di “didattica a distanza”, dapprima sollecitato, poi imposto dal Ministero dell’Istruzione, e attualmente normato dalla nota 388 del 17 marzo 2020. Tutto questo ha suscitato nel mondo della scuola un dibattito che però stenta a uscire da quei confini e a diventare parte della consapevolezza collettiva. Eppure dobbiamo tutti renderci conto della partita che si sta giocando in questi giorni nella scuola, e se possibile prenderne parte. Perché il suo esito, i suoi vincitori, incideranno in maniera determinante sullo scenario che si aprirà alla fine dell’emergenza. Nonché sulle sorti della sinistra.

Con la prospettiva di un ritorno a scuola rimandato a maggio o addirittura escluso per quest’anno scolastico, è evidente che la “didattica a distanza” resta l’unico modo per stare “vicino” agli studenti e alle loro famiglie, e contenere il danno che provoca la rottura improvvisa e prolungata di relazioni educative, comunitarie e sociali. In questo contesto, che la scuola a distanza non sia “vera scuola” non è altro che un’ovvietà. La questione dirimente è ora invece: si è disposti a riconoscere che siamo in uno stato eccezionale che non può e non deve in alcun modo essere concepito come “normale”, e che quindi ci impone di considerare i problemi posti dall’eccezionalità in maniera pragmatica, caso per caso, e possibilmente con ampie consultazioni? o al contrario si vuole ricostruire la normalità nell’emergenza, imponendo direzioni non condivise che poi costituiranno la “normalità?

Il primo problema è costituito proprio dalla didattica a distanza in sé. Dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che la maggiore criticità è la disuguaglianza di accesso agli strumenti tecnologici e alle connessioni internet. Disuguaglianza determinata non solo, in primo luogo, dalle diverse risorse tra i territori e tra le classi sociali, ma anche, più banalmente, da ostacoli di tipo tecnico, o da legittime scelte individuali su cui è difficile tornare improvvisamente indietro in condizioni di emergenza. Disuguaglianza tra chi ha a disposizione un computer tutto per sé, chi deve contenderselo con i familiari, e chi non ce l’ha affatto, e deve arrangiarsi con lo smartphone. Disuguaglianza tra chi ha la fibra ottica e chi deve lottare con il consumo dei giga. Secondo un articolo del Sole 24Ore, un quarto dei ragazzi è privo di PC o tablet con cui collegarsi da casa. E – particolare che viene spesso colpevolmente dimenticato quando si parla di didattica digitale – in Italia la povertà assoluta incide maggiormente nella fascia di età fino ai 17 anni, con il 12,6% nel 2018. La scuola a distanza accentua le disuguaglianze perché discrimina, in modo molto più inesorabile di quando di trattava di rimediare qualche libro, sia nell’accesso all’istruzione, sia nella sua qualità. Questo dovrebbe costituire la prima preoccupazione di chi si trova a gestire il sistema di istruzione nell’emergenza, nonché di chi lavora nella scuola, e nella stessa opinione pubblica. Non si tratta solo di chiedersi cosa si deve fare per ovviare a queste disparità “digitali”, ma, in primo luogo, se si vuole una scuola che si dia il compito di farsi carico di queste disuguaglianze, o se davanti a queste può tutto sommato restare indifferente.

La nota 388/2020 cerca di ricostruire la “normalità” nell’emergenza senza interrogarsi troppo sul resto. Essa menziona gli aiuti alle «istituzioni scolastiche meno dotate a livello tecnologico» e invita i docenti a sostenere i «colleghi meno esperti». Le uniche disposizioni per garantire l’accesso all’attività didattica tramite le «strumentalità necessarie» riguardano gli alunni con disabilità, con Disturbi Specifici dell’Apprendimento, con Bisogni Educativi Speciali non certificati (ma individuati in precedenza dai consigli di classe), nonché gli alunni ricoverati presso le strutture ospedaliere o, in termini più generici, detenuti in carcere. Figure, queste, già oggetto di specifica attenzione da parte della normativa. Per tutti gli altri, la raccomandazione è di evitare un «eccessivo carico cognitivo» e un’«eccessiva permanenza davanti agli schermi». Si presuppone che tutti siano ugualmente connessi, siano in grado di partecipare ugualmente al «percorso di apprendimento» e siano ugualmente sottoposti ad «attività di valutazione costanti, secondo i principi di tempestività e trasparenza». Queste valutazioni a distanza sono ovviamente l’aspetto più problematico. Come possono rispondere ai criteri di equità e trasparenza? Come potrebbero reggere a un ricorso? Come si chiarisce la questione della loro illegittimità, nel nostro ordinamento? La nota non lo dice.

Negli ultimi decenni la scuola è stata sollecitata, dall’alto e dal di fuori, ad “innovarsi”. In questo discorso dell’“innovazione” (riguardante in primo luogo le tecnologie digitali, ma non solo) spicca la placida indifferenza per le condizioni materiali e strutturali in cui vivono gli alunni e ha luogo il loro apprendimento. Un potente fattore di rimozione è la fiction degli studenti naturalmente “nativi digitali” e tecnologicamente superdotati, con cui quei torpidi dinosauri dei loro insegnanti non sanno più relazionarsi. Ma in generale si presuppone acquiescenza senza domande o discussioni. Sei meritevole se ti adatti, immeritevole se non lo fai. “Merito” e “adattabilità” hanno preso il posto di qualsiasi altra considerazione.

L’ansia di approfittare dell’emergenza del coronavirus per generalizzare e imporre questo tipo di innovazione senza troppe resistenze non si ferma davanti al rischio del cattivo gusto o dell’autoparodia. Scuola a distanza, un’occasione unica per una didattica inclusiva per tutti, è il titolo di un articolo dell’esperta di didattica digitale Maria Vittoria Alfieri pubblicato sul Sole 24Ore del 17 marzo, dove si cerca invano la ragione per cui la scuola a distanza dovrebbe rappresentare «una didattica inclusiva per tutti», a meno di non vederla nell’opportunità di «far appassionare i ragazzi al gioco dell’apprendere e garantire loro una formazione “attuale”, trasmettere i saperi e le competenze che la complessità di oggi richiede» proprio grazie al coronavirus, del quale si dice che «più che di un virus si tratta di un attivatore di consapevolezza». Sul supplemento della stessa testata dedicato all’innovazione e alla tecnologia, il 4 marzo, sotto il titolo Coronavirus: prove tecniche di un nuovo mondo, l’imprenditrice Sara Roversi evoca a proposito di educazione digitale addirittura lo spettro di Darwin: «Se questa calamità avesse drammaticamente accelerato la nostra capacità di dover reagire a dei cambiamenti inevitabili? […] Se dentro questo male, ci fosse un darwiniano effetto indiretto capace di dividere chi sa cambiare e chi invece è più vulnerabile e non va lasciato indietro?» (ah, non va lasciato indietro, menomale). La soluzione però sta nel «mindset»: «Con un mindset da prosperity thinker, da pensatore vocato alla prosperità, possiamo affrontare questa crisi in modo positivo e propositivo. […] E non c’è più tempo per ulteriori interrogativi, ma solo per prendere coscienza che siamo entrati nella decade of action».

Appare evidente come il digitale vada qui ben al di là dello strumento utile per facilitare la didattica nella “normalità” e per far fronte al meglio nel corso di un’emergenza, ma assume i contorni di un’ideologia completamente estranea alle finalità della scuola della Costituzione.

Un altro punto critico è costituito dalle modalità dei processi decisionali. Certamente lo scavalcamento degli organi collegiali durante l’emergenza, già previsto dal Dpcm del 4 marzo 2020 e dalla nota 279 dell’8 marzo 2020, rischia di concretizzarsi anche in seguito nella centralizzazione permanente delle decisioni e nell’affermazione della figura del “preside-manager”, voluta da molti ma che aveva incontrato forti resistenze all’interno della scuola. Soprattutto, si rischia che si instauri un clima da marcia dei “quarantamila”, in cui, con il pretesto di fare l’interesse generale, si demonizza l’idea stessa di divergenza di interessi e di conflitto. «La scuola non è dei sindacati, è degli studenti. Lasciateci lavorare!» recita il titolo di un comunicato dai toni alquanto isterici iniziato da alcuni dirigenti scolastici, dopo che i maggiori sindacati della scuola avevano chiesto il ritiro della nota 388. «VERGOGNATEVI!» (sic!); «È ora di smetterla di trincerarsi dietro il contratto»; «Formazione obbligatoria, per tutti, valutazione per competenze, uso di tecnologie nella didattica. Sono anni che ci riempiamo la bocca con queste parole, adesso è il momento di metterle in pratica, tirarsi su le maniche e fare comunità»; «Lavoriamo e stiamo zitti, invece di alzare la voce per fare retorica»; «E smettiamola una volta per tutte di pensare ai nostri diritti: cominciamo ad adempiere ai nostri doveri», sono alcune delle espressioni di cui è inanellato il testo, che certamente esprime in maniera molto chiara il tipo di rapporti auspicato all’interno della scuola, ma che, prevedibilmente, non dice nulla in merito alla disuguaglianza di accesso alle risorse o alle problematiche della valutazione a distanza, se non, di nuovo, la promessa apodittica che la nota ministeriale consentirà alle scuole di «non lasciare indietro nessuno». Basta la parola.

In effetti, come si vede, la questione va oltre il contratto di lavoro e la contrattazione integrativa. Dato il loro campo di azione necessariamente limitato rispetto alla posta in gioco, non potranno essere da soli i sindacati a contrastare questa deriva e a riaffermare il senso e i valori della scuola della Repubblica. La stella polare della nuova scuola si può identificare nella parola “adattabilità”, per cui molte soggettività faticano a farsi sentire. Manca in particolare, a differenza di qualche decennio fa, la voce degli studenti più svantaggiati o dei loro genitori. C’è bisogno dell’interesse e del sostegno anche di chi non è coinvolto nella scuola in prima persona. Si segnala ad esempio questo appello promosso dal Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti per un monitoraggio indipendente della “scuola a distanza”. Perché la scuola pubblica non venga definitivamente asservita a interessi esterni o a logiche che ne snaturano il carattere e le finalità. Il rischio concreto è, come si legge nell’appello, di «uscire da questa emergenza con una scuola apparentemente più “innovativa” e sostanzialmente più disuguale».

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3 Commenti. Nuovo commento

  • Enza TALCIANI
    26/03/2020 17:11

    Ci vuole molta attenzione e vigilanza, la Scuola non può essere piegata a bassi interessi di cordata!

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  • renata puleo
    26/03/2020 19:31

    Sì Francesca, il rischio è di adattarsi all’Ambiente creato dalla cultura “elettrica” come l’ha chiamata un insegnante di filosofia, preoccupato già anni fa dell’avanzata, proprio in un territorio che avrebbe dovuto regolarne l’accesso, la scuola. Come sappiamo, assumere comportamenti di risposta adattiva agli stimoli di un ambiente chiuso è tipicamente animale, ma l’uomo e la donna sono animali atipici, complessi, capaci di aprirsi al Mondo proprio perché esonerati dagli istinti. Sono capaci di istituire, di parlare e parlarsi per riorganizzare continuamente quel Mondo. Grazie

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  • Carla Campogiani
    29/03/2020 10:03

    Credo che in questo momento di emergenza occorra trasformare la scuola soprattutto facendo adottare a tutti una logica cooperativa e di solidarietà concreta fra alunni, fra insegnanti e fra genitori anzitutto.

    Sì può restare in contatto, fornire conforto, alimentare le speranze e fare poco di più, conta l’esserci nn tanto i contenuti o le competenze che mai come in questo periodo passano dall’osservare, ascoltare, fare la propria parte.

    Ció che deve svilupparsi e restare è lo spirito di squadra, la capacità di accorgersi delle difficoltà di ciascuno. Occorre credo prioritariamente interrogarci su quanto la scuola sia capace di sviluppare cooperazione e solidarietà tangibile ora e sempre.

    Le tecnologie nn sono che uno strumento e come tutti sperimentiamo…con diversi limiti.

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