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I pezzi della guerra mondiale nel libro di Piero Bevilacqua

di Alessandro
Scassellati

Viviamo in tempi cupi e turbolenti, tempi di guerre sanguinarie, atti di terrorismo, massacri di civili e tentativi di genocidio che gettano il mondo attuale in un caos, e, più in generale, di una “guerra mondiale a pezzi” di cui ha parlato da tempo Papa Francesco. Dai media istituzionali e dai social media siamo bombardati quotidianamente di informazioni, in gran parte incomplete, false o manipolate, che non ci aiutano a comprendere quanto sta realmente accadendo nel mondo. Gran parte di noi è spaesato, angosciato e scosso dal succedersi di eventi sempre più catastrofici e violenti. Abbiamo difficoltà a comprendere le interconnessioni tra questi eventi (la “guerra mondiale a pezzi”, appunto) o, irreparabilmente confusi e depressi, ci abbiamo rinunciato da tempo, desintonizzandoci dalla realtà del mondo per rifugiarci nei nostri piccoli mondi, nelle nostre piccole routine e realtà quotidiane.

D’altra parte, quando scoppia un conflitto militare, i media istituzionali presentano la storia come se iniziasse allora e ignorano tutto ciò che è accaduto prima. Il risultato è quello di concentrarsi sul conflitto immediato e ignorare le cause, rendendo molto difficile una comprensione e una soluzione del conflitto stesso. Nei tre anni di guerra in Ucraina, i media istituzionali si sono schierati e hanno dimostrato di essere una efficiente “macchina da guerra”, di saper costruire una prigione in cui hanno rinchiuso le opinioni pubbliche – i cittadini e le élite politiche -, manipolando l’informazione in un incessante lavoro di propaganda, di inganno e di falsificazione dei fatti e della realtà. Sembra che le regole della neutralità dell’informazione sui fatti non si applichino quando si tratta di guerra (soprattutto quando è combattuta da quelli che vengono considerati dei “nostri amici”) e spesso asserzioni del tutto discutibili (e non adeguatamente verificate) sono state riportate come dati di fatto. È prevalsa l’idea di quanto non sia importante ascoltare le voci scettiche e tener distinta la ricerca dei fatti dalla linea editoriale. Per questo tutti coloro – semplici cittadini e intellettuali – che amano la pace e che in Italia sono legati al principio dell’articolo 11 della Costituzione (“l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali…”) sono stati prontamente etichettati come “putiniani”, visti come potenziali traditori dell’Europa e dell’Occidente. Non importa quanto solide fossero (e siano) le loro argomentazioni, sono stati delegittimati come indegni di considerazione e relegati ai margini del dibattito pubblico, di fatto impedendo loro di manifestare la libertà di pensiero.

Lo storico Piero Bevilacqua con il suo ultimo libro, «La guerra mondiale a pezzi e la disfatta dell’Unione Europea» (Castelvecchi, Roma 2025), vuole “marxianamente” andare “alla radice delle cose”, per cui si assume il lodevole e necessario compito di darci una mano ad aprire i nostri occhi e a capire. Vuole “fornire all’opinione pubblica un quadro sintetico [di circa 200 pagine] che l’aiuti, con la comprensione, a superare l’angoscia generata dall’oscurità delle minacce incombenti” (pag. 10). Sostiene giustamente che ormai esiste un’ampia letteratura analitica e storica di specialisti e che quindi c’è un patrimonio di conoscenze che consente “di spazzare via la montagna di menzogne eretta in questi anni con paziente servilismo e stupefacente malafede dai media dell’Occidente”1 che “tendono a confondere o a cancellare le responsabilità dei protagonisti […] sicché la guerra appare una sventura metafisica, un flagello biblico che si ripete” (pag. 10). La narrativa prevalente – articolata in Italia da editorialisti come Paolo Mieli, Ezio Mauro, Ernesto Galli Della Loggia e Federico Rampini, spesso artatamente presentati anche come storici – è pervasa da “un cinismo razzista” che secondo Bevilacqua “è per noi europei un segnale drammatico di uno scadimento di civiltà, di una caduta di senso umano di pietà in un abisso di cui non si vede il fondo” (pag. 11). Per questo invita ciascuno di noi ad adottare il pensiero critico (identificare i pregiudizi e valutare le argomentazioni) e a compiere “uno sforzo supplementare di studio e di analisi, di ricognizione storica, fuori dal proprio specialismo” (pag. 149), o almeno di informazione presso fonti giornalistiche indipendenti.

Nella sua ricostruzione del quadro storico, Bevilacqua sistematizza ed organizza una ricchissima quantità di informazioni e di analisi, utilizzando fonti di prima mano e testi di autorevoli ricercatori e analisti italiani ed internazionali. Concentra la sua analisi solo su due conflitti (dei 56 in corso nel mondo) – quello in Ucraina e quello in Palestina – ma, seguendo l’economista-politico Emiliano Brancaccio2, sostiene che questi, come tanti altri, fanno parte di un conflitto globale capitalista, incentrato sulle convulsioni dell’impero americano ormai da tempo in declino. Con la globalizzazione dispiegata ha perso la supremazia economica, per cui dalla crisi finanziaria del 2008 gli Stati Uniti innalzano barriere commerciali sempre più alte contro paesi competitori e sussidiano le aziende industriali. Un impero gestito da una “democrazia oligarchica” (con una società sempre più finanziarizzata e disuguale, con milioni di poveri abbandonati a se stessi, una classe lavoratrice con salari stagnanti da decenni e il record del numero dei carcerati) che però negli ultimi decenni è stata ancora capace (con circa 800 basi militari in 80 paesi) di assestare colpi micidiali in giro per il mondo, soprattutto nei paesi del Sud globale, con interventi diretti di intelligence, di disinformazione, militari ed economici (come dazi, sabotaggi commerciali e finanziari, finanziamenti segreti, sanzioni ed embarghi) o indiretti (le guerre per procura combattute da alleati e vassalli). Bevilacqua nota amaramente che “in qualunque angolo del mondo un Paese progetti uno sviluppo nazionale autonomo non ha scelte: o si sottomette alla ‘protezione’ degli Stati Uniti o deve temere un rovesciamento del proprio governo da parte delle amministrazioni americane” (pag. 9).

Per questo dedica un intero capitolo all’anticomunismo (e poi al perseguimento della democrazia) come instrumentum regni dell’impero (pp. 54-74) sia nella politica interna come arma di controllo sociale (il maccartismo e il “deep State” del patriottismo, della sicurezza nazionale e del complesso militare-industriale) sia nella politica estera come mezzo per imporre e mantenere il proprio dominio dentro e fuori della propria sfera di influenza stabilita a Yalta nel 1945 (l’anti-sovietismo della Guerra Fredda, le operazioni, spesso segrete, di destabilizzazione contro governi, leader e movimenti politici, più spesso nazionalisti che genuinamente comunisti, in tantissimi paesi, dall’Iran al Guatemala, dall’Indonesia a Cuba, dal Vietnam al Brasile, dal Ghana al Cile, dalla ex Jugoslavia all’Afghanistan, dall’Iraq alla Libia, dalla Siria all’Ucraina). A questo proposito, Bevilacqua cita “Il libro nero degli Stati Uniti” di William Blum (Fazi, Roma 2003) e “Il metodo Giacarta. La crociata anticomunista di Washington e il programma di omicidi di massa che hanno plasmato il nostro mondo” di Vincent Bevins (Einaudi, Torino 2021) che insieme documentano fatti e vicende legati all’esercizio di un potere imperiale che è stato “per ottant’anni una pratica criminale a livello planetario”, “fondata sulla violazione sistematica del diritto internazionale” (pag. 68) e in perfetta continuità – per i metodi violenti e sanguinari di sterminio utilizzati contro le popolazioni civili del Sud del mondo – con le fasi terminali dei grandi imperi coloniali di Gran Bretagna e Francia, crollati (anche sotto la spinta, seppure ambivalente, della politica estera statunitense3) nel secondo dopoguerra4.

La posta in gioco della “guerra mondiale a pezzi” riguarda il dominio planetario del dollaro, moneta di riserva e mezzo di pagamento mondiale delle materie prime, che consente agli Stati Uniti (con solo il 4% degli abitanti della Terra) di avere un debito pubblico federale di 31 mila miliardi di dollari, pari a oltre il 122% del PIL, e quindi di vivere al di sopra delle proprie possibilità (consumando molto più di quanto producono). Ciclicamente espongono i paesi del resto del mondo, soprattutto quelli poveri del Sud del mondo, a shock valutari, risultanti dalla esplosione di bolle finanziarie speculative e dalla gestione dei tassi di interesse da parte della FED, che li destabilizzano ed impoveriscono ulteriormente. “La ‘deriva dei continenti’ che sembra oggi sommuovere la Terra sorge dal moto di placche tettoniche profonde, che sono gli interessi e i bisogni di nuove potenze economiche, di miliardi di persone, contrapposti al dominio degli Stati Uniti. Solo tenendo presente gli interessi planetari che ispirano la condotta dell’impero americano, anche fenomeni tra loro geograficamente più lontani, generati da attori e occasioni diversi, mostrano il loro legame profondo, l’unità rovinosa di una medesima volontà di dominio” (pag. 8).

Secondo Bevilacqua, per ora sono proprio gli Stati Uniti che hanno maggiormente beneficiato dai mutamenti che si sono prodotti nello scenario globale negli ultimi tre anni – dalle fatidiche date del 24 febbraio 2022 e del 7 ottobre 2023 – le deflagrazioni in Ucraina e Palestina che in realtà proseguono storie di conflitti decennali.

Alla Palestina Bevilacqua dedica il capitolo “La Palestina dall’apartheid al genocidio” che ricostruisce la vicenda storica partendo dal Mandato britannico e dal “terrorismo che ha costituito lo strumento, la modalità di lotta con cui i gruppi sionisti hanno fondato lo Stato d’Israele”, battendosi contro i britannici e i palestinesi (pp. 105-128). Nel Medio Oriente, Israele, l’alleato di ferro degli Stati Uniti nella regione, che Bevilacqua definisce “un progetto neocoloniale sotto l’ispirazione dominante di un disegno teologico di pulizia etnica” (pag. 116) guidato da classi dirigenti “nel loro complesso animate da un razzismo spietato e senza pietà” (pag. 122), con il supporto diretto degli Stati Uniti (che fornisce armi, tecnologie, appoggio finanziario e politico, disinformazione e propaganda), ha non solo distrutto Gaza (uccidendo più di 50 mila civili, per due terzi donne e bambini), imposto la pulizia etnica in Cisgiordania e invaso il Libano, ma anche praticamente distrutto la rete di movimenti e gruppi politici appoggiati dall’Iran (un nemico degli USA dalla rivoluzione khomeinista del 1979), creando le condizioni per un cambio di regime in Siria. Un’operazione militare che “costituisce il piano ormai pienamente dispiegato con cui da quasi un secolo i sionisti perseguono il progetto del Grande Israele, dal Giordano al mare” (pag. 121), attenendosi strettamente al libro biblico di Giosuè.

La guerra in Ucraina è stato un grandissimo colpo favorevole per gli Stati Uniti: ha indebolito la Russia, aumentato la dipendenza dell’Europa occidentale dagli USA e favorito i produttori di armi statunitensi. La NATO, da loro voluta e comandata dal 19495, che Macron aveva definito in uno “stato di morte cerebrale” nel 2019, ha inglobato Finlandia e Svezia e si è presentata come difensore dell’Ucraina, un paese invaso, e come guardiano del diritto internazionale. L’Unione Europea “si è spenta come comunità internazionale quando ha ceduto la gestione della politica estera a un’organizzazione militare, la NATO” (pag. 129), controllata dagli Stati Uniti.

Sul piano economico, poi, gli Stati Uniti sono stati i grandi vincitori. L’aumento della produzione di armi da inviare in Ucraina, Israele e ai paesi europei della NATO, ha fornito un importante stimolo alla produzione industriale statunitense che ha consentito di evitare una recessione, anche se vi è stato il temporaneo aumento dell’inflazione causato dallo scoppio della guerra (e questo ha determinato la sconfitta della candidata democratica Kamala Harris alle elezioni presidenziali). Inoltre, gli Stati Uniti hanno guadagnato tagliando, attraverso le sanzioni, la dipendenza della Germania e dell’Europa occidentale dall’energia russa a basso costo, sostituita da energia molto più costosa fornita dagli Stati Uniti. Oltre che a petrolio e gas, l’Europa ha perso anche l’accesso a tante altre materie prime strategiche russe (ferro, uranio, nichel, terre rare, suoli fertili, acque, sterminate foreste). Ciò ha ridotto gli standard di vita, indebolito la competitività manifatturiera, mandando in frantumi il modello di sviluppo tedesco (da oltre due anni la Germania è in recessione), e contribuito a un’inflazione europea più elevata, per cui oggi le famiglie tedesche pagano quasi l’80% in più per il gas rispetto a prima dello scoppio della guerra in Ucraina. L’Unione Europea ha anche perso l’enorme mercato russo in cui vendeva beni manifatturieri e agro-alimentari e che forniva anche opportunità di investimento e crescita. Inoltre, ha perso la spesa di lusso dell’élite russa (gli oligarchi). Questa combinazione aiuta a spiegare l’economia stagnante dell’Unione Europea, per cui il futuro economico del blocco è stato notevolmente compromesso.

 

La sconfitta dell’Unione Europea

L’Unione Europea è stata “la grande perdente, per viltà e pochezza dei suoi governanti” (pag. 11) che non hanno impedito la guerra in Ucraina, schierandosi in sede NATO contro l’espansione a est dell’Alleanza e l’inclusione dell’Ucraina nei suoi ranghi. “Non si sono mossi, […] hanno detto no ai tentativi della diplomazia russa di coinvolgerli in una soluzione pacifica della guerra civile in corso nel Donbass […] hanno ubbidito alle richieste degli Stati Uniti sapendo con tutta evidenza di fare scelte che danneggiavano gravemente i propri Paesi” (pag. 133). Bevilacqua parla di ”miseria servile della politica europea” (pag. 134). Negli ultimi ottanta anni, l’Europa è stata priva di una visione indipendente di politica estera (se si eccettua l’Ostpolitik tedesca intrapresa negli anni ’60 e ’70 e ora condannata). Invece, si è arresa alla leadership degli Stati Uniti, riempiendo il suo apparato militare e di politica estera di persone con una prospettiva favorevole agli Stati Uniti. Tale resa si estese anche alla società civile d’élite (ad esempio, think tank, università d’élite e media tradizionali), e anche il complesso militare-industriale europeo e i leader aziendali si unirono a loro nella speranza di rifornire l’esercito statunitense e ottenere l’accesso ai mercati statunitensi. Il risultato netto è stato che il pensiero di politica estera dell’Europa venne hackerato (ci ha pensato la NATO a guida statunitense) e l’Europa si è trasformata in un vassallo della politica estera degli Stati Uniti, una condizione che perdura ancora. Pertanto, non stupisce che l’élite europea si è immediatamente allineata alla risposta degli Stati Uniti di Biden nel conflitto in Ucraina, nonostante gli enormi costi economici e sociali e nonostante il conflitto riguardasse l’egemonia degli Stati Uniti e non la sicurezza europea.

La resa dell’Europa alla leadership degli Stati Uniti aiuta anche a spiegare la parallela e affrettata espansione verso est dell’Unione Europea. Qualsiasi guadagno economico derivante dal commercio avrebbe potuto essere facilmente ottenuto tramite accordi di libero scambio, che avrebbero anche consentito alle aziende europee di sfruttare la manodopera a basso costo dell’Europa orientale e centrale. Tuttavia, l’espansione dell’UE è stata preferita, nonostante fosse enormemente costosa dal punto di vista finanziario e l’Europa orientale non avesse una tradizione politica democratica condivisa. Questo perché l’espansione ha bloccato i paesi in un’orbita occidentale e ha schiacciato la Russia, completando così l’espansione verso est della NATO.

La mancanza di indipendenza in politica estera ha significato che l’Unione Europea ha sostenuto volentieri l’espansione verso est della NATO guidata dagli Stati Uniti dopo la Guerra Fredda. “Siamo stati noi europei, insieme agli Stati Uniti, a bombardare Belgrado, a mandare soldati in Afghanistan, a massacrare il popolo iracheno, e poi quello libico, quello siriano, ora quello palestinese e libanese. La vulgata della ‘brutale invasione russa’ è la più stolida menzogna con cui l’élite politica europea e la stampa che la serve nascondono una scelta di aperto tradimento degli interessi nazionali e continentali europei a favore di un Paese straniero” (pag. 134).

Nel corso del libro, Bevilacqua si interroga su che cosa ne sarà dell’UE (un’area che invecchia, perde popolazione e si rifiuta di accogliere i migranti che “vengono perlopiù da Paesi che l’Europa ha saccheggiato per secoli come proprie colonie, o ha destabilizzato di recente con le guerre promosse dalla NATO per affermare la pax americana”, e che continua a mercificare e distruggere la natura attraverso una relazione estrattiva; pp. 135-139), su quale ruolo possa ancora avere per un assetto internazionale di pace e se si possa ancora ricomporre un fronte politico riformatore in Europa e in Italia.

 

Il mancato crollo della Russia

La Russia non è crollata sotto il peso delle sanzioni, come invece sosteneva l’intera stampa occidentale. Bevilacqua sottolinea come dopo un periodo iniziale di difficoltà sia tornata a crescere a ritmi sostenuti. Il gruppo dirigente russo ha trasformato l’isolamento dall’Occidente (non certo da Cina, India e altri paesi BRICS+ e del Sud del mondo che non hanno applicato le sanzioni contro la Russia) ”in occasione e leva per una dinamica riconversione dell’economia. Poiché la Russia non poteva più comprare dalla Germania i prodotti industriali e tecnologici, o i beni alimentari dall’Italia, in cambio di petrolio e gas, ha cominciato a produrseli in casa propria attraverso facilitazioni statali alle imprese private” (pag. 14).

Per Bevilacqua, Vladimir Putin non è il nuovo Adolf Hitler che personifica il male come sostenuto dai media istituzionali euro-americani (“una tecnica di delegittimazione per giustificare i regime changes messi in atto dagli Stati Uniti nei vari angoli del mondo”; pag. 76)6. Piuttosto, seguendo Emmanuel Todd, lo considera il leader di “una democrazia autoritaria” che tiene conto degli interessi delle masse popolari. Riconosce a Putin “la sua dimensione di statista” (pag. 76), attribuendogli il merito di aver tratto la Russia fuori dal decennio di umiliazioni, anarchia, insicurezza, fallimento economico e povertà di massa di Yeltsin, ricostituendo il potere dello Stato centrale (vis-à-vis quello degli oligarchi, del terrorismo nelle regioni del Caucaso e della corruzione dilagante nelle istituzioni) e un assetto economico capitalistico che non è certo solo fatto di un’economia di guerra.

Inoltre, la Russia ha cementato la sua alleanza strategica con la Cina, il grande avversario economico e geopolitico degli Stati Uniti. “I due Paesi hanno economie complementari. La Russia è uno sterminato deposito di materie prime, che ha uno sbocco commerciale naturale in Cina, reso possibile da infrastrutture di trasporto via terra sicure (ferrovie, oleodotti, gasdotti). Ma il Paese russo possiede know-how militare che alla Cina diventa sempre più necessario man mano che gli Stati Uniti innalzano il livello delle minacce. Mentre all’immensa popolazione cinese può offrire i prodotti della sua agricoltura. Dunque la Cina ha sostituito in buona parte l’Occidente per tanti prodotti fondamentali mentre ha allargato alla Russia l’esportazione dei propri beni a buon mercato e la propria avanzatissima tecnologia” (pag. 16).

Russia e Cina sono anche i due paesi guida dei BRICS+ che puntano a dare vita ad un nuovo ordine mondiale multilaterale, meno iniquo dell’attuale ordine unilaterale (plasmato e dominato dagli USA), pacifico, paritario e basato sulla reciproca cooperazione economica. In sostanza, Russia e Cina hanno dato vita ad un’alleanza strategica che avrebbe portato Xi Jinping, incontrando Putin, ad affermare: “Siamo di fronte al più profondo mutamento degli ultimi 500 anni [la lunga storia del colonialismo euro-occidentale] e siamo noi a guidarlo”.

 

Le responsabilità della guerra in Ucraina

Per ricostruire un quadro storico ed interpretativo della guerra tra Russia e Ucraina, Bevilacqua utilizza i lavori di analisti come Emmanuel Todd, Jacques Baud, Bruno Drweski, Elena Basile, Benjamin Abelow, Alberto Brandanini e altri. La ricostruzione è di “lunga durata” e parte dalla caduta del Muro di Berlino nel 1989 e dal crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. La sua tesi, suffragata da fonti e dati, è che gli Stati Uniti hanno agito in Ucraina con l’intenzione di bloccare lo sviluppo economico dei paesi euroasiatici, ossia per cercare di evitare la saldatura tra l’Europa occidentale, la Russia, l’Asia centrale e la Cina. Bevilacqua cita Bruno Drweski7 che afferma: “se i confini fossero aperti, gli Stati Uniti diventerebbero una potenza periferica rispetto all’Asia e all’Europa. Quindi Russia, Ucraina, Bielorussia, Iran e Turchia sono territori chiave per il futuro del mondo, dove è in gioco l’equilibrio di potere tra gli Stati Uniti e i suoi alleati occidentali e la Cina con i Paesi del Sud del mondo” (pag. 31).

Questo obiettivo si è intrecciato con la “dottrina unipolare” dei neoconservatori statunitensi che ha cercato di creare un nuovo ordine mondiale unipolare in cui gli Stati Uniti sarebbero stati egemoni e nessun paese avrebbe potuto sfidarli, come aveva fatto l’Unione Sovietica8.

Ciò ha comportato “il tradimento americano” di Gorbachev che auspicava la creazione di “una casa comune europea” da Vladivostok a Lisbona e che aveva raggiunto accordi informali con i governanti euro-americani (il presidente George H.W. Bush, il cancelliere tedesco Helmuth Khol e il segretario generale della NATO Manfred Wörner, tra gli altri) in base ai quali – dal momento che si abbatteva il Muro di Berlino e l’ex Germania comunista veniva assorbita dalla Germania occidentale, finendo nella sfera di influenza della NATO – l’Alleanza Atlantica non si sarebbe estesa verso l’Europa orientale. Il “patto d’onore” venne ben presto violato dagli Stati Uniti con l’espansione ad est della NATO, sostenuta volentieri dall’Unione Europea. Le implicazioni aggressive e pericolose erano state notate da George Kennan, autore della dottrina del contenimento della Guerra Fredda, in un editoriale del New York Times del 1997 intitolato “Un errore fatale”. Ma per i neoconservatori statunitensi, l’espansione della NATO era facilmente comprensibile. La Russia non era stata sconfitta militarmente e costretta ad arrendersi incondizionatamente (come la Germania e il Giappone), e i neoconservatori la consideravano una minaccia continua all’egemonia globale degli Stati Uniti, in un proseguimento della Guerra Fredda.

L’espansione della NATO ad est ha rafforzato la posizione militare e geopolitica degli Stati Uniti e indebolito quella della Russia. Secondo il piano generale delineato dall’ex consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti Zbigniew Brzezinski9, ciò comportava un processo in tre fasi. Il primo passo fu l’espansione verso est della NATO per includere gli ex paesi del Patto di Varsavia (nel 1999 Ungheria, Cecoslovacchia e Polonia; nel 2004 Bulgaria, Lettonia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Romania, Lituania ed Estonia; nel 2009 Albania e Croazia; nel 2017 Montenegro e nel 2019 Macedonia del Nord). Il secondo passo era un’ulteriore espansione della NATO per includere le ex repubbliche sovietiche (Ucraina e Georgia con il Memorandum di Bucarest del 2008 e poi anche la Bielorussia). Il terzo passo avrebbe completato il processo frazionando la Russia in una miriade di piccoli Stati su base etnica.

Per quanto riguarda l’Ucraina, Bevilacqua ricostruisce dettagliatamente i fatti storici, dalle elezioni del 2004 vinte dal filorusso Viktor Yanukovyc e che portano alla prima piazza Maidan, la rivoluzione arancione, “fomentata, preparata e finanziata dagli Stati Uniti che fanno leva sull’animosità antisovietica e antirussa delle regioni occidentali” (pag. 39). Dopo un mese, la Corte Suprema annulla il risultato elettorale e indice nuove elezioni che questa volta vengono vinte dal candidato filo-occidentale Viktor Yushchenko che avvia quel processo che i russi hanno definito della “nazificazione” dell’Ucraina, con leader politici russofobi di estrema destra e apertamente nazisti che assumono posizioni istituzionali di responsabilità nel governo del paese e la riabilitazione come eroe nazionale del fascista ucraino collaborazionista nazista Stepan Bandera che aveva contribuito ai massacri degli ebrei ucraini e polacchi10. Poi, nel 2010 Yanukovyc vince nettamente le elezioni e privilegia il sostegno della Russia. “Questa scelta fa accelerare all’interno dell’amministrazione americana il progetto di regime change, una guerra civile destinata a rovesciare il presidente filorusso” (pag. 41). Una vicenda che porta al colpo di Stato del 2014, orchestrato dalla vice del ministro degli esteri statunitense John Kerry, con delega speciale per l’Eurasia, Victoria Nuland11.

Yanukovyc viene deposto e costretto ad abbandonare il paese. Al suo posto viene nominato Petro Poroshenko e da qui in avanti scatta in grande stile una campagna per uccidere gli ucraini filo-russi e russofoni come anche filo-romeni, filo-ungheresi e pro-Tatari. A due mesi dal colpo di Stato, nel marzo 2014, i cittadini russi della Crimea, che costituiscono il 98% della popolazione, decidono, con un referendum indetto dal parlamento della Repubblica (vinto con il 97%), la reintegrazione nella Federazione russa. Un passo che ha provocato la reazione di Kiev e di gruppi nazionalisti ucraini di destra, con aggressioni, scontri armati ed eccidi (come quello della Casa del sindacato di Odessa con decine di morti) della popolazione russofona. Anche le province di Luhansk e Doneck, il cosiddetto Donbass, scelsero la strada del referendum, ma “i risultati del referendum non poterono neppure essere presi in esame perché arrivò l’esercito e prese a bombardare la popolazione” (pag. 44), uccidendo e ferendo circa 14 mila persone. A protezione dei civili intervenne l’esercito russo e Mosca inviò armi ai ribelli. Nel 2015 si stila un accordo a Minsk, mediato da Francia e Germania e approvato con una risoluzione dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che prevede un cessate il fuoco tra le parti, una relativa autonomia della regione (sul modello del Sud Tirolo) e punti di garanzia reciproca e di equilibrio tra Ucraina e Russia che avrebbero dovuto normalizzare la situazione in Ucraina, scongiurando un allargamento del conflitto. Com’è noto, nel 2022, sul quotidiano tedesco Die Zeit, Angela Merkel, ha rivelato apertamente che quegli accordi erano una finzione, perché servivano a “dar tempo all’Ucraina di armarsi”. Ammissione, poi confermata anche dall’ex presidente della Repubblica francese, Franҫois Hollande. Infatti, né Poroshenko né Zelensky, a lui succeduto, lo hanno mai messo in atto.

Subito dopo il colpo di Stato del 2014, il nuovo governo ucraino ha annunciato pubblicamente che l’Ucraina avrebbe chiesto di essere accolta nella NATO, mentre nel 2017 il parlamento di Kiev ha votato una legge che stabiliva l’ingresso nella NATO come priorità per la politica estera ucraina. Il 17 febbraio 2019 il parlamento approva dei cambiamenti alla Costituzione per proseguire l’iter e conferma il percorso verso l’ingresso nell’Unione Europea e nella NATO. Nel giugno 2021, in un summit a Bruxelles, i vertici della NATO confermano pubblicamente che il paese viene inserito nella procedura di adesione.

Allo stesso tempo, nel 2019 l’amministrazione Trump decide di ritirarsi unilateralmente dal trattato sui missili nucleari a raggio intermedio, accrescendo la vulnerabilità russa a un primo attacco statunitense. Missili che ora potevano essere piazzati sulle rampe di lancio di Polonia, Estonia e altri paesi atlantici intorno alla Russia. Inoltre, sempre nel 2019, il think-tank filo-Pentagono, la Rand Corporation, pubblica il rapporto Overextending and unbalancig Russia (Sovraccariccare e destabilizzare la Russia) che racconta che dal 2014 gli USA stanno armando l’Ucraina e definisce le possibili mosse a tutto campo anti-russe degli Stati Uniti: fornire armi letali all’Ucraina, riprendere il sostegno dei ribelli siriani, promuovere un cambio di regime in Bielorussia, sfruttare le tensione armene e azere, intensificare l’attenzione all’Asia centrale e isolare la Transnistria. Il rapporto è “un piano completo in tutti i suoi aspetti, militari, politici, economici, finanziari, giuridici, propagandistici, che punta deliberatamente al crollo della Russia per determinare la scomposizione dell’intera Federazione in una miriade di Stati autonomi” (pag. 47).

In tutti questi anni, sono rimaste inascoltate le preoccupazioni reiteratamente espresse dai russi riguardo all’espansione a est della NATO. Putin, in occasione della 43ᵃ Conferenza di Monaco sulla sicurezza (10 febbraio 2007), aveva invocato un nuovo ordine mondiale che non minacciasse i confini della Russia. Negli anni successivi si è rivolto spesso all’opinione pubblica internazionale, soprattutto agli europei, con continue accorate esortazioni. Nella conferenza stampa del 23 dicembre 2021 aveva affermato: “Abbiamo chiaramente detto che ogni ulteriore movimento della NATO verso est è inaccettabile. Non c’è niente di poco chiaro, al riguardo. Noi non stiamo mettendo i nostri missili ai confini degli USA, mentre gli USA stanno piazzando i loro missili vicino a casa nostra. Stiamo chiedendo troppo? Cosa c’è di strano in questo?”. Ma il processo di inserimento dell’Ucraina nella NATO non si è fermato. A vuoto è andato anche l’ultimo appello di Putin alla vigilia dell’invasione dell’Ucraina, l’8 febbraio 2022: “Lo voglio sottolineare ancora una volta […] che finalmente mi ascoltiate e lo comunichiate al vostro pubblico su stampa, tv, internet. Vi rendete conto che se l’Ucraina entra nella NATO e cerca di riprendersi la Crimea per via militare, si troveranno automaticamente coinvolti in un conflitto militare con la Russia? Non ci saranno vincitori”. La richiesta fondamentale di Putin, il leader di un paese da anni accerchiato dall’Occidente, era che l’Ucraina rimanesse un paese neutrale (non entrasse nella NATO), ma venne sdegnosamente rifiutata da Zelensky e soprattutto da Biden, per cui la Russia correva il rischio che missili balistici con testata atomica venissero collocati ai propri confini. Poi, il 24 febbraio 2022 l’esercito russo attraversa i confini dell’Ucraina, dando avvio all’”operazione militare speciale”, mentre “gli ucraini, che dal 2014 avevano scatenato una guerra contro l’elemento russofono nelle regioni orientali, vengono trasformati in protagonisti di una resistenza patriottica, difensori dell’integrità del proprio Paese, l’argine della democrazia europea contro il brutale imperialismo russo” (pag. 100).

 

La fuga dalla realtà dell’establishment europeo e la morte dell’Unione Europea

Per oltre tre anni, un leader europeo dopo l’altro ha affermato la necessità di perseguire la “vittoria militare” dell’Ucraina, il che era irrealistico fin dall’inizio12. L’incapacità degli Stati europei di prendere serie iniziative diplomatiche per un cessate il fuoco sta ora costando caro. Ma invece di imparare dalla debacle, ora che Trump ha preso atto della sconfitta sul campo dell’esercito ucraino e sta prendendo unilateralmente l’iniziativa di negoziare direttamente con la Russia13, parti dell’establishment europeo vogliono rafforzare la strategia fallita, prolungando la guerra a ogni costo14.

Gli europei sostengono che l’America di Trump non sta negoziando una pace “giusta” (in sostanza, la sconfitta della Russia) ma una resa, una capitolazione dell’Ucraina perché accoglierebbe le richieste di Putin: l’Ucraina deve adottare uno status neutrale, riconoscere l’annessione da parte della Russia della Crimea e delle quattro regioni parzialmente occupate nel sud-est, ridurre drasticamente le sue capacità militari, cessare ogni cooperazione militare con la NATO e i suoi Stati membri, per cui ha insistito sul fatto che la presenza di truppe occidentali come peacekeeper sarebbe inaccettabile, e impedire ai “nazionalisti ucraini” di partecipare alla vita politica. Questo anche se per ora Trump sta negoziando un cessate il fuoco (che Putin ha già detto non accetterà mai) e non ancora la pace15. I governanti dei paesi dell’Unione Europea non vogliono assumersi le loro responsabilità della loro sconfitta e di quella dell’Ucraina, le cui popolazioni e forze armate sono state utilizzate come “carne da cannone” per una guerra contro la Russia che non sarebbe mai dovuta cominciare se solo si fosse dato ascolto alle preoccupazioni reiteratamente espresse dai russi riguardo all’espansione a est della NATO.

Gli stessi leader politici ed istituzionali che ieri sostenevano che la vittoria su Mosca era imminente, oggi affermano che Mosca potrebbe essere “sulla Grand Place di Bruxelles domani” o addirittura a Lisbona a meno che non ci riarmiamo urgentemente. L’argomentazione è che la potenza della Russia rappresenta una minaccia esistenziale per l’Europa centrale e orientale, il che conferisce credibilità all’accusa di espansionismo (o imperialismo) russo. Non esiste algebra che possa confutarla, ma i risultati sul campo di battaglia (con le manifeste difficoltà russe ad avanzare speditamente attraverso la linea del fronte ucraino) suggeriscono il contrario. Lo stesso vale per una valutazione della base economica della Russia, che è piccola rispetto a quella dei paesi NATO (il PIL della Russia non è più grande di quello del Benelux – Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo messi insieme), e, come giustamente nota Bevilacqua, la Russia ha anche una popolazione in declino e che invecchia per cui non riesce neanche a popolare adeguatamente (con circa 144 milioni di abitanti) gli oltre 17 milioni di chilometri quadrati russi (l’Unione Europea ha 449 milioni di abitanti in 4 milioni e 233 mila kmq).

L’espansione verso est della NATO e dell’UE ha significato che queste istituzioni ora includono paesi – ad esempio, la Polonia e le repubbliche baltiche – con una profonda e attiva animosità verso la Russia, il che li rende accaniti sostenitori del bellicismo militarista. All’interno della NATO, anche prima dell’intervento militare della Russia in Ucraina, la Polonia ha accolto con favore lo stazionamento di strutture missilistiche statunitensi che potenzialmente rappresentano una grave minaccia per la sicurezza nazionale russa. Allo stesso modo, e prima dell’intervento in Ucraina, le Repubbliche baltiche hanno sostenuto con insistenza lo stazionamento di maggiori forze NATO sul loro territorio.

Per quanto riguarda l’UE, ha nominato intenzionalmente, via accordi intergovernativi con ratifica del parlamento europeo, dei russofobi in posizioni di responsabilità istituzionale come la presidente della Commissione Ursula von der Leyen che ora, oltre a promuovere il riarmo di uno dei continenti più armati al mondo in funzione anti-russa16, auspica di trasformare l’Ucraina in un “porcospino d’acciaio” super armato di droni e missili a lungo raggio. La nomina più recente in tal senso è quella dell’estremista nazionalista estone Kaja Kallas, a cui è stata affidata la responsabilità degli affari esteri e della politica di sicurezza dell’UE. Kallas ha apertamente auspicato la frammentazione della Russia in decine di Stati etnici ed è stata una fervente sostenitrice delle politiche anti-etniche russe quando era primo ministro dell’Estonia. A fianco alla Kallas poi c’è il lituano Andrius Kubilius, commissario per la Difesa e lo Spazio, un nuovo ruolo istituzionale che ha sostituito quello degli Affari Sociali.

Sia il presidente Macron che il primo ministro Starmer stanno ora parlando di inviare unilateralmente forze militari francesi e britanniche in Ucraina (una “forza di rassicurazione”). Ciò promette di intensificare massicciamente il conflitto e riecheggia la stupidità degli eventi che hanno portato l’Europa alla prima guerra mondiale. Il governo laburista di Starmer sta parlando di una “coalizione dei volenterosi”, apparentemente ignaro del fatto che il linguaggio si riferisce all’invasione illegale dell’Iraq guidata dagli Stati Uniti nel 2003 alla quale Germania e Francia si rifiutarono di partecipare (uno dei rari casi di contrasto tra gli Stati Uniti e una parte dei loro alleati europei e per questo etichettati come la “vecchia Europa”).

Nel frattempo l’Unione Europea, con la benedizione dell’establishment politico europeo, per garantire la sicurezza e la deterrenza in una NATO e in un’Europa post-americana (caratterizzata dal disimpegno statunitense motivato da ragioni finanziarie e geo-strategiche: liberare risorse per impiegarle in Asia, in funzione anti-cinese), sta spingendo per un enorme piano di spesa militare da 800 miliardi di euro del ReArm Europe (o “Readiness 2030”) che sarà finanziato (almeno in parte, per 150 miliardi) tramite obbligazioni (debito comune) con l’obiettivo di contrastare due “nemici strategici”, Russia e Cina (oltre a Corea del Nord, Iran e paesi imprecisati dell’Africa). Una scelta che non è stata votata dal parlamento UE ma che è stata decisa con una richiesta di spesa dirottata da altre direzioni come coesione e sviluppo regionale, welfare e infrastrutture. La facilità con cui quel denaro è stato presentato la dice lunga sul carattere dell’UE. Il denaro per il “keynesismo militare” è facilmente disponibile, ma il denaro per le esigenze della società civile – servizi, welfare, sanità, pensioni, reddito di cittadinanza, accoglienza e integrazione dei migranti, oltre a salari, lavoro e istituzioni locali – non è mai disponibile per motivi di responsabilità fiscale (l’austerità imposta dal “patto di stabilità e crescita”). Anche Gran Bretagna, Germania17, Polonia (con una spesa militare pari al 4,7% del PIL per il 2025, gran parte destinata ad armi e sistemi di difesa missilistica americani), Danimarca e altri paesi hanno proposto una propria maggiore spesa militare. Invece, Francia, Italia, Portogallo e Spagna respingono il piano di difesa basato sul debito di Von der Leyen: chiedono di incrementare la spesa militare tramite sovvenzioni anziché prestiti europei (consentendo agli Stati membri di aumentare temporaneamente la spesa per la difesa dell’1,5% del PIL in quattro anni), per evitare di aumentare il loro già elevato debito pubblico.

La svolta militare-keynesiana potrà avere effetti macroeconomici positivi (“sgocciolerà” una crescita economica, dopo due anni di stagnazione/recessione) ed è sostenuta dal complesso militare-industriale europeo (concentrato in Germania, Francia e Italia, oltre che in Gran Bretagna, con aziende come Rheinmetall, Dassault, Leonardo, BAE Systems) che ne trarrà un grande beneficio. Tuttavia, produce armi, non burro. Peggio ancora, promette di bloccare un’economia guidata dalla guerra che esaurisce lo spazio della politica fiscale, non lasciando spazio a una maggiore spesa pubblica per scienza e tecnologia, istruzione, sanità, edilizia pubblica e infrastrutture, che sono ciò che genera vera prosperità. Il rischio è che all’aumentare del giro d’affari dell’industria bellica corrisponda una stagnazione sociale e una recessione economica generale. Inoltre, la svolta militare-keynesiana avrà conseguenze politiche negative, poiché rafforzerà la posizione politica e il potere del complesso militare-industriale e di coloro che sostengono il militarismo. La celebrazione del militarismo si riversa anche nel pensiero degli elettori, promuovendo sviluppi politici reazionari più ampi.

Oggi, l’Unione Europea si trova di fronte a una situazione di disastro incombente nella quale non riesce a prendere la decisione giusta perché non si discute delle cose che veramente contano e che hanno a che fare con la realtà reale e non con una realtà immaginata (o immaginaria), in particolare con una visione manichea della realtà che non ammette alternative, un “pensiero unico” dell’establishment che postula e si illude che vi sia un consenso popolare (o quanto meno una passività) per le proprie folli posizioni militariste. Ridurre ulteriormente lo stato sociale europeo per costruire una “economia di guerra” (come proposto dal rapporto Draghi e dai vertici della Commissione Europea) danneggerà un continente già ferito, e ottenere sostegno per le crescenti ambizioni di una postura militarista sarà molto problematico, soprattutto perché risultati elettorali e sondaggi suggeriscono che il sostegno pubblico alla spesa per armi ed eserciti è in calo.

Gli effetti economici negativi della guerra ucraina hanno contribuito a un inasprimento dell’umore politico che aiuta a spiegare l’ascesa della politica proto-fascista soprattutto in Germania. La minaccia alla democrazia europea deriva dal fatto che “si è spezzato il vincolo di fiducia tra governanti e governati” (pag. 141). Gli elettori della classe lavoratrice e dei ceti popolari – orma rimasti senza tutela, rappresentanza e supporto organizzativo – stanno gradualmente intuendo di essere stati traditi. Stanno sopportando enormi costi economici a causa di un conflitto che non è nel loro interesse e dell’applicazione decennale dell’ideologia neoliberista – che chiede austerità, privatizzazione e smantellamento dei servizi pubblici, precarietà del lavoro e bassi salari (lavoro povero), riduzione delle proteste e del potere dei parlamenti, dei partiti popolari e dei sindacati, deregolamentazione e riduzione delle tasse per i ricchi e le grandi aziende – da parte di governi di centro-destra e di centro-sinistra che ha svuotato progressivamente la democrazia18. Il che contribuisce a spiegare la loro rivolta contro l’establishment politico ritenuto responsabile del fallimento del “sogno” neoliberista e socialdemocratico (quello che prometteva libertà e eguaglianza di opportunità) su cui sono stati fondati sia l’Unione Europea reale di Maastricht sia il primato dell’Occidente. Con la sinistra che soffre di rigor mortis, l’estrema destra è l’unica sponda verso la quale quegli elettori possono approdare.

L’establishment politico europeo ha fallito a livello sia nazionale sia del progetto europeo – la UE reale non è quella federalista del manifesto di Ventotene, ma quella di Maastricht, un trattato iperliberista basato sulla piena libertà dei mercati e della finanza e sulla condanna dell’intervento pubblico nell’economia (“lo Stato non è la soluzione, ma il problema” diceva Ronald Reagan), che ha operato come strumento della lotta di classe rovesciata, per l’aggressione contro la società, per la precarizzazione e la sottomissione del lavoro – e ora è diretto a schiantarsi sugli scogli. Il suo abbraccio sempre più aperto per il nazionalismo militarista e l’economia di guerra è un tentativo cinico e disperato di guadagnare tempo e di cercare di salvare se stesso.

Bevilacqua ritiene che la costruzione dell’Unione Europea “rappresenta una sottrazione di democrazia aggiuntiva a quella costituita dai processi materiali di emarginazione dei cittadini, e in primo luogo dei ceti popolari, dalla vita pubblica e dalle decisioni di governo”. L’UE, “che pure era opera di creazione politica, una delle più ardite invenzioni istituzionali mai realizzata in tempo di pace” (pag. 162), con la connivenza attiva di governi di centro-sinistra, è stata catturata dal progetto neoliberista che postula “la più o meno completa subordinazione dello Stato, il potere politico pubblico, alle economie private” (pag. 142), ai gruppi e alle forze economiche e finanziarie19. Un progetto  che è diventato un “piano di controllo sistemico della classe operaia e dei ceti popolari” (pag. 180) che ha favorito il passaggio verso società governate da “oligarchie liberali”. Bevilacqua sostiene che dopo le due sonore bocciature, nel 2005, del Trattato che istituisce la Costituzione europea da parte del parlamento olandese e di quello francese, “a Bruxelles si è preferito evitare di chiedere il parere dei cittadini nell’edificare il mostro burocratico che privava gli europei di una quota progressivamente rilevante di potere” (pag. 141), il potere regolatore della politica democratica degli Stati nazionali e dei partiti popolari (non a caso, ormai trasformati in partiti personali che operano “dentro il mercato della politica”). Quello che oggi è evidente è che “la struttura stessa dell’Unione è tale da tagliare fuori la volontà dei cittadini”, costruita come una sfera protetta, al riparo delle richieste degli elettori e dei loro rappresentanti, come aveva già notato il politologo Peter Mair qualche anno fa. L’Unione Europea reale è una istituzione sovranazionale top-down, verticistica e tecnocratica che si sovrappone agli Stati nazionali democratici, è del tutto priva di una vera legittimità democratica – è priva della classica divisione tra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario enunciata da Montesquieu che è la caratteristica basilare delle democrazie liberali – e opera con procedimenti decisionali in larga parte resi opachi, se non addirittura oscuri, dalle dinamiche intergovernative.

Un processo che ha portato anche al declino e alla scomparsa dei partiti popolari e socialdemocratici europei, “che avevano portato nello Stato borghese i bisogni e i diritti dei ceti subalterni” (pag. 142). Hanno perso il loro radicamento sociale avallando una restrizione della democrazia rappresentativa frutto della “dissoluzione della società” – ossia di quel patrimonio di legami, relazioni, culture, tradizioni, simboli, sentimenti che per millenni avevano tenuto insieme gli individui, pur nelle diversità e nei reciproci conflitti – che Bevilacqua considera “la più grave distruzione operata dal capitale dopo quella del mondo naturale” (pp. 142-143). La “società liquida” evocata da Zygmunt Bauman rappresenta il ritratto della dissoluzione delle società euro-americane frutto della mercificazione di tutte le dimensioni sociali (compreso l’assoggettamento al “mercato” dell’istruzione scolastica ed universitaria) e della trasformazione dei cittadini in produttori-consumatori, in “solitari individui” e “scarti” (un termine ampiamente utilizzato anche da Papa Francesco). Una trasformazione che, secondo Bevilacqua, è un tradimento degli ideali dell’Illuminismo e della parte migliore della storia europea caratterizzata dalla “capacità di immaginare, di concepire utopie, forme nuove di società” (pag. 145). Essendo i gruppi dominanti europei divenuti nichilisti (per cui tutto è lecito, niente è più sacro) e avendo quindi perduto la loro proiezione utopica nel futuro, dato che sono “capaci di immaginare solo accumulazione di denaro e crescita di dominio”, ora sono in grado di “promettere solo la guerra” (pag. 146).

 

L’alternativa c’è, almeno per l’Italia

Per Bevilacqua l’Europa reale è irriformabile (non ci sono le forze politiche per una riforma dei trattati), per cui nell’ultimo capitolo tenta “di immaginare strategie possibili per invertire il corso di una regressione che non è soltanto economica e sociale” (pag. 169) dell’Italia. Innanzitutto, avanza alcune proposte che auspica siano accolte da una forza politica (di opposizione) autenticamente riformatrice (un riformismo anticapitalista perché “da quando la sinistra ha abbandonato l’analisi del capitalismo e delle sue incessanti metamorfosi essa non ha più compreso la direzione della Storia”; pag. 187):

  • una riforma radicale del sistema fiscale (attualmente gravemente sbilanciato a favore del capitale e della rendita finanziaria rispetto al lavoro) caratterizzata da una progressività, “condizione non solo di giustizia, ma leva importante per una più equa redistribuzione della ricchezza, per attenuare le gravi disuguaglianze che lacerano il Paese e ridare dinamismo all’economia e alla società” (pag. 169). Una riforma del fisco che sia capace di garantire la ripresa del welfare e arrestare la deriva oligarchica del Paese. Una riforma che riveda le aliquote e che soprattutto tassi la ricchezza patrimoniale di quei ricchi e super ricchi che negli ultimi 30 anni sono stati premiati in tutti i modi, a partire dalla riduzione delle aliquote per arrivare all’esenzione fiscale per i beni ereditati e anche alla impunità per l’elusione e l’evasione fiscale;
  • una riforma del sistema elettorale maggioritario (quello attuale con cui andiamo a votare è illegale: è stato bocciato per tre volte dalla Corte Costituzionale perché conferisce un carattere oligarchico alla rappresentanza politica), ripristinando un sistema proporzionale che consentirebbe la rappresentanza di tante culture politiche ormai esangui (e di milioni di cittadini che si astengono alle elezioni), ma che fanno parte della storia politica nazionale;
  • una radicale riforma dei partiti politici (ora in gran parte trasformati in macchine elettorali al servizio dei loro capi), dal loro disciplinamento in regole certe di democrazia interna e soprattutto dalla loro separazione dalle strutture dello Stato;
  • un progetto per la politica migratoria che rilanci i temi dell’accoglienza e integrazione dei migranti in un quadro strategico di cooperazione internazionale con i paesi del Sud del mondo. Per Bevilacqua la migrazione è stata una delle carte utilizzate dalle destre per aprire la guerra dei poveri, per governare il neoliberismo: l’odio per lo straniero (diventato un capro espiatorio: “i migranti che ci rubano il lavoro”, che distoglie l’attenzione dal fatto che sono gli imprenditori che pagano salari di fame e che i governanti non adottano politiche per l’occupazione) nasce dalle periferie degradate delle città e dalla voluta assenza di qualsivoglia politica pubblica di integrazione. Dunque, per sviluppare una politica migratoria nuova (necessaria anche per cercare di contrastare il calo demografico e l’invecchiamento della popolazione italiana) si deve investire nell’integrazione, combattere il precariato, lo sfruttamento para-schiavistico dei lavoratori e puntare su accordi di sviluppo e politica dei flussi con i paesi mediterranei e africani (la popolazione dell’Africa ha una età media di 19,7 anni). D’altra parte, l’Italia spopolata, soprattutto quella delle colline, delle montagne e dei borghi storici, ha bisogno di aiuto, ha bisogno del lavoro e dell’energia vitale dei migranti, magari sostenuti da un reddito di “presidio ambientale”. Nel lungo periodo solo questo incontro, come tante volte è accaduto in passato, è in grado di risollevare il destino di declino di circa il 70-80% del paese (dove ancora oggi esiste l’agricoltura più ricca di biodiversità e di varietà d’Europa) che al momento sembra ineluttabile;
  • un rilancio della centralità dello Stato-nazione (attualmente minacciato in Italia dal progetto politico secessionista dell’autonomia differenziata): per Bevilacqua l’Europa reale (quella di Maastricht) è irriformabile, è necessario riannodare il legame spezzato con le classi popolari e recuperare l’internazionalismo anti-capitalista dei lavoratori contro l’Europa neoliberista, che è ostile verso lo Stato-nazione ed esiste solo in funzione del suo asservimento alla NATO. Al tempo stesso, non si può lasciare la politica di risveglio nazionale alle destre, bisogna recuperare quindi anche una cultura nazional-popolare (evocata da Gramsci e Togliatti senza rinunciare all’universalità del comunismo) a partire dalla difesa della lingua italiana. Non si può accettare per provincialismo la colonizzazione linguistica anglofona, bisogna sapere due, tre, quattro lingue straniere, ma parlare italiano, perché lì c’è la nostra cultura. Non una cultura chiusa in se stessa, ma aperta al mondo perché consapevole di se stessa. La crisi linguistica attuale è il riflesso dello smarrimento in cui versa in generale il nostro Paese.

Un programma riformista con pochi punti fondamentali ambiziosi, ma da realizzare con quali forze politiche? Bevilacqua lamenta l’assenza sostanziale per tanti anni di una reale opposizione di sinistra (oggi, ad esempio, il Partito Democratico vota insieme al governo neofascista per la prosecuzione della guerra in Ucraina) che sia capace di guardare con empatia alla classe operaia e ai ceti popolari, oltre ad essere pacifista. Le forze sono rese deboli dalla loro divisione e frantumazione, oltre a essere nascoste e sminuite dai grandi media. Bevilacqua è consapevole di essere provocatorio e magari anche tranchant ma tra due anni, nel 2027, si domanda, si andrà alle elezioni e come ci arriverà la sinistra del riformismo anticapitalista? Il cuore del discorso di Bevilacqua è che non c’è nessuna possibilità di rianimare in così breve tempo una sinistra anticapitalista di tipo radicale extraparlamentare. Praticamente dal 2008 quell’area che prima era rappresentata da Rifondazione Comunista si è divisa in mille rivoli e ha tentato di riunificarsi con progetti elettoralistici destinati al fallimento: da Rivoluzione civile a Unione popolare a Terra pace e dignità, si è passati da una sconfitta all’altra.

Pertanto, la proposta pratica di Bevilacqua è che bisogna guardare la realtà: ci sono il Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi e Sinistra (AVS) che hanno già una rappresentanza in Parlamento, permettono un minimo di agibilità politica e contatto popolare, e possono anche arrivare a siglare un’alleanza elettorale con il Partito Democratico. Con queste due forze bisogna lavorare “per costituire l’ossatura riformatrice per uno schieramento di opposizione alla destra italiana” (pag. 192) e per creare una massa critica capace di essere credibile: i lavoratori non seguono chi non è in grado di dare delle risposte, di contare, di pesare e di produrre cambiamenti nelle loro condizioni (pag. 195). Quindi l’invito rivolto da Bevilacqua ai ceti dirigenti, ai militanti e ai simpatizzanti della ex sinistra radicale extraparlamentare è quello di entrare in queste forze e vivificarle dall’interno. La battaglia politica aperta contro il nemico di classe, i post fascisti della Meloni, è talmente grande e importante che non può certo essere affrontata con le mani legate dietro la schiena.

Alessandro Scassellati

  1. Bevilacqua sottolinea come i principali “fabbricanti di notizie” sono tre grandi agenzie internazionali – Associated Press, Agence France-Presse e Reuters – partecipate da grandi gruppi finanziari o Stati. Poi, ci sono le grandi agenzie militari (il Pentagono) e dell’intelligence statunitensi – come la National Security Agency (NSA) – che “investono somme ingenti e un gran numero di personale per orientare e ingannare l’opinione pubblica mondiale, secondo le loro necessità imperiali” (pag. 151). D’altra parte, tutte le 10 principali società mediatiche, tranne una, hanno sede in Nord America. Bevilacqua osserva amaramente che “la stampa e i media, strumenti di informazione, e perciò in teoria pilastri e veicoli della democrazia, operano in realtà contro di essa, difendono le élite e al tempo stesso le spingono a perseguire i propri fini al riparo dal giudizio dei cittadini. Siamo di fronte ad una frode colossale, che mina alla radice il contratto di fiducia su cui si reggono le nostre società” (pag. 149).[]
  2. Emiliano Brancaccio, Le condizioni economiche per la pace, Mimesis, Milano 2024; Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli, La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista, Mimesis, Milano 2022[]
  3. Roosevelt era un sostenitore delle “quattro libertà essenziali” (di parola ed espressione, di religione, dal bisogno e dalla paura), della Carta Atlantica e della supremazia dei diritti umani ovunque, ed era anche dogmatico nel voler smantellare l’impero britannico dopo la seconda guerra mondiale, appoggiando l’autodeterminazione dei popoli. Ma, poi con Truman accadde il contrario. In parte, questo avvenne perché gli Stati Uniti avevano bisogno della Gran Bretagna nella nascente Guerra Fredda. L’anticomunismo ebbe la meglio sull’antimperialismo. E così alla fine, vediamo gli Stati Uniti non solo permettere alla Gran Bretagna (e alla Francia) di mantenere buona parte del suo impero (chiudendo un occhio sulla violenza che accadeva), ma in realtà cooptarla e farla compartecipe del ruolo di “gendarme del mondo”. L’alleanza venne però messa a dura prova dallo stop di Eisenhower all’intervento militare anglo-francese in Egitto teso a bloccare la nazionalizzazione del Canale di Suez da parte di Gamal Abd el-Nasser nel 1956.[]
  4. Per l’impero britannico si veda Caroline Elkins, “Un’eredità di violenza. Una storia dell’Impero britannico” (Einaudi, Torino 2024). Si veda la nostra recensione qui. La Elkins segnala che un manuale britannico di contro-insurrezione del 1966, mirato alle insurrezioni comuniste (“Defeating communist insurgency”), “includeva la necessità di aderire allo stato di diritto e di conquistare i cuori e le menti della popolazione civile” (pag. 739). Come afferma Elkins, rifacendosi alla Malesia (dove l’impero britannico era impegnato nel contrastare in modo sanguinario la potenziale diffusione del comunismo che avveniva attraverso le comunità di immigrati cinesi), “emerse come un punto di riferimento per ogni azione anti-insurrezionale di successo, tanto da influenzare la dottrina americana del generale Petraeus in Iraq e plasmare fino ai giorni nostri le operazioni antiinsurrezionali dell’Occidente” (pag. 739), a cominciare da quelle utilizzate dagli statunitensi nella guerra in Vietnam. L’eredità di violenza dell’impero britannico si è trasformata in un dominio anglo-americano di violenza, con la violenza e le regole che derivano principalmente dagli Stati Uniti. Per cui l’impero britannico sopravvive, assorbito dal potere militare-industriale-finanziario degli Stati Uniti, e la sua presenza è evidente in molte regioni del mondo ancora in fiamme, dove le popolazioni indigene stanno tentando di superare l’eredità della violenza perpetrata dall’ex potenza britannica e dall’attuale potenza imperiale statunitense.[]
  5. È noto che la NATO è nata nel 1949 per tenere gli “americani dentro, i russi fuori e i tedeschi sotto”. Negli ultimi decenni la NATO è stata trasformata da alleanza difensiva regionale (Nord Atlantico) in alleanza interventista aggressiva a livello globale. Tale trasformazione è iniziata con il bombardamento di Belgrado da parte della NATO nel 1999, si è intensificata con la partecipazione della NATO all’invasione dell’Afghanistan guidata dagli Stati Uniti nel 2001 ed è stata cementata dall’intervento in Libia del 2011, avviato sotto gli auspici della NATO.[]
  6. La narrazione che paragona grottescamente Vladimir Putin a Adolf Hitler ha l’obiettivo di alimentare la menzogna del moralismo manicheo che dipinge la Russia come malvagia e l’Europa come buona. Questa cornice impedisce di riconoscere qualsiasi responsabilità occidentale per aver provocato il conflitto tramite l’espansione orientale della NATO e tramite l’incitamento di sentimenti nazionalisti anti-russi in Ucraina e altre ex repubbliche sovietiche. Avvelena anche la possibilità di pace (che dovrebbe essere il fondamento dell’identità collettiva europea) poiché è quasi impossibile negoziare con un avversario che è considerato una minaccia esistenziale malvagia (da cui la convinzione che la Russia non capisca altro che la forza) che si contrappone ai “nostri valori” di civiltà. Nonostante sia falsa questa narrazione ha presa sull’opinione pubblica. Questo perché risuona con la lunga storia del sentimento anti-russo, che include la Guerra Fredda e la Paura Rossa degli anni ’20.[]
  7. Bruno Drweski, “Russie-Ucraine: Stratégique, conflits et processus d’intégration eurasiatique”, 13 febbraio 2023, https://bit.ly/3ZqsfvE.[]
  8. Questa dottrina neoconservatrice conferisce agli Stati Uniti il diritto di imporre la propria volontà ovunque nel mondo, il che spiega perché gli USA hanno circa 800 basi militari in 80 paesi, circondando sia la Russia sia la Cina (almeno 400). La dottrina unipolare si è inizialmente diffusa tra i repubblicani intransigenti come Dick Cheney e Donald Rumsfeld, ed è stata poi adottata da democratici come Hillary Clinton e Barack Obama. Ciò l’ha resa ancora più pericolosa, in quanto ha catturato entrambi i partiti politici statunitensi. Inoltre, con Biden i democratici hanno fornito una copertura insidiosa sostenendo che gli Stati Uniti, “il faro della democrazia”, erano motivati dalla protezione della liberal-democrazia e dei diritti umani dai leader autoritari e neo-autoritari (le “autocrazie”). Il paradosso è che ora con l’amministrazione Trump gli Stati Uniti stanno camminando come sonnambuli verso l’autocrazia o la “democrazia oligarchica”, con un nazionalismo autoritario che si basa sull’idea che l’America non deve essere vincolata da regole e alleanze internazionali. Questo sta avendo l’effetto di smantellare l’intero ordine interno ed internazionale che aveva fatto grande gli Stati Uniti dal secondo dopoguerra.[]
  9. Si veda Zbigniew Brzezinski, The grand chessboard. American primacy and its geostrategic imperatives, Basic Books, New York 2017 (1997).[]
  10. Dopo la seconda guerra mondiale, i servizi segreti britannici sponsorizzarono un’insurrezione nell’Ucraina sovietica guidata da Bandera.[]
  11. Bevilacqua ricorda che Victoria Nuland, già ambasciatrice degli USA presso la NATO, è la moglie di Robert Kagan, uno dei neoconservatori più influenti degli Stati Uniti e uno dei fondatori del Project for the New American Century (PNAC).[]
  12. Ma è funzionale alla narrazione dell'”appeasement di Monaco del 1938″, in base alla quale si afferma che la Russia invaderà l’Europa centrale e arriverà sino a Lisbona se non verrà sconfitta in Ucraina. Una menzogna che attinge anche ai residui della teoria del domino della Guerra Fredda che sosteneva che l’avanzata dell’influenza politica dell’Unione Sovietica in un paese avrebbe innescato un’ondata di crolli in altri paesi. Non c’è mai stata alcuna prova del desiderio russo di controllare l’Europa occidentale, né durante la Guerra Fredda né oggi. Al contrario, l’intervento della Russia in Ucraina è stato principalmente guidato dai timori per la sicurezza nazionale creati dall’espansione della NATO da parte dell’Occidente, di cui la Russia si è lamentata ripetutamente sin dalla disgregazione dell’Unione Sovietica.[]
  13. Trump ora ammette spudoratamente che quella in Ucraina è una guerra per procura alimentata e diretta dagli Stati Uniti. Tuttavia, sostiene che è la guerra per procura sbagliata, che la Russia non è l’avversario degli Stati Uniti e che tutti gli sforzi dovrebbero concentrarsi sulla prossima guerra che gli Stati Uniti stanno preparando contro la Cina. Tutto perché Washington vede il suo predominio economico e tecnologico messo in discussione dalla Cina. Pochi giorni fa il New York Times ha pubblicato un lungo articolo in cui racconta il minuzioso e profondo coinvolgimento degli Stati Uniti di Joe Biden nella guerra in Ucraina. L’articolo è stato scritto dal giornalista Adam Entous ed è basato su oltre 300 interviste a militari, politici e persone coinvolte nel rapporto tra i due paesi. Descrive come molte delle mosse dell’Ucraina nella guerra, tra cui quasi tutte quelle più importanti (sulle strategie militari, le offensive e le controffensive), siano state concordate da un gruppo di generali ucraini e statunitensi nella base americana di Wiesbaden: lì era stato creato un gruppo di lavoro segreto, chiamato Task Force Dragon, al quale partecipavano anche ufficiali europei.[]
  14. Ironicamente, sono gli Stati Uniti sotto il presidente Trump ad aver rotto con la strategia bipartisan dell’establishment della sicurezza nazionale statunitense di accerchiamento incrementale ed escalation contro la Russia che Biden aveva avallato, proponendo una normalizzazione delle relazioni tra Stati Uniti e Russia. Quella rottura – frutto della presa d’atto che gli Stati Uniti hanno subito una sconfitta militare in Ucraina pur senza aver combattuto sul terreno – ha offerto all’Unione Europea l’opportunità di sfuggire alla trappola creata dalla sua passata mancanza di visione politica e di “autonomia strategica”. Invece, l’Unione Europea si è dimostrata più realista del re ed è rimasta fedele allo “Stato profondo” neoconservatore della sicurezza nazionale degli Stati Uniti (apparentemente ora messo almeno in parte sotto pressione e ridimensionato da Trump), in nome dei “valori comuni dell’Occidente” (l’”atlantismo”), dimostrando di essere soltanto un satellite americano dipendente, insicuro e privo di una leadership forte e matura (chiaramente buona parte dei leader europei punta sul fallimento politico di Trump).[]
  15. Durante la campagna elettorale, Trump aveva detto che avrebbe potuto porre fine alla guerra in Ucraina entro 24 ore. Questo si è dimostrato elusivo e le sue tattiche per costringere Russia e Ucraina a concordare un cessate il fuoco si sono finora concentrate sul bullismo e sulla pressione su Kiev (si pensi all’accordo coloniale sullo sfruttamento delle terre rare). Trump e il suo vicepresidente, JD Vance, hanno rimproverato Zelensky nello Studio Ovale il 28 febbraio, e Washington ha poi tagliato i servizi segreti e gli aiuti militari. Kiev ha poi sottoscritto il principio di un cessate il fuoco di 30 giorni se il Cremlino avesse ricambiato in cambio del ripristino dei servizi segreti e degli aiuti. Putin ha detto all’inizio di marzo che, sebbene fosse a favore di un cessate il fuoco, qualsiasi interruzione dei combattimenti dovrebbe prima richiedere di “rimuovere le cause profonde di questa crisi”. Negli ultimi giorni, Mosca ha definito inaccettabili le ultime proposte di pace degli Stati Uniti perché alcune delle richieste chiave della Russia (riferite alle “cause profonde del conflitto”) non sono state affrontate. Mentre l’esercito russo si prepara a compiere una nuova offensiva di primavera/estate, Trump ha tempo fino a settembre per evitare che la guerra in Ucraina diventi la “sua guerra”. La situazione potrebbe precipitare entro quest’estate, quando la pipeline di armi approvate dal Congresso sotto Biden per l’Ucraina si esaurirà.[]
  16. L’Europa già spende in armi, apparato della difesa, tecnologie militari molto di più di quello che spende la Russia. Ha quattro volte più navi da guerra, tre volte più carri armati e artiglieria e il doppio degli aerei da combattimento della Russia.[]
  17. Quelli che sono cresciuti nel XX secolo hanno imparato che mettere assieme sciovinismo e militarismo in Germania è una cattiva idea. I produttori di cannoni della valle della Ruhr hanno alimentato due devastanti guerre mondiali. Dopo il 1945, l’Europa ha concordato: nessun ritorno al militarismo tedesco. Ora il parlamento tedesco ha destinato ad armi e infrastrutture mille miliardi di euro dopo l’approvazione di una riforma costituzionale che ha abrogato l’obbligo del pareggio di bilancio, passata con un blitz prima che a Berlino si sia formato il nuovo parlamento. La Germania è già al quarto posto a livello mondiale per spesa per la difesa, ma ora sta passando alla modalità turbo per diventare apertamente kriegstüchtig (“pronta alla guerra”).[]
  18. Giustificato come mezzo per creare una società imprenditoriale, il neoliberismo ha invece portato una nuova era di rendita, poiché le persone e le aziende potenti monopolizzano beni cruciali, dall’acqua alle case ai social media. Lascia al governo poche opzioni se non quella di fare dei richiedenti asilo e di altri gruppi vulnerabili i capri espiatori per i problemi che non riesce ad affrontare.[]
  19. Si veda la nostra recensione del libro di Alessandro Volpi, “I padroni del mondo. Come i fondi finanziari stanno distruggendo il mercato e la democrazia”, Laterza, Roma-Bari 2024.[]
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