Vite pervase da menzogne sistemiche, sia sul piano professionale che su quello privato, intersecati fatalmente e in caduta libera. Le vite sono quelle delle e dei personaggi di The Diplomat, la serie Netflix scritta da Debora Cahn (Grey’s Anatomy, Homeland, West Wing), e lo scenario quello di un thriller politico mondiale. La vita della protagonista, Kate Wyler (Keri Russell), è quella di una ex militare, segnata a partire dalla gioventù dalla menzogna originaria di Colin Powell e dell’amministrazione Bush Junior, prima trafitta da pallottole, poi – perché il sistema sa inglobare i “talenti” che ha segnato e traumatizzato – diplomatica Usa con improvviso e improvvido incarico a Londra come ambasciatrice. Fin qui tutto abbastanza nei canoni del thriller politico globale, ma The Diplomat mette in gioco subito carte spiazzanti. La scuola del sospetto, più nel senso relazionale che filosofico, corrode ogni aspetto dell’esistenza di Wyler, facendola letteralmente trasudare ansia. La favola emancipatoria a lieto fine del potere femminile non ha in lei un anodino sviluppo; il corpo pare non adattarsi, i vestiti di ordinanza sono detestati, creano disagio, il corpo manda messaggi liquidi nella sudorazione. Non un pensiero liquido, però, quello di Kate, un pensiero lucido e angoscioso di “incastrata”. Non vorrebbe più avere potere, quantomeno nel suo aspetto scenografico, vorrebbe aiutare le donne a Kabul, ma le tocca Londra, prova generale per una sua eventuale nomina a vicepresidente dopo le dimissioni dell’inetta vice del presente (Kamala Harris?). Ruolo nevralgico e fondante, perché nella serie non c’è lo spostamento dei tratti presidenziali su un avatar irreale: trattasi del presidente Biden, in un ritratto stordente di anziano con scarse inibizioni, leggermente svanito su questioni non esiziali ma altresì belva politica espertissima quando entrano in gioco le essenze varie della politica americana, esterne ed interne. Mentre – sorpresa? – l’alter ego di Blinken sembra solo bassa manovalanza egotistica. Sulla nomina di Kate Wyler spingono la responsabile nera dello staff della Casa Bianca, un riferimento a Karine Jean-Pierre sembra probabile, e il marito Hal (Rufus Seawell), un diplomatico esperto, smaliziato e disperato, fulmineo nella parola definitiva, sorta di Doctor House dello scenario mondiale (suo il bon mot “la regola è che ha potere solo chi non dovrebbe averlo”). Il sospetto ha travolto il matrimonio già prima della nomina di Kate ad ambasciatrice a Londra, ma ora i due devono stare insieme per esigenze d’immagine pubblica. Lui è ancora innamorato, non il bell’uomo traditore canonico, non riesce nemmeno ad avere un’erezione fuori dal talamo coniugale. Ama i rapporti orali, ama il sudore. Se c’è un’eroicizzazione del personaggio è quindi sottile, elaborata, tale da renderlo in alcuni momenti irresistibile per il connubio tra intelligenza e fedeltà (non ad astratti valori, ma a persone, sul campo). La moglie, nonostante ciò, non si fida più, ne vede il lato oscuro: ambizione, egocentrismo, tendenza ad azioni impulsive e deflagranti. Se le ambiguità del vivere sono trasposte sulla scena entropica degli equilibri diplomatici mondiali il caos può portare alla distruzione atomica; lei pensa con terrore che lui possa cavalcare il suo successo diventando ambasciatore in Ucraina. Un’Ucraina trattata qui come un aspetto alla deriva e già marginale sul piano degli equilibri geopolitici: l’unico squilibrio potrebbe portarlo un ambasciatore americano dallo slancio debordante; per il resto con il governo russo tutto pare rientrato nei soliti limiti, al punto che l’ambasciatore post-sovietico può tranquillamente dichiarare – in una produzione Usa globale – che la guerra è stata solo una rogna per salvaguardare gli affari del figlio stupido del presidente americano. Questo non in un manifesto pacifista, ma su una serie Netflix, e il contesto può offrire una chiave di lettura per il presente. O anche solo indicare che un pensiero critico esiste anche in molti contesti mainstream, Italia a parte. I problemi, in questa serie, sono le schegge impazzite della Brexit: è Londra, con i suoi giochi finanziari globali e la sua ossessione bellicistica, talvolta anche atomica, a rendere greve la scena. Forse potrà anche scatenarsi una guerra del tè a ruoli invertiti ( questo lo si vedrà forse nella seconda serie, in preparazione). Certo, è fiction, ma in The Diplomat il volo sulla realtà è radente: la diplomazia internazionale è composta da hollow men and women di assetto traballante, in tempesta come la nave del Typhoon conradiano. Nessuno dei due protagonisti è, fortunatamente, un Eroe Americano, nessun climax se non angoscia quotidianamente ripetuta, tra sfaldamenti relazionali a cui l’eros offre solo un sollievo estemporaneo. Manca un’epica individuale, come già in Harlot’s Ghost, il romanzo sulla Cia di Norman Mailer, ma non ne esiste nemmeno una nazionale. Emergono le persone, nella loro nuda vita, a cui il potere da gestire non fa quasi più da contrappeso egoico. Maschere nude, con un residuo afflato etico, in alcuni e alcune. Come da parole di Hal in uno speech che sarà il motore della chiarezza esplosiva del finale della prima serie: “La diplomazia non funziona. Mai. Finché non funziona.”
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La diplomazia non funziona. Mai. Finché non funziona
di Paola
Guazzo