di Luciana Castellina –
I cosiddetti sovranisti stanno oggi utilizzando il fatto che le forze di sinistra, comunisti e socialisti, inizialmente si opposero alla costruzione dell’Europa e, quindi, anche all’ingresso dell’Italia nella Comunità europea, come si chiamò all’inizio. Si opposero per ragioni che avevano anche una loro validità, in particolare in nome della questione meridionale. Il nostro compagno Valentino Parlato all’epoca scrisse non pochi articoli sulla rivista del PCI Politica ed economia, argomentando che l’Italia non sarebbe dovuta entrare nella CEE perché la debolezza e la fragilità nella quale si trovavano il meridione d’Italia sarebbero peggiorate a causa del mercato comune. Anche in Francia la posizione del Partito comunista era contraria al mercato comune: il PCF sosteneva allora addirittura che la Comunità europea avesse l’obiettivo di depredare la Francia e ricondurla all’economia della pastorizia!
La posizione del PCI fu successivamente rivista e credo con ragione perché non c’è dubbio che il mercato comune consentì un ammodernato e uno sviluppo dell’industria italiana: il boom economico degli anni Sessanta deriva in parte proprio dall’adesione alla Comunità europea. Tuttavia, questa “correzione” fu fatta a scapito di qualunque posizione critica nei confronti dell’Europa che si andava costruendo, imbracciando la peggiore retorica europeista e dimenticando che quell’Europa non aveva niente a che fare con il Manifesto di Ventotene, che invece influenzò enormemente la nostra Costituzione. Nel 1957, quando si diede vita alla Comunità europea, la nostra Costituzione rappresentò addirittura un problema: il ministro dell’economia tedesco dell’epoca era dubbioso che l’Italia potesse entrare a far parte della Comunità europea proprio a causa della sua Costituzione considerata “troppo socialista”.
L’europeismo della sinistra italiana è stato costruito su quella retorica europeista, che solo oggi comincia a mostrare qualche crepa, costruita dalla destra del PCI. Uno dei maggiori fautori di questa linea fu infatti Giorgio Amendola, che diresse la prima delegazione di rappresentanti del PCI al Parlamento europeo. L’atteggiamento nei confronti delle istutuzioni europee era così acritico che non si protestò con sufficienza nemmeno per la lunga esclusione della CGIL dagli organismi in cui erano rappresentati i sindacati europei, esclusione motivata dalla presenza dei comunisti nell’organizzazione sindacale. Il tema dell’Europa è sempre stato, come dire, “bloccato” all’interno del PCI e ogni critica veniva tacciata di anti-europeismo.
Adesso ci troviamo in un momento delicato. Io provo una forte avversione per i numerosi seminari in cui si discute come debbano essere cambiati i trattati, perché alla base dei trattati c’è l’idea della competizione. In quello di Maastricht questo concetto è esplicitato: lì c’è scritto che l’Unione europea si fonda sullo sviluppo e la competitività e questo significa escludere tutti quelli che non sono competitivi. Questa è l’origine della disuguaglianza che si è creata e di cui non si è mai storicamente tenuto conto. Quando la Grecia entrò nella Comunità europea nel 1981 fu il primo dei Paesi mediterranei ad entrare, seguita da Spagna e Portogallo nel 1986), il ministro degli esteri Karampopulos (del Pasok) sottolineò che l’ingresso dei Paesi mediterranei costituiva non un’aggiunta quantitativa ma un cambiamento qualitativo di cui l’Europa avrebbe dovuto tener conto: la Comunità cambiava natura e quindi doveva cambiare politica. Naturalmente non se ne tenne conto e in questo modo le disuguaglianze si approfondirono.
Dico questo perché non è stata la “cattiveria” di Schäuble a condannare la Grecia quando si è trovata in difficoltà: quello stesso sentimento di colpevole indifferenza è diffuso anche tra gli operai tedeschi non disponibili a fare “sacrifici” per i greci “che non lavorano”. A questo sentimento fa da specchio quello dei greci che pensano ai tedeschi come se fossero tutti nazisti. Questo perché non è mai stata davvero costruita una comunità. La sinistra non si è mai occupata di costruire un soggetto europeo: senza un soggetto agente, attivo, una comunità non si costruisce. La sinistra fa sempre lo stesso errore: è tutta statalista, che sia comunista o socialdemocratica, pensa che il problema sia il governo, mentre il problema è la società: se non conquisti la società non puoi neanche pensare di conquistare la sua leadership istituzionale. Per esempio in tutti i Paesi si pone il problema del reddito di cittadinanza, in forme e con nomi diversi, ma non siamo riusciti a fare una lotta tutti insieme su questo problema per tentare di formulare una proposta unitaria, pur tenendo conto di tutte le differenze a livello legislativo nei diversi Paesi. Ancora: c’è il problema degli immigrati, di cui si occupano generosamente tantissimi gruppi, ciascuno nel proprio Paese, ma neanche su questo siamo riusciti a far sentire una voce unitaria. La democrazia si regge sull’esistenza dell’opinione pubblica e sulla sua possibilità di esercitare un potere. Non si è riusciti a fare un giornale nel quale si raccontino le posizioni della sinistra nei diversi Paesi. Questo è il problema del sindacato e dei partiti politici. Il partito della sinistra europea esiste ma c’è qualcuno in Italia che sappia com’è andato il congresso della Linke? Se non sappiamo neanche queste cose è difficile sostenere che il partito della sinistra europea esiste davvero. Esisterebbe se si discutesse prima dei congressi per verificare se si riescono a costruire posizioni comuni. Anche l’associazionismo è molto confinato all’interno di ciascun Paese. C’è una sola realtà, che è Sabir (promossa tra gli altri dall’ARCI), costruita per dialogare con le ONG dell’altra sponda, che ha obiettivi più ambiziosi da questo punto di vista.