dal nostro corrispondente da Londra, Enrico Sartor –
1. Una politica anti-immigrazione che viene da lontano
Dal 31 gennaio 2020 la Gran Bretagna è fuori dall’Unione europea. Tuttavia le regole Ue che governano la libera circolazione di persone, capitali e servizi rimangono in vigore anche per il Regno Unito fino alla fine del 2020.
A partire dal 1° gennaio 2021 tutto cambierà, e i cittadini dell’Ue che desidereranno vivere e lavorare nel Regno Unito avranno le stesse limitazioni e gli stessi diritti che hanno attualmente i cittadini extra Ue. Ciò avrà un considerevole impatto sull’economia del Paese, e le regole che troveranno applicazione o non sono molto chiare oppure non sono state ancora definite. Il tutto sarà influenzato dal tentativo di bilanciare gli interessi economici del Paese con le promesse xenofobe e sovraniste che hanno segnato le campagne per il referendum del 2016 e per le elezioni politiche del 2019 (che hanno dato una schiacciante maggioranza parlamentare ai conservatori di Boris Johnson).
Il diffuso clima xenofobo e anti-immigrazione non nasce con la Brexit o con l’arrivo al governo di B. Johnson. In realtà cambiamenti drastici nel clima politico e nella legislazione furono introdotti dai precedenti governi conservatori guidati da Cameron, con Theresa May nel ruolo di Ministra dell’interno. I cambiamenti strutturali e del quadro legislativo introdotti da T. May sono stati, fin dall’inizio, esplicitamente finalizzati a creare un ‘clima ostile’ verso gli immigrati e gli stranieri in generale, con l’obiettivo – posto al centro del manifesto elettorale dei conservatori britannici – di ridurre drasticamente il numero netto di ingressi per immigrazione.
Gli ultimi anni hanno registrato casi ricorrenti di violazione – da parte del governo britannico – dei diritti umani, culminati recentemente nello scandalo della immigrazione dalla Jamaica: cittadini/e che avevano vissuto tutta la loro vita in Gran Bretagna – ed erano di fatto british – hanno subito casi di detenzione e deportazione forzata (spesso in violazione delle leggi britanniche e dei diritti sanciti dalla Convenzione europea dei diritti umani).
2. Immigrazione UE e sistema a punti
Alla fine del 2018 i residenti in Gran Bretagna provenienti da Stati membri dell’UE erano 3 milioni e settecentomila. Quasi due terzi di questi risiedevano per motivi di lavoro.
Le politiche sovraniste della destra trovano terreno nell’opinione diffusa che questo livello d’immigrazione sia la causa principale della crisi dei servizi sociali (sanitario, scolastico, assistenziale) e del basso livello dei salari nel Regno Unito.
La prima accusa tende chiaramente a coprire le vere responsabilità nella crisi dei servizi pubblici, da ricercare quasi totalmente nei tagli causati dalle politiche austeritarie portate avanti dai governi conservatori; essa ignora volutamente l’enorme contributo del personale qualificato di provenienza UE nei settori della sanità e dell’assistenza. Il calo degli ingressi per immigrazione in questi settori – già evidente dal 2016 in seguito al referendum sulla Brexit – sta solo inasprendo la crisi.
L’accusa alla libera circolazione dei lavoratori di essere la causa principale del dumping sociale e salariale trova invece un maggiore fondamento nelle politiche neoliberiste dell’Unione Europea. Il livello medio salariale in Gran Bretagna – considerata l’inflazione – è appena risalito ai livelli del 2008, e sicuramente le politiche neo-liberiste dell’Unione hanno contribuito alla riduzione delle retribuzioni: da un lato, mettendo in totale contatto mercati del lavoro con livelli salariali estremamente diversi (si va dal salario minimo in Bulgaria di €1,57 a quello del Lussemburgo di €10,55); dall’altro, chiedendo agli Stati membri di ridurre le tutele lavoristiche, spesso attraverso istituzioni europee esenti da controllo democratico (Troika).
D’altra parte, l’accesso a un’abbondante manodopera a basso costo è stato uno dei fattori più importanti della crescita economica della Gran Bretagna negli ultimi anni: buona parte dell’economia britannica si basa attualmente su un tessuto di aziende “zombi”, a bassissima produttività e con investimenti di capitale inesistenti, ma capaci di sopravvivere proprio grazie a una forza lavoro sottopagata.
Il governo di destra di Boris Johnson dovrà riuscire a bilanciare una base elettorale xenofoba e razzista con la necessità di mantenere aperto un flusso sia di migranti altamente qualificati dall’UE, sia di lavoratori con qualifiche più basse ma indispensabili per settori come il turismo, l’assistenza, l’agricoltura stagionale e i trasporti
Uno dei sistemi che il governo conservatore sembra prediligere in questo momento è quello di un sistema a punti (point-based system) sulla cui base decidere l’emissione dei permessi di lavoro in Gran Bretagna, un sistema simile a quello già ora applicato ai cittadini di provenienza extra UE. Per lavorare in Gran Bretagna serviranno 70 punti, ottenuti dalla somma di quattro voci: 1) avere già un contratto di lavoro (20 punti); 2) essere un operaio qualificato (20 punti); 3) disporre di un salario lordo di almeno 25.600 sterline all’anno (ancora 20 punti); 4) conoscenza della lingua inglese (10 punti).
Una proposta in tal senso era già stata avanzata dal governo di Theresa May, e ora viene ripresa da Boris Johnson.
Il salario minimo di 25.600 sterline è considerato eccessivamente elevato dalla maggioranza delle associazioni dei datori di lavoro, soprattutto in settori come il turismo e l’agricoltura; le organizzazioni imprenditoriali sono favorevoli a un salario intorno alle 20.000 sterline. Una commissione di studio appena istituita dal governo (Migration Advisory Committee) propone le 25.600 sterline come tetto minimo, salvo tetti più alti per attività lavorative con medie salariali superiori.
E’ evidente la natura xenofoba e razzista del sistema a punti. Da un lato si trasforma in una specie di gioco a premi quella che per molti strati vulnerabili della società è una fase traumatizzante e difficile della vita; numerose organizzazioni hanno espresso la preoccupazione che il sistema aumenterà i livelli d’illegalità e persino i casi di riduzione in schiavitù, che sono già in forte aumento. Dall’altra, l’introduzione della conoscenza dell’inglese come requisito – del resto già auspicata dall’ex segretario del partito laburista Ed Milliband – non fa che fornire materiale a pessimi giornali di destra come il Daily Mirror o il Sun, ed accontentare i razzisti fornendo un facile strumento di discriminazione. In un Paese in cui solo due cittadini britannici su tre parlano e sanno scrivere in lingua inglese, la polizia sta investigando, per esempio, sul fatto che il giorno dopo l’uscita dall’Unione qualcuno ha affisso sulle porte d’uscita d’emergenza di un condominio popolare a Norwich (Nord-Est dell’Inghilterra) un volantino che augurava ‘felice brexit day’ e avvisava che d’ora in poi solo l’inglese della regina era la lingua consentita ai residenti.
Ad impattare sui tassi di immigrazione in Gran Bretagna sarà soprattutto il livello di insicurezza creato dal clima xenofobo dominante, dalla debolezza dell’economia nazionale e dalla poca trasparenza e complessità del quadro legislativo. Diverse organizzazioni di avvocati e magistrati hanno denunciato più volte il fatto che il quadro legislativo in tema di immigrazione (di provenienza UE o extra UE) si caratterizza – dopo le riforme di Theresa May – per una complessità volutamente indirizzata a far desistere il cittadino che intende affrontare l’ingresso per via legale. Questa complessità normativa renderà sempre più difficile per datori di lavoro, proprietari di locali in affitto, operatori scolastici e sanitari, considerare i cittadini stranieri come possibili dipendenti, affittuari e clienti.
I costi amministrativi della domanda di permesso per entrare in Gran Bretagna saranno un altro serio deterrente. Attualmente una famiglia di cinque persone (provenienti da paesi extra UE) che vuole ottenere un visto per 5 anni deve pagare 21.299 sterline all’atto della domanda. Dopo il 31 dicembre 2020, un cittadino europeo intenzionato ad entrare in Gran Bretagna per motivi di lavoro dovrà, una volta accumulati i suoi 70 punti, versare un minimo di 1.620 sterline per il visto, a cui andranno aggiunte 400 sterline di assicurazione sanitaria ogni anno.
Da buon ‘Paese di bottegai’ (come li definì Napoleone) gli inglesi lasciano ancora una volta che sia il denaro, o la mancanza di esso, a prendersi cura delle crisi sociali che lo Stato non sa o non vuole risolvere.