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Il rapporto delle Nazioni Unite sulle violazioni dei diritti umani nel Xinjiang

di Alessandro
Scassellati

La pubblicazione del rapporto dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani sulle violazioni dei diritti umani nella Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang afferma che la Cina ha commesso “gravi violazioni dei diritti umani” contro la minoranza etnica degli uiguri. La Cina non ha accettato queste conclusioni e ha contrattaccato sostenendo che il rapporto è un mosaico di disinformazione e faziosità, frutto delle pressioni statunitensi e di altri Paesi occidentali per contenere la Cina. In questo articolo cerchiamo di capire le molteplici e complesse dimensioni della “questione uigura”.

La pubblicazione del rapporto Bachelet

Il 1º settembre, a soli 11 minuti dalla mezzanotte, ora di Ginevra, e dalla fine del suo mandato quadriennale di Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR), l’ufficio di Michelle Bachelet ha finalmente pubblicato il suo rapporto (45 pagine), atteso da anni (sono passati almeno 10 anni dalle prime denunce) e a lungo rimandato, sulle continuate violazioni dei diritti umani nella Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang. Il rapporto afferma che la Cina ha commesso “gravi violazioni dei diritti umani” contro gli uiguri, una minoranza etnica turcofona prevalentemente musulmana sunnita che conta poco meno di 12 milioni di persone nella regione occidentale dello Xinjiang, e altri musulmani di etnie e culture turcofone. Violazioni che potrebbero equivalere a crimini contro l’umanità.

Che il rapporto venisse pubblicato dalla Bachelet è rimasto incerto fino all’ultimo. Proprio il giorno prima, era stato riferito che il suo mandato sarebbe giunto al termine con la questione irrisolta, nonostante le numerose richieste alla riunione del Consiglio per i diritti umani del 30 agosto che il rapporto venisse pubblicato.

Per gli studiosi dello Xinjiang, l’incertezza non era una novità. Nonostante le rassicurazioni del commissario che il rapporto sarebbe stato pubblicato, c’erano stati motivi per dubitare della sua volontà di sfidare Pechino. A maggio, dopo la prima visita di un Alto Commissario in Cina dopo 17 anni, aveva rilasciato una dichiarazione ufficiale in un linguaggio gradito dallo Stato cinese e non aveva quasi menzionato le preoccupazioni sollevate sui maltrattamenti degli uiguri e di altri abitanti della regione.

L’incapacità di Bachelet di sfidare in modo significativo le azioni della Cina nello Xinjiang in quel momento, tuttavia, era probabilmente inevitabile. Sebbene avesse chiesto di avere libero accesso alla regione fin dai primi giorni di lavoro, le era stato ripetutamente negato e alla fine aveva potuto fare una visita solo alle rigide condizioni stabilite da Pechino. Pur riconoscendo a giugno che una simile visita non poteva essere considerata un’indagine, ha sostenuto che la sua esperienza di esilio dal Cile negli anni ’70 e la sofferenza della sua famiglia le avevano insegnato il valore del dialogo, a prescindere dai limiti.

La difficoltà di garantire l’accesso è nota da tempo agli accademici e ai giornalisti che lavorano su questioni relative allo Xinjiang e negli ultimi cinque anni è diventato in gran parte impossibile. E’ diventato pericoloso per la gente del posto discutere di qualcosa di importante con gli stranieri. Altrettanto familiare è la pressione esercitata dalla Cina affinché si interrompa qualsiasi indagine. Studiosi che hanno discusso degli internamenti di massa e altre atrocità nello Xinjiang sono stati sanzionati e diffamati da Pechino come parte dei suoi strenui sforzi per controllare come vengono percepite le sue politiche nella regione. Questi sforzi, dal 2017, hanno seguito uno schema simile: negare ciò che sta accadendo fino a quando le prove non sono schiaccianti, quindi tentare di riformulare tali prove in una luce positiva – come, ad esempio, definendo i campi di internamento come “centri di istruzione e formazione professionale” -, quindi condannare e punire coloro che portano alla luce le loro verità.

È chiaro che Bachelet e il suo ufficio hanno subito le stesse pressioni. A luglio, documenti trapelati in forma anonima da numerosi diplomatici all’ufficio dell’Alto Commissario hanno rivelato che la Cina stava facendo direttamente pressioni affinché il rapporto non venisse pubblicato. La Bachelet aveva riconosciuto l’intensa pressione esercitata contro la pubblicazione del rapporto e che si stava “impegnando molto” per pubblicarlo prima della fine del suo mandato. Dichiarazioni precedenti indicano che l’ufficio aveva “finalizzato” il rapporto da settembre dello scorso anno. Il fatto che la sua pubblicazione sia stata evitata nel periodo successivo suggerisce che si temeva che la pubblicazione avrebbe posto fine a qualsiasi cooperazione della Cina per il periodo del resto del suo mandato.

La “questione uigura”

Sebbene la civiltà cinese Han e il suo Stato burocratico esistano da 3.500 anni, lo Xinjiang è entrato a farne parte solo a metà del XVIII secolo durante la dinastia Qing ed è stato assorbito nell’impero come una provincia alla fine del XIX. Quando la dinastia Qing è caduta nel 1911, la nuova Repubblica della Cina ha ereditato questa regione come un’appendice coloniale distante, governandola attraverso dei leader Han che hanno mantenuto un tenue collegamento con il potere dello Stato centrale.

Insieme alla Mongolia interna e alla Manciuria, lo Xinjiang è stato occupato dall’Armata Rossa sovietica tra il 1934 e il 1945. Dopo il 1949, il PCC ha cercato di esercitare un maggiore controllo sulla regione e ha ribattezzato il territorio come Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang. Dalla fine degli anni ’50, lo Stato cinese ha incoraggiato la migrazione di cinesi Han nella regione (soprattutto nella parte settentrionale), facilitando un marcato cambiamento demografico: nel 1953 gli Han costituivano solo il 6% della popolazione dello Xinjiang, mentre nel 1982 erano il 38%. Attualmente gli uiguri sono circa 12 milioni su un totale di oltre 25 milioni. Gli uiguri sono rimasti prevalenti nelle oasi e nei centri meridionali come Kashgar e Khotan. Lo status ufficiale del gruppo è quello di “minoranza regionale all’interno di uno Stato multiculturale” e pertanto non rientra nella definizione di “gruppi indigeni” delle nazioni cinesi.

Negli ultimi tre decenni, gli uiguri sono diventati delle vittime, insieme ad altri musulmani di origine kazakha e kirghiza, di un regime di apartheid, sorveglianza e repressione “con caratteristiche cinesi”. Il governo cinese, nell’ambito delle sue politiche contro il terrorismo e l’estremismo religioso, ha creato dei “centri di istruzione e formazione professionale“, installato telecamere per il riconoscimento facciale nelle strade e moschee e avrebbe anche costretto i residenti a scaricare un software che consente di tenere sotto controllo i loro telefoni. Secondo le organizzazioni dei diritti umani uigure ed internazionali, migliaia di moschee e santuari islamici sono stati rasi al suolo nello Xinjiang dal 2016.

La cosiddetta “questione Uigura” è emersa in Cina dopo il crollo dell’Unione Sovietica (1991) e l’istituzione delle repubbliche indipendenti di Kazakhstan, Kyrgyzstan e Tajikistan lungo i confini della Cina. Il presidente cinese Jiang Zemin si era affrettato a normalizzare i rapporti con gli Stati emersi dallo spazio post-sovietico, ma i confini particolarmente porosi dello Xinjiang hanno facilitato gli scambi con altri esponenti del gruppo etnico uiguro localizzati sul territorio di Stati come Kazakistan e Kirghizistan, facendo riemergere un ideale “panturco” e fomentando un ciclo di moti separatisti nella regione.

In Kazakhstan e Kirghizistan è presente la minoranza etnica dei Dungan, una popolazione musulmana di origine cinese (con una lingua che è una variante del mandarino cinese) che lasciò la Cina nel XIX secolo per sfuggire alla persecuzione della Dinastia Qing (che governò la Cina dal 1644 al 1911) contro la quale si erano ribellati. Pur non avendo mai fondato un movimento nazionalista, questa minoranza ha sempre difeso accanitamente le sue tradizioni e la sua lingua. I Dungan fanno parte del popolo Hui che in Cina è formato da 10 milioni di persone, cinesi musulmani sparsi soprattutto nella Cina interna, ma oltre un milione di loro vive nella provincia dello Xinjiang insieme agli uiguri e anch’essi sono diventati vittime della repressione governativa.

L’attacco dell’11 settembre 2001 e la successiva dichiarazione di Washington di una “guerra globale al terrorismo” globale hanno offerto a Pechino l’opportunità di sostenere che la repressione degli uiguri era solo una risposta a una grave minaccia terroristica, perché i militanti uiguri sarebbero stati legati ad al-Qaeda. Nell’estate del 2002, gli USA hanno etichettato il Movimento islamico del Turkestan orientale (ETIM) come un’organizzazione terroristica (rimosso dalla lista nel novembre 2020) e questa decisione ha consentito ai cinesi di dare una giustificazione all’aumento della repressione degli uiguri.

In effetti, alcuni uiguri hanno combattuto in Afghanistan, Iraq e in Siria (5 mila), scatenando il timore che potessero tornare in Cina e commettere attacchi terroristici come quello alla stazione ferroviaria di Kunming City nel 2014 che ha causato la morte di almeno 33 persone. Da allora almeno 13 mila uiguri sospettati di terrorismo sono stati arrestati.

Un Libro Bianco di Pechino ha affermato che una media di 1,29 milioni di persone all’anno, di cui oltre 415 mila dello Xinjiang meridionale, hanno seguito la “formazione professionale” tra il 2014 e il 2019. Secondo il Center for Global Policy, più di mezzo milione di persone appartenenti a minoranze etniche nello Xinjiang sono state costrette, attraverso forme di lavoro forzato, a raccogliere il cotone (lo Xinjiang produce più del 20% del cotone mondiale e l’84% di quello cinese). Il Partito Comunista sembra voler rimodellare la minoranza musulmana dello Xinjiang (come i contadini tibetani e la minoranza mongola) in lavoratori leali per fornire manodopera a basso costo all’agricoltura e alle fabbriche cinesi. Li considera una comunità povera, arretrata, legata al lavoro agricolo, alla religione musulmana e alle tradizioni.

Con la sola eccezione della Turchia (almeno fino al 2016-17), la repressione degli uiguri è avvenuta nel silenzio degli Stati a maggioranza islamica (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto), che non vogliono inimicarsi la Cina e destare l’attenzione sui propri disastrosi comportamenti in materia di diritti umani.

A complicare le cose, il fatto che lo Xinjiang è un passaggio obbligato nei progetti della Nuova Via della Seta (la Belt and Road Initiative – BRI) per l’accesso al Pakistan (Oceano Indiano), al Medio Oriente (Iran e Turchia) e all’Europa. Lo Xinjiang è ricco di risorse minerarie (come carbone, gas, petrolio, litio, zinco e piombo) ed agricole (cotone, pomodori e altri ortaggi). La BRI ha permesso alla regione di rafforzare gli scambi economici e commerciali con i Paesi che hanno aderito all’iniziativa del governo cinese. Lo Xinjiang ha infatti firmato 21 accordi di cooperazione con 25 Paesi e organizzazioni internazionali e stabilito relazioni economiche e commerciali con 176 Paesi e regioni. La stabilità interna di questa regione pertanto si è trasformata in una priorità chiave anche per le politiche economica ed estera di Pechino oltre che per quella della sicurezza interna.

I contenuti del rapporto

Il rapporto Bachelet fa riflettere. Attingendo ai documenti ufficiali richiesti allo Stato cinese, alle interviste dell’ufficio con le vittime fuggite dalla Cina e alla documentazione accademica, riconosce la pratica degli internamenti su larga scala, la credibilità delle notizie di torture e maltrattamenti diffusi che sono stati segnalate dal 2017. Il riconoscimento dell’ufficio delle Nazioni Unite che tali maltrattamenti possano includere crimini contro l’umanità – in violazione del diritto internazionale – è estremamente significativo. Ciò è evidente sia dai grandi sforzi che Pechino aveva intrapreso per impedire la pubblicazione del rapporto, sia dalla sua risposta ufficiale, che respinge i risultati in quanto “basati sulla disinformazione e sulle bugie fabbricate dalle forze anti-cinesi” e lo caratterizza come una calunnia “sfrenata” della Cina ed una interferenza negli affari interni del Paese.

In particolare, Wang Wenbin, portavoce del ministro degli Esteri cinese ha sostenuto che il rapporto Bachelet rappresenta uno strumento politico al servizio degli Stati Uniti e di alcune forze occidentali per contenere la Cina e altri Paesi: “È un mosaico di disinformazione, un documento di tale faziosità che dimostra come l’OHCHR sia stato ridotto ad esecutore e complice degli USA e di alcune forze occidentali contro i Paesi in via di sviluppo per costringerli ad allinearsi con loro e per utilizzare strategicamente lo Xinjiang per contenere la Cina“.

Negli ultimi anni la Cina ha sempre più avanzato un proprio modello di diritti incentrato sullo Stato che dà la priorità alla sicurezza interna, allo sviluppo economico e a uno Stato forte e sovrano. Al contrario, la richiesta della principale autorità mondiale per i diritti umani alla Cina di conformarsi al diritto internazionale dei diritti rappresenta una strenua difesa dei principi universali incentrati sulla protezione dei diritti individuali. Pechino contesta questo approccio e vuole spingere le altre nazioni ad adottare un diverso inquadramento dei diritti umani, che si allinei ai loro valori. E il rapporto Bachelet si oppone a questo in un modo piuttosto forte.

La risposta cinese è stata accompagnata da una contro-relazione di 121 pagine, che sottolinea la minaccia incombente ai diritti umani per tutti i gruppi etnici dello Xinjiang del terrorismo e dell’estremismo religioso tra gli anni ’90 e il 2016, sottolineando la stabilità sociale che il programma “olistico” statale di contro-terrorismo, “deradicalizzazione” e dei “centri di istruzione e formazione professionale”, basato sul “rispetto dei principi dello Stato di diritto socialista”, ha portato nello Xinjiang dal 2017 in poi. L’esistenza dei centri è stata riconosciuta dal governo cinese nel 2018 e la contro-realazione afferma che questi centri “non sono campi di concentramento” e vengono utilizzati “per istruire e riabilitare coloro che hanno commesso delle offese o dei crimini minori sotto l’influenza del pensiero estremista”. Nei centri viene usata “la lingua cinese orale e scritta, organizzata l’istruzione finalizzata alla deradicalizzazione, alla correzione pscologica e all’intervento comportamentale per aiutare le persone in formazione a cambiare la loro mentalità, rientrale nella società e ricongiungersi alle loro famiglie”. La contro-relazione cinese sostiene che, grazie all’attività dei centri e alle altre misure di contro-terrorismo e deradicalizzazione, “l’estremismo religioso è stato efficacemente eliminato”, “l’ambiente sociale è notabilmente cambiato per il meglio”, “è stata sostenuta la stabilità sociale” e “i formati hanno trovato un impiego stabile e vivono una vita normale dopo aver ultimato il percorso formativo”.

Dall’altra parte, invece, il rapporto Bachelet ha rilevato che esiste un rischio acuto di detenzione arbitraria e che era “ragionevole concludere che un modello di detenzione arbitraria su larga scala si è verificato nelle strutture [dei centri di istruzione e formazione professionale], almeno nel periodo 2017-2019“, probabilmente la fase di maggiore impegno nella politica di “deradicalizzazione” cinese. Negli ultimi cinque anni, la Cina avrebbe internato circa un milione di uiguri e altri gruppi minoritari in campi di internamento che ha definito centri di addestramento. Da allora alcuni centri sono stati chiusi, ma si pensa che ci siano ancora centinaia di migliaia di persone ancora internate e incarcerate. In diverse centinaia di casi le famiglie non avevano idea della sorte dei parenti detenuti.

Il rapporto Bachelet è stato molto critico nei confronti della dottrina anti-estremismo del governo cinese, che è alla base della repressione. Ha affermato che le leggi e i regolamenti erano vaghi e mal definiti, aperti all’interpretazione individuale e offuscavano il confine tra indicatori di preoccupazione e sospetta criminalità. Entrambe le categorie contenevano anche un cospicuo numero di atti benigni classificati come estremismo nonostante non avessero alcun collegamento con esso, come avere la barba o un account sui social media. Tali indicatori possono semplicemente essere “la manifestazione di una scelta personale nella pratica delle credenze religiose islamiche e/o la legittima espressione di opinione”, ha affermato. Le accuse di estremismo potrebbero portare le persone a essere rinviate a strutture di detenzione in più fasi del processo investigativo da parte della polizia, dei pubblici ministeri o dei tribunali.

Il rapporto Bachelet ha anche respinto il rifiuto della Cina delle accuse di lavoro forzato nella gigantesca industria del cotone dello Xinjiang, ritenendola di natura o effetto discriminatorio e che implica elementi di coercizione. Ha affermato che i regimi di lavoro erano strettamente collegati al quadro anti-estremismo e alla detenzione arbitraria, il che “solleva preoccupazioni in termini della misura in cui tali programmi possono essere completamente volontari“.

Oltre 60 gruppi uiguri per i diritti umani hanno accolto favorevolmente il rapporto Bachelet. Omer Kanat, direttore esecutivo del gruppo di pressione Uyghur Human Rights Project, ha affermato che è stato “un punto di svolta per la risposta internazionale alla crisi uigura“. “Nonostante le strenue smentite del governo cinese, l’ONU ha ora ufficialmente riconosciuto che si stanno verificando crimini orribili“, ha detto Kanat. I gruppi hanno esortato il Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani a istituire una commissione d’inchiesta per esaminare in modo indipendente il trattamento degli uiguri e di altre minoranze in Cina e hanno invitato l’Ufficio delle Nazioni Unite per la prevenzione del genocidio a condurre immediatamente una valutazione dei rischi di atrocità, compresi il genocidio e i crimini contro l’umanità in Xinjiang. Inoltre, le vittime e i gruppi per i diritti umani ritengono che i governi di tutto il mondo dovrebbero avviare un’indagine formale indipendente sulle violazioni dei diritti umani nello Xinjiang.

Il rapporto dell’Alto Commissario dice poco sulle continue violazioni dei diritti umani nello Xinjiang che non si sapeva già, ma le circostanze della sua pubblicazione, a pochi minuti dalla mezzanotte, mentre stava uscendo dalla porta, è un duro promemoria di come molta pressione sta esercitando la Cina per distogliere gli occhi del mondo dal problema.

Dei 26 ex detenuti intervistati dagli investigatori delle Nazioni Unite, due terzi “hanno riferito di essere stati sottoposti a trattamenti che equivarrebbero a tortura e/o altre forme di maltrattamento”. Gli abusi descritti includevano percosse con bastoni elettrici mentre erano legati a una “sedia della tigre” (a cui i detenuti sono legati per mani e piedi), isolamento prolungato, così come quella che sembrava essere una forma di waterboarding, “essere sottoposti a interrogatorio con acqua versata loro in faccia”.

La questione delle violazioni nello Xinjiang costituisce un fronte non secondario nel confronto crescente tra Washington e Pechino (insieme con Taiwan, Hong Kong, Mongolia, Tibet1 e influenza nelle regioni degli Oceani Indiano e Pacifico). Il governo degli Stati Uniti, così come i parlamenti di Regno Unito, Canada, Olanda e Francia, hanno etichettato come “genocidio” il trattamento riservato dalla Cina agli uiguri comprendente incarcerazione di massa di uiguri e altri musulmani nello Xinjiang, distruzione di moschee e comunità, aborto forzato e sterilizzazione, lavoro forzato, separazioni familiari forzate e umiliazioni (inclusi l’essere costretti a mangiare carne di maiale o vivere con delle famiglie cinesi di etnia Han come “custodi“).

Nel marzo 2021, USA, Canada UE e Regno Unito hanno imposto sanzioni coordinate per la repressione degli Uiguri nello Xinjiang, mentre la Cina ha risposto con altrettante sanzioni dirette a eurodeputati (membri delle Commissioni per le relazioni con la Cina e di quella per i diritti umani del Parlamento Europeo), accedemici e centri studi di quei Paesi. Inoltre, ha avvertito che: “L’epoca del bullismo contro i cinesi è finita, la Cina non è più quella del 1840, quando fu costretta a subire l’egemonia occidentale, firmando i cosiddetti trattati ineguali.” Inoltre, il portavoce del governo dello Xinjiang ha avvertito aziende straniere come H&M, che da mesi avevano deciso di non usare più il cotone della regione autonoma, perché apparentemente raccolto e trasformato con il lavoro forzato, che le loro scelte rischiavano di ritorcerglisi contro e le ha invitate a “non politicizzare le loro scelte commerciali”. Queste aziende sono diventate oggetto di una campagna di boicottaggio lanciata alla fine di marzo. I loro prodotti sono stati rimossi dai siti di commercio online cinesi. A giugno, Washington e Tokyo hanno imposto un blocco alle importazioni di beni con componenti provenienti dallo Xinjiang, che è un grande produttore di cotone, pomodori e polisilicio per pannelli solari.

Il rapporto delle Nazioni Unite non menziona il genocidio, ma afferma che le accuse di tortura, comprese le procedure mediche forzate, così come la violenza sessuale erano tutte “credibili”. Ha affermato che le autorità avevano ritenuto che la violazione del limite ufficiale di tre figli nella dimensione della famiglia fosse un indicatore di “estremismo” religioso, portando all’internamento.

Ha aggiunto che la mancanza di dati governativi “rende difficile trarre conclusioni sulla piena portata dell’attuale applicazione di queste politiche e sulle violazioni associate dei diritti riproduttivi“. In ogni caso, il rapporto ha osservato che il tasso medio di sterilizzazione per 100.000 abitanti in Cina nel suo insieme era di poco superiore a 32. Nella Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang era di 243. “Diverse donne intervistate dall’OHCHR hanno sollevato accuse di controllo forzato delle nascite, in particolare posizionamenti forzati di IUD [dispositivo intrauterino] e possibili sterilizzazioni forzate nei confronti delle donne uigure e di etnia kazaka. Alcune donne hanno parlato del rischio di dure punizioni tra cui ‘internamento’ o ‘carcerazione’ per violazioni della politica di pianificazione familiare“, afferma il rapporto. “Tra queste, l’OHCHR ha intervistato alcune donne che hanno affermato di essere state costrette ad abortire o costrette all’inserimento di IUD, dopo aver raggiunto il numero di figli consentito dalla politica di pianificazione familiare. Questi resoconti di prima mano, sebbene in numero limitato, sono considerati credibili“.

Gravi violazioni dei diritti umani sono state commesse nel contesto dell’applicazione da parte del governo di strategie antiterrorismo e anti-estremismo“, afferma il rapporto. “Questi modelli di restrizioni sono caratterizzati da una componente discriminatoria, poiché gli atti sottostanti spesso colpiscono direttamente o indirettamente comunità uiguri e altre comunità prevalentemente musulmane“.

Il rapporto chiede al governo cinese di “prendere provvedimenti tempestivi per rilasciare tutte le persone arbitrariamente private della loro libertà” nello Xinjiang e “chiarire urgentemente dove si trovano le persone le cui famiglie hanno cercato informazioni sui loro cari“.

Alessandro Scassellati

  1. Human Rights Watch sostiene che le autorità cinesi dal 2019 stanno raccogliendo campioni di DNA in modo sistematico in tutto il Tibet, compresi i bambini dell’asilo senza l’apparente consenso dei loro genitori, come parte di una campagna di “rilevazione del crimine“. Il Tibet è sotto il controllo cinese da quando è stato annesso più di 70 anni fa, in quella che i tibetani descrivono come un’invasione, mentre secondo Pechino è stata una pacifica liberazione da un governo teocratico.[]
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