“Il Congresso non ha il diritto alla mia testimonianza”. Così Mike Pence, vicepresidente durante l’amministrazione di Donald Trump mentre esprimeva la sua opinione sulla richiesta di testimoniare davanti alla Commissione sull’insurrezione del 6 gennaio 2021. Con la possibile incriminazione dell’ex presidente, però, Pence vede la cosa diversamente e secondo il New York Times sarebbe disposto a offrire testimonianze sulle conversazioni private con il suo ex capo.
La nomina di Jack Smith a procuratore speciale per dirigere le indagini sulla condotta di Trump nei documenti top secret trovati a Mar-a-Lago, residenza dell’ex presidente, avrebbe fatto cambiare idea a Pence. Smith sarà anche responsabile delle indagini sulle interferenze di Trump nel trasferimento pacifico del potere dopo le elezioni del 2020. L’ex vicepresidente, dopo l’elezione di Joe Biden, è stato occupato a scrivere il suo libro “So Help Me God” (Che Dio mi assista) ma ha anche fatto campagna elettorale per alcuni candidati repubblicani non trumpiani in Georgia e Arizona. I segnali sono chiari che ha tutte le intenzioni di candidarsi per la nomination del Partito Repubblicano alle elezioni del 2024.
Trump cercherà di bloccare le testimonianze di Pence usando la scappatoia del privilegio esecutivo che garantisce al presidente la riservatezza delle sue conversazioni con collaboratori. Il problema per lui è che una volta fuori dalla Casa Bianca queste decisioni sul privilegio esecutivo spettano al presidente in carica, ossia Joe Biden, il quale non è affatto propenso ad acconsentire, come si è visto in altre situazioni recenti. Inoltre, la Corte Suprema si è già espressa che in casi criminali il privilegio esecutivo non può bloccare le testimonianze.
Il ministro della Giustizia Merrick Garland aveva detto che il suo dipartimento poteva dirigere tutte le indagini ma subito dopo le elezioni di midterm ha cambiato rotta. L’annuncio di Trump di ricandidarsi e la probabile candidatura di Biden lo hanno spinto ad allontanare le indagini in corso su Trump da possibili suggerimenti di influenze politiche. L’uso del procuratore speciale aggiunge una sfumatura di obiettività anche se la decisione finale su una possibile incriminazione di Trump spetterà a Garland come ministro della Giustizia.
È la seconda volta che un procuratore speciale indaga l’operato di Trump. Il primo, va ricordato, fu Robert Mueller che indagò i contatti dell’ex presidente con la Russia e l’interferenza russa nell’elezione del 2016. Dopo lunghe indagini Mueller concluse che Trump non poteva essere scagionato da ostruzione alla giustizia ma che la direttiva del Ministero di Giustizia gli garantiva immunità come presidente in carica.
Nel caso attuale però la situazione è diversa poiché Trump è cittadino privato anche se il suo annuncio di ricandidarsi gli conferisce una certa giustificazione di strillare alla persecuzione politica del ministro di Giustizia. Garland capisce benissimo la spinosa situazione che mescola giustizia e politica, ma lui intende comunicare con gli americani di una certa obiettività e non ai fedelissimi sostenitori di Trump che stravedono per lui considerandolo incapace di fare del male.
Smith, il procuratore speciale nominato da Garland, si incaricherà di due indagini già in corso poco lontane dalla loro conclusione. Smith avrà tanti vantaggi su Mueller poiché non dovrà preoccuparsi di essere licenziato perché sta indagando il presidente in carica degli Stati Uniti. Avrà tutto il supporto di Garland ma ovviamente le frecciate di Trump potrebbero influenzare la sua condotta. Subito dopo l’annuncio di Garland, l’ex presidente ha attaccato la nomina e poco tempo dopo ha persino attaccato selvaggiamente Katy Chevigny, moglie di Smith. La ha accusata di avere contribuito fondi a candidati democratici citando anche la sua collaborazione in un documentario su Michelle Obama, ex first lady. Per Trump, un individuo come Smith non potrebbe essere obiettivo.
L’ex presidente sa benissimo che nel campo legale potrebbe avere serie difficoltà specialmente con le probabili testimonianze di Pence. Ecco perché Trump cerca sempre di politicizzare qualunque situazione per crearsi uno scudo, usando i suoi milioni di fedelissimi. Lo fa anche per alimentare richieste di contributi per la sua difesa dicendo ai sostenitori che lui sta difendendosi per difendere loro. L’ex presidente cercherà in tutti i modi di rallentare il percorso giudiziario e una possibile incriminazione sarebbe storica. Con ogni probabilità richiederebbe un intervento della Corte Suprema a causa di certissimi appelli data la litigiosità di Trump. Il problema per Trump è che le sue recentissime richieste di interventi delle Corti non gli hanno sorriso. La Corte Suprema ha recentemente deciso all’unanimità che deve consegnare le sue dichiarazioni di reddito al Congresso. L’unica luce di speranze per Trump si intravede dalla nuova maggioranza repubblicana alla Camera ad iniziare da gennaio del 2023, dove i più estremisti parlamentari stanno parlando ad alta voce di avviare indagini sull’amministrazione di Biden e di procedere all’impeachment di Garland. Si tratta di una maggioranza risicata (222 sul minimo di 218) e quindi ci sarà bisogno di quasi unanimità repubblicana alla Camera. Ciò costerà duro lavoro a Kevin McCarthy, eventuale speaker, anche se il suo incarico non è assicurato. Dovrà sudare sette camicie per guidare i parlamentari come hanno già visto i suoi due predecessori John Boehner e Paul Ryan.
Domenico Maceri, PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California. Alcuni dei suoi articoli hanno vinto premi della National Association of Hispanic Publications.