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Il «Ponte», un vecchio feticcio da demistificare  

di Felice
Rappazzo

Si sono appena concluse le elezioni regionali in Sicilia, lo scrutinio è iniziato e si è concluso con un giorno di sfasamento rispetto alle Politiche, Schifani è stato eletto trionfalmente e immediatamente ha dichiarato che la sua futura giunta realizzerà il Ponte sullo Stretto e due termovalorizzatori; intervistato al TG regionale poche ore dopo ha sostenuto che il suo principale impegno sarà quello di creare lavoro per i giovani siciliani, e, a questo scopo, avrebbe reso la Sicilia un territorio appetibile per gli investimenti.

Non ne avevamo dubbi: legando le due dichiarazioni e sommando due più due, è chiaro che proverà a fare quello che ci aspettiamo: dare in pasto la “sua” isola al capitale nazionale e internazionale, approfittando anche del PNRR pigliatutto. Per quale motivo, altrimenti, sarebbe stato designato dal centrodestra? Quale miglior coordinatore del Partito Unico degli appetiti e degli affari?

Non sappiamo come andrà a finire: quel che è certo è che quello del Ponte è il Feticcio più antico e consolidato delle propagande elettorali siciliane. In Sicilia siamo abituati a un bombardamento politico-mediatico continuo ma a bassa intensità, che da decenni insiste sulla bellezza e utilità, anzi indispensabilità della sua realizzazione; si calcolano mirabolanti effetti positivi sull’economia e sulla società, si controcalcolano (non so con quali strumenti e criteri economici) le enormi “perdite” per la sua assenza, si attivano le solite geremiadi sulla Sicilia trascurata e tradita.

Il Ponte – ricordiamolo – è senz’altro il primo dei grandi feticci in cemento e ferro dalle soluzioni avveniristiche e dagli esiti strepitosi; il primo in ordine di tempo, se non altro, nella Repubblica. TAV, MOSE, TAP, anche se molti lavori sono andati avanti, e molti gravi danni compiuti, nel tempo, sono comparsi più tardi. Il Ponte è, per fortuna, fermo: segno del fatto che la Sicilia è derelitta, secondo i piagnistei giornalistici e politici; segno forse dell’impossibilità tecnica di realizzarlo, o di oscuri contrasti nel mondo dei potenti. Ma un bel po’ di soldi sono già stati spesi per progetti, costituzioni di Società ecc. Con una immagine solo un po’ iperbolica Tomaso Montanari ha sostenuto tempo fa che con i soldi già spesi per queste ragioni si potrebbero tenere aperte per un millennio le migliaia e migliaia di chiese, patrimonio dello Stato, che subiscono chiuse il degrado e i furti di materiali preziosi, nella generale noncuranza.

In passato uno dei giornalisti locali più noti giunse a proporre addirittura la fantasmagorica soluzione estetica di porre copie in grande dei Bronzi di Riace, naturalmente illuminate, sulle torri del costruendo Ponte. Passata la grottesca proposta, non si è allentata la pressione, e così abbiamo assistito a mitragliate di articoli, a interventi quasi minacciosi di imprese e gruppi di pressione, a prese di posizione di politicanti (come al solito trasversalmente uniti, con le consuete variabili nei toni, ma non nella sostanza) e di istituzioni; si evocano interessi e generose disponibilità a “farsi carico” dell’onerosa realizzazione da parte di grandi imprese o grandi holding internazionali, perfino cinesi. Un giornale che ha una sua utilità, il “Quotidiano di Sicilia”, nel quale si intravedono legittimi interessi di settori imprenditoriali, e che naturalmente propugna discretamente ma ostinatamente la realizzazione del Ponte, ha pubblicato tempo fa un articolo nel quale alcuni tecnici avrebbero individuato nel Grande Manufatto addirittura una miracolistica capacità di riduzione dell’inquinamento: si sa, le navi hanno le ciminiere e fanno fumi! Il Ponte invece no. Tipico esempio di quella che già Aristotele definiva «fallacia logica»; o meglio, di mancanza del senso del ridicolo.

Nel frattempo accade che le strade interne siciliane, tortuose, strette, piene di rattoppi, le stesse autostrade caschino a pezzi, che se ne chiudano tratti o corsie, che, durante e dopo ogni pioggia, spostarsi sulle decrepite provinciali – o anche statali – dell’interno è più rischioso che attraversare la savana durante una pioggia tropicale; che insomma, raggiungere molte località delle provincie interne, anche popolose, è un’impresa, e va anche peggio per chi deve spostarsi, per lavoro o con merci, in direzione contraria, verso la costa e le sue città; e non parliamo delle emergenze sanitarie, dei servizi, dell’istruzione. Quanto alle ferrovie, si inaugurano, con tanto di ministri, stazioni (come quella di Piazza Europa a Catania, a un chilometro e mezzo dalla Stazione Centrale) dove da anni non si ferma quasi nessun treno e che non alimenta nessuna nuova linea per l’alleggerimento del traffico automobilistico, ma in compenso si chiudono tratte, si limitano fin quasi a zero le corse, si viaggia a ritmi ottocenteschi: suggestivo per gli antropologi e per i turisti in cerca di esotismo, un po’ meno per la popolazione che dovrebbe servirsene. La cosiddetta Venere di Aidone (una splendida scultura in arenaria che è in realtà quasi certamente Demetra: ma dire “Venere” è più suggestivo per i media), assieme agli altri reperti raccolti nel piccolo e prezioso e ignoto museo archeologico della cittadina dell’Ennese, passa le notti a sognare i turisti che possano ammirarla, dopo l’avventura dell’attraversamento della cretosa e franosa campagna dell’isola: dove, assieme ad un decoroso fondo stradale, manca spesso perfino la segnaletica.

Ma no! il problema vero, se non unico e solo della società siciliana, della sua economia è il Ponte. Ebbene non occorre (o meglio: occorre ma non basta) confutare ostinatamente i vecchi argomenti propagandistici della grande impresa dei conglomerati cementizi; che sia necessario, ma non sufficiente, notare che la Gran Bretagna si è fatta grande senza alcun ponte sulla Manica e che anzi il Tunnel sotto la Manica non è stato il successo che si pensava; che la Calabria e tutto il Mezzogiorno non se la passano tanto meglio della Sicilia sol perché non c’è un breve tratto di mare da attraversare; e così via. Questi argomenti colpiscono per breve tempo gli interlocutori occasionali, ma a medio e lungo termine non fanno breccia. Il “popolo” vuole comunque il Ponte, anche se in maniera meno convinta e virulenta rispetta a qualche decennio fa, se non altro perché l’antico e faticoso attraversamento in treno sui grandi ferry-boats delle Ferrovie dello Stato è ormai un ricordo per i più: si viaggia freneticamente, infatti, in aereo, per nave, in auto, in bus. Non dico che sia un bene, ma è un fatto. Il “popolo” vuole il Ponte, se interrogato, perché la lunga propaganda a suo favore poggia sulla memoria delle lunghe attese ai traghetti, sotto il sole (ci sono anche oggi, ma solo nei giorni di punta); e sull’immaginario, ossia sul simbolico, e li crea ed alimenta; proprio perché il Ponte ha la natura di un feticcio (dal latino facticius o ficticius, cioè fittizio, plasmato artificiosamente, in una parola “falso”, se si vuole fake, o, in gergo giovanile siciliano, «faglio»).

Di feticismo, in maniera e su tematiche molto diverse (sebbene in fondo convergenti), si sono occupati Marx e Freud, sulla scia degli antropologi dell’Ottocento e alimentando quelli del Novecento e oltre; e anche Nietzsche ha indirettamente contribuito alla riflessione sull’argomento. Senza scomodare queste importanti figure, ma solo ricavando riflessioni e nozioni dalle loro opere, chiediamoci qual è la funzione del feticcio. Si tratta di una funzione dalle due facce: un feticcio è un segno o un oggetto che nasconde e sostituisce, che allude a una potente e nascosta realtà, e che come tale è sacrale e va onorato e adorato; ma che al tempo stesso la nega e la fa diventare invisibile come una maschera, che sposta l’attenzione su di sé e la distrae dall’ altro, il Reale che nasconde. Come tutte le grandi opere inutili e dannose (le già evocate TAV, MOSE, TAP, alcune infrastrutture e centri direzionali di cui poco sappiamo, nuovi quartieri e new towns, e chi più ne ha più ne metta), buone solo per la speculazione edilizia e finanziaria, per l’accumulazione speculativa capitalistica anche se, per mirabolante avventura, non devesse esserci ombra di mafia in esse (!), il Ponte non serve ad accrescere il benessere delle popolazioni, a collegare meglio Nord e Sud, addirittura a ridurre al gap fra le due aree del Paese (piuttosto che riequilibrarlo economicamente e demograficamente possiamo star certi che esso alimenterebbe – se ce ne fosse bisogno – la grande fuga dalle aree interne e dalla Sicilia in genere, l’incremento delle importazioni di beni facilmente reperibili o producibili in loco). Su questo non dovremmo avere dubbi. Ma esso, come tutti i feticci, fa correre altri rischi: in primo luogo quello che, una parola oggi, una delibera domani, si cominci a lavorarci sul serio, sia pure per lasciare le cose a metà. Ma certamente evocare il Ponte da una parte serve a costruire una narrazione, una mitologia, anzi una mistificazione; dall’altra alimenta le illusioni di un miglioramento di vita (fase uno del feticcio: essere una maschera) e al tempo stesso (fase due: nascondimento della sostanza) contribuisce ad accrescere il nocciolo duro della civiltà moderna, l’inseguimento della velocità, dell’abbondanza, dell’innovazione, dei lustrini e del superfluo, dei consumi e dello spreco, dell’anarchia produttiva; dunque della accelerata distruzione del pianeta. E della demolizione dell’intelligenza e della sensibilità, della bellezza e della cultura delle prossimità.

Combattere contro questo mito è dunque necessario, come primo atto reale e simbolico della cultura del conflitto che, anche se assenti dalla competizione elettorale (non abbiamo avuto la forza di gestire, in Sicilia, due elezioni contemporaneamente), dobbiamo continuare a coltivare e a praticare, come possiamo.

 

di Felice Rappazzo, per il Circolo “Gabriele Centineo” di RC, Catania

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