Rom, in maniera più dispregiativa zingari o, perdendo il senso della realtà “nomadi”. Sono questi i termini con cui una minoranza plurale, in alcune aree dell’Italia presenti da secoli, in altre giunte più recentemente, si etichetta e si fossilizzano storie complesse. Storie di discriminazioni e di vere e proprie campagne repressive, molto spesso ma anche di vicende passate sotto traccia in cui lo scontro con i sedicenti autoctoni non c’è stato anzi si è tramutato anche in incontro e condivisione. Oggi che la presenza rom è sparita dalle prime pagine dei giornali, nonostante le condizioni di vita nei cosiddetti “campi autorizzati”, ai margini delle aree urbane e, ancor più in quelli “abusivi”, sia ulteriormente peggiorata, esce per la collana “Nodi dell’Italia repubblicana”, curata da Michele Colucci per Carocci, finalmente un libro che cerca di ricostruire gli ultimi settanta anni di relazione con la società italiana. L’autore, Sergio Bontempelli, pisano, da molti anni si occupa tanto come attivista che come ricercatore della vastità di questo mondo spesso affrontato con superficialità e pregiudizio, anticamera di uno storico antiziganismo. Secondo Bontempelli, il cui libro è arricchito da un’ampia bibliografia, lo stesso tentativo di definire una “statica” cultura che lega rom, sinti e camminanti è il principio da cui nasce la costruzione di una vera e propria gabbia. Un recinto di narrazione che quando non è animato da chiari intenti persecutori, definisce la caratteristica del “buon selvaggio”, dei cosiddetti figli del vento, liberi, privi di nazione, inadeguati alla modernità, prigionieri un passato arcaico fatto di mestieri che sopravvivono malapena: giostrai, artigiani del rame, divinatori del futuro, musicisti e quanto altro. Incarnare in un sogno di libertà comunità, uomini, donne, bambini, così diversi fra loro significa farne una sorta di archetipo immutabile, lontano da noi “sedentari”, ma soprattutto incompatibili col presente. Poi a volte, nel descrivere, da etnografi del secolo scorso, le caratteristiche tipiche che distinguono un “noi” da un “loro”, si introducono elementi inquietanti: sono inaffidabili, falsi, vivono di carità e di furti perché “nella loro cultura” il lavoro non esiste. L’intensificarsi di odi diffusi verso ogni forma di diversità, il prevalere di logiche per cui la “percezione dell’insicurezza” e la paura, diventano dominanti, hanno anche fatto si che l’aura romanticheggiante con cui si indicava “lo zingaro”, perdesse anche ogni connotato, artificiale ma almeno positivo, facendo divenire queste popolazioni il pericolo sociale per eccellenza, gli scarti dell’umanità di cui liberarsi, quelli che, se non si adeguano ai “nostri valori” non hanno neanche il diritto di fermarsi, di avere quelle condizioni di esigibilità dei diritti primari: sanità, scuola, casa, acqua. Se, come racconta l’autore, con un linguaggio semplice ed efficace, fino agli anni Sessanta prevalevano forme di tolleranza e sovente di condivisione degli spazi, avvicinandosi alla fine del ventesimo secolo, il piano si è spostato sulle logiche di esclusione e di separazione. Un breve passaggio ad un approccio caritatevole e poi via, nell’inferno dei pacchetti sicurezza in cui uomini, donne e bambini, sono stati triturati. L’avvento dei primi “campi sosta” per agglomerati di famiglie che da decenni erano stanziali ha provocato da una parte la rabbia di una parte degli autoctoni, di chiara impronta razzista, dall’altra ha generato nei rom, sinti e camminanti stessi, il terrore di rivedere pratiche risalenti al nazismo. Il timore era ed è tutt’ora quello di entrare in un “campo”, apparentemente tranquillo, magari sorvegliato, in cui si è anche arricchita una parte di privato sociale per progetti di “integrazione”, per poi ritrovarsi il filo spinato e la polizia a rinchiudere e a controllare. Il libro, inserito in una collana che tratta diversi aspetti della recente storia italiana, compie l’operazione forte di non produrre separazioni artificiose, di non circoscrivere una inesistente comunità rom fuori dalle relazioni sociali con il mondo altro. Il punto di partenza è in una carenza cognitiva fondamentale. Non sappiamo quante siano le persone che si considerano rom, sinti o camminanti, solo una parte, quella giunta nei decenni più recenti parla le diverse variazioni della lingua romanesh, gli altri sono inseriti a pieno titolo nel presente, vivono in case, non hanno conosciuto la “stagione dei campi” ed esercitano mestieri comuni. Ma per una cultura coloniale che ancora permea la nostra percezione del mondo, il rom è tale in quanto vive in una particolare condizione socio abitativa, in quanto povero, spesso mendicante o ladro appunto, i suoi figli non vanno a scuola, non sono avvezzi a lavarsi (poco importa che nei campi in cui sono recintati manchi l’acqua), e in cui le donne procreano troppo. L’autore si scaglia, con rigore scientifico e passione morale, contro la letteratura folkloristica ancora dominante secondo cui, ad esempio, “lo zingaro non ha della proprietà privata lo stesso concetto dei sedentari”, da cui la congenita attitudine al furto. Leonardo Piasere, ripreso da Bontempelli, afferma che “le culture dei rom -al plurale – sono il frutto della storia e, in particolare della storia dei rapporti con i “non zingari”. La pluralità, l’essere un mondo di mondi, una “galassia di minoranze”, in continua mutazione nel relazionarsi col presente, è per l’autore un carattere necessario per comprendere. “La storia italiana non procede in maniera lineare” si sottolinea nel volume: «Nei primi anni Cinquanta, secondo alcune stime, vi erano più di 200 mila famiglie italiane che vivevano in grotte, capanne, baracche o vecchi rifugi antiaerei. Molto spesso, baraccati rom e non rom vivevano negli stessi insediamenti. Emblematico il caso di via del Mandrione a Roma: qui, in tempo di guerra, avevano trovato rifugio gli sfollati del bombardamento di S. Lorenzo. […]L’insediamento, smantellato nel 1984, ospitò anche gruppi di rom: molti di loro provenivano dall’Abruzzo e dalla Campania e- come tanti altri lavoratori del Meridione – erano emigrati a Roma in cerca di lavoro e fortuna». Nei primi anni Settanta la Capitale conobbe amministrazioni che attuarono una politica abitativa indifferenziata in cui il soddisfacimento del bisogno era prevalente rispetto alla provenienza. Con l’arrivo dei primi rom balcanici scattò quasi immediatamente un allarme che la politica non fu in grado o scelse di non gestire nel timore di veder eroso il proprio consenso. Pensando di cavarsela con leggi regionali definite “Interventi a tutela della cultura rom” si differenziarono le politiche sociali e abitative a partire da una incompatibilità culturale che poggiava unicamente sul pregiudizio. Non sono gli italiani a volerli nei campi, anzi, “proteggiamo la loro cultura tenendoli ai margini, nei campi appositi” si diceva più o meno espressamente. Il passaggio è breve: tra la fine degli anni Novanta e i primi dieci anni del nuovo secolo, i Comuni prima applicano le leggi regionali, poi di fronte agli arrivi, non massicci ma visibili di popolazioni prima kosovare e poi rumene, considerati rom, attuano politiche securitarie come forma di contenimento al degrado di cui, chi fugge, è per sua “natura” portatore. Una guerra non dichiarata contro tutti i poveri che trova nei gruppi rom il punto più vulnerabile. Sono in pochi ad opporsi a quelle che andrebbero definite come vere e proprie persecuzioni. Nel libro è ben definita una prima fase in cui destra e sinistra provano ad avere approcci diversi. Poi si arriva ai “sindaci sceriffi” di diverso colore, da Treviso a Bologna, alla svolta determinatasi dopo un orribile fatto di cronaca, l’omicidio della signora Reggiani, compiuto da un rom, a Roma, nei pressi di una stazione semi abbandonata e denunciato da una donna rom, diviene la scintilla affinché il sindaco della città, Veltroni, prossimo ad elezioni, propone la repressione come unica soluzione. Si cerca di rimpatriare 20 mila cittadini rumeni – azione propagandistica inutile e indiscriminata verso persone ormai comunitarie e già libere di muoversi nello spazio europeo – e, come vero e proprio atto di rappresaglia, l’allora governo Prodi di centro sinistra, attua il primo “pacchetto sicurezza”, votato all’unanimità nel Consiglio dei ministri, anche dalle forze della sinistra radicale. Siamo nel 2007, partono i piani per le “città sicure”, che iniziano con il sindaco di Bologna Cofferati e si ripetono in molte città. Sgomberi continui di insediamenti abusivi, c’erano manifesti targati Partito Democratico che parlavano di “bonifica del territorio”, deportazioni e tentativi di marginalizzare sempre più chi viveva nei campi. Erano piani costosi, spesso inutili, ma individuavano un nemico che di volta in volta era il senza fissa dimora, il rom, il migrante, comunque il povero e la condizione stessa di povertà. L’autore prende spunto anche da numerosi episodi accaduti nel Paese per mostrare come questo perimetrare gli spazi di vita delle persone non produca altro che disagio dovuto all’immutabilità delle condizioni sociali. Così come si racconta statica e monolitica una cultura, si assume la condizione di marginalizzazione come inevitabile. Bontempelli denuncia come tali politiche escludenti abbiano creato indotti economici. La riduzione a progetto predeterminato, della vita delle persone come escamotage per guadagnare, speculare, divenire i custodi di chi, nella migliore ipotesi, è primitivo e inadatto ad orientarsi nel presente in maniera “normale”. Il tutto attraverso progetti di cui i rom sono oggetti e non soggetti attivi. Si lavora “per i rom” perché da soli sembra non possano farlo, sono come bambini che hanno bisogno del “buon ente caritatevole e autoctono” che ne interpreta e ne definisce le esigenze. Al securitarismo si accompagna la etnicizzazione delle questioni sociali. È il Paese che, ignorando la pluralità dei mondi definiti come “rom”, deve fare i conti con un equivoco di fondo basato sulla percezione di superiorità innata degli autoctoni, “puri”, se mai esistono, che non riconosce il meticciato, il continuo adeguarsi delle identità e delle culture, atto di cui ognuna/o di noi, rom, o meno, è attore. Riflessioni di questa portata, condensati in un volume, rendono il lavoro di Bontempelli unico. Uno strumento utile a sapere e a decostruire. Oggi dei rom si parla meno per molte ragioni: l’attenzione si è per ora, spostata su altri, i campi debbono restare il regno del silenzio rotto solo da qualche isolato intervento di amministrazioni illuminate, eccezioni che confermano una regola non scritta. “Loro sono gli ultimi di cui occuparsi”. Molti lo hanno capito e se ne sono andati dall’Italia, cercando fortuna dall’altra parte dell’Atlantico o tornando in alcuni Paesi dell’Est Europa. Molti si sono nascosti, anche cambiando il proprio cognome e scegliendo l’assimilazione come alternativa per sopravvivere Questa pubblicazione è necessaria perché tira fuori la polvere da sotto il tappeto, non alimenta miti né offre soluzioni ma problematizza non un popolo, peraltro indefinibile ma una relazione tutta interna alla nostra storia. Buona lettura