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I guerrafondai, i sonnambuli e i movimenti per la pace

di Alfonso
Gianni

Anticipiamo questo articolo di Alfonso Gianni che farà parte della news letter dell’Osservatorio Unione Europea di prossima pubblicazione. –

Non era mai successo nulla di simile: un impero (la Gran Bretagna) promette una terra non sua
a un popolo che non ci vive senza chiedere il permesso a chi ci abita1

Gideon Levy

 

Cessate il fuoco! Ora! Questo grido, rivolto in particolare alle due più sanguinose guerre in corso -tra le 60 attualmente in atto nel mondo-, in Ucraina e in Palestina, ha attraversato le piazze e le strade delle principali città del Sud e del Nord del globo terrestre. Il popolo della pace, variegato e multiforme, è tornato a farsi, sentire, ad imporsi all’opinione pubblica, malgrado i tentativi di nasconderne o sminuirne la forza e l’estensione da parte dei mass media mainstream. Non siamo di fronte a quella dimostrazione di grande forza e compattezza, pur nell’articolazione geografica, che contraddistinse le celebri manifestazioni del 15 febbraio del 2003 e che fecero scrivere al New York Times che aveva preso corpo una seconda potenza mondiale. Neppure quella straordinaria prova di forza fermò la guerra, ovvero l’aggressione degli Usa e dei paesi volenterosi all’Iraq. Ma essa entrò nella storia, sedimentò una diffusa coscienza civile, trasformò il pacifismo da una opzione morale e individuale in un obiettivo politico condiviso da milioni di persone disposte ad attivarsi per il suo conseguimento. Le manifestazioni che si sono susseguite in centinaia di città lo scorso 13 gennaio2 e che continueranno a riproporsi e ci auguriamo a crescere, non sarebbero potute avvenire senza poggiare sull’humus fertilizzato da quella storica giornata di inizio di secolo. E a farlo in condizioni assai più difficili di allora. Nel 2003 l’obiettivo era chiaro: impedire agli Usa di fare quello che poi hanno fatto in Iraq, sconvolgendo quel territorio e l’insieme del Medio Oriente, con conseguenze che proprio ora mostrano i loro devastanti effetti. Adesso la situazione – basti pensare in particolare alla guerra in Ucraina – appare più complessa, meno immediata è l’individuazione delle cause e degli agenti che sono entrati in gioco. La guerra non è più solo una guerra mondiale a pezzetti – secondo la famosa e preziosa definizione di papa Francesco – e non ancora una guerra mondiale a tutti gli effetti, ovvero con il coinvolgimento diretto delle maggiori potenze mondiali. Ma è una guerra che si è fatta mondo, che ha già in tutto e per tutto dimensioni e implicazioni mondiali, che determina le scelte politiche dei vari Stati, delle Unioni sovrannazionali, delle Organizzazioni internazionali, che sovraordina l’andamento dell’economia, impone svolte ed accelerazioni alle risposte e svolte date e da dare a quel processo di globalizzazione che già era entrato in crisi nel 2008 e durante la pandemia. Per questo il “cessate il fuoco” assume una valenza generale, pur nelle necessarie specificità delle sue possibili applicazioni. Va da sé che non basta a guarire un mondo guasto – per usare l’espressione di Tony Judt3- una misura emergenziale come “cessare il fuoco”. Va da sé che tanto per quanto riguarda la situazione della guerra russo-ucraina quanto per quella israelo-palestinese è necessario fin d’ora delineare, almeno per l’essenziale, le linee che conducono ad una pace duratura. Ma è ancora più evidente che bisogna da subito interrompere l’inutile massacro in corso;  senza questo stop è semplicemente impossibile porre in atto quelle condizioni che possano spingere verso la pace.

Il fronte russo-ucraino

Lo scontro bellico in Ucraina si è attestato su una situazione di stallo. La controffensiva promessa e minacciata a più riprese da Zelensky si è fermata  sulla soglia degli annunci. I russi più che ad avanzare pensano a solidificare le loro posizioni sul campo. Così ambedue gli schieramenti paiono volere passare il rigido inverno – o parte di esso – minando i campi e costruendo opere di protezione. Il che non elimina bombardamenti, uccisioni di militari e soprattutto di civili, distruzioni del territorio, delle abitazioni e delle infrastrutture fisiche. Zelensky avverte l’indebolimento del sostegno occidentale, anche perché il dramma di Gaza sta catalizzando l’attenzione mondiale, ed è corso a Davos per promuovere incontri  a latere del tradizionale Forum economico mondiale, giunto alla sua 54° edizione, ove erano presenti oltre 60 capi di Stato e 2800 invitati. L’intenzione del presidente ucraino è di presentare un piano di pace interamente fondato sul punto di vista di Kiev. In assenza però della Russia. Il che è stato immediatamente rilevato dal portavoce del Cremlino Dimitry Peskov con una ruvida dichiarazione che ha bollato le conversazioni a Davos di Zelensky come inutili poiché  non porteranno “ad alcun risultato senza di noi”.4

Nel frattempo il portavoce americano John Kirby aveva  reso noto che l’assistenza americana all’Ucraina doveva considerarsi conclusa e appare meno probabile che possa essere ripresa prima della fine della campagna elettorale presidenziale. Come affermano alcuni attenti osservatori in campo militare, ormai l’Europa ha sorpassato, per la quantità di aiuti, il sostegno statunitense. Il che non dispiace affatto agli americani, che vedono di buon occhio un’europeizzazione del conflitto. Ma l’aiuto europeo è soprattutto in denaro, non in armamenti sofisticati di qualità che servirebbero agli ucraini per sostenere lo scontro contro gli armamenti di cui dispongono i russi. Quello che l’Europa ha  non lo cede facilmente, se si eccettua la recente disponibilità dichiarata dal cancelliere tedesco Olaf Scholz a mettere in campo per l’Ucraina i suoi sistemi di difesa più moderni.

 

L’accordo siglato tra Gran Bretagna e Ucraina

Fuori dalla Ue, ma in Europa e soprattutto nella Nato, c’è però chi si muove con molta solerzia e su più fronti, come quello ucraino e quello mediorientale. Si tratta, ovviamente,  della Gran Bretagna, il cui Primo ministro, Rishi Sunak ha siglato un accordo con Kiev il 12 gennaio i cui contenuti sono peggio che inquietanti. Per dirla in breve l’accordo prevede che in caso di un nuovo attacco russo all’Ucraina, i due paesi contraenti si consulteranno entro 24 ore prevedendo l’intervento del Regno Unito a sostegno di Kiev  e viceversa, ossia nel caso di un’aggressione  della Russia alla Gran Bretagna  spetterebbe all’Ucraina correre in suo soccorso. Il tutto al di fuori della Nato, che nel patto non viene neppure menzionata, ed evidentemente contro ogni eventuale ruolo mediatore della Ue, qualora volesse assumerlo.

Intanto si aggiungono e si rafforzano altri venti di guerra, che mettono in forse la prosecuzione per l’intera stagione invernale della situazione di stallo sul fronte russo ucraino. L’Institute for the Study of War (Isw)5  sostiene che i russi non aspetterebbero la fine dell’inverno per riprendere l’offensiva, ma che la potrebbero riavviare già dai primi di febbraio, quando il terreno sarà congelato e quindi in grado di permettere l’avanzamento dei carri armati, cosa che nel fango non sarebbe possibile. Mentre il tedesco Bild lascia trapelare che il Ministero della Difesa della Germania ritiene più che possibile uno scontro militare diretto tra Nato e Russia lungo lo stretto passaggio terrestre polacco-lituano tra Bielorussia e Kaliningrad. Naturalmente Il Ministero tedesco con conferma ma nemmeno smentisce, cosa che invece fa Mosca, ma tutto questo è indice del clima bellicista che invade stampa e cancellerie d’Occidente, mentre ben diverso è l’atteggiamento  dei Brics e in generale dei paesi del Sud del mondo. La notizia portata da Bild ha comunque elevato le preoccupazioni già ampiamente presenti sulla possibilità che si vada verso una terribile terza guerra mondiale. Basta leggere l’incipit di una nota a cura della Redazione dell’agenzia giornalistica Ansa: “Uno scenario da Terza guerra mondiale delineato in tempi e movimenti, con tanto di cifre di mobilitazione militare, azioni di “guerra ibrida” e sviluppo sul terreno mese dopo mese. Fino a culminare nel dispiegamento di centinaia di migliaia di soldati della Nato e nello scoppio del conflitto tra Russia e Alleanza atlantica nell’estate del 2025. E’ la distopia contenuta in un ‘documento segreto’ del ministero della Difesa tedesco svelato da Bild che delinea nel dettaglio un possibile ‘percorso verso il conflitto’ tra Vladimir Putin e la Nato.”6 Comunque sia, la Nato non ha perso tempo ed ha subito annunciato l’avvio della più imponente esercitazione dai tempi della guerra fredda, la Steadfast Defender 2024, che coinvolge ben 90mila uomini.

 

La situazione interna a Ucraina e Russia

Intanto la situazione interna ai due paesi  ha subito diversi scossoni che ne hanno minato l’immagine di compattezza che ognuno dei belligeranti vuole dare di sé. Se la vicenda, mai del tutto chiarita quanto a obiettivi e modalità, della “divergenza”, se non vogliamo chiamarla ribellione, di Evgenij Prigozin si è risolta assai sbrigativamente con l’eliminazione fisica di quest’ ultimo, più complesso appare il quadro interno ucraino. Si sta aprendo una crepa sempre più crescente tra Zelensky e i vertici militari, diversi dei quali non vedrebbero di cattivo occhio l’aprirsi di un negoziato con i russi, per ora vietato per legge. Né hanno accettato volentieri l’ampliamento della chiamata alla leva fino a 27 anni. In particolare sono cresciuti i gradimenti – un recente sondaggio lo dimostrerebbe – nei confronti del comandante Zaluzhnyi fino a superare nettamente quelli nei confronti del presidente ucraino, che appare vistosamente in discesa. Stando alle rilevazioni sondaggistiche – il cui valore, è bene sottolinearlo,  in tempo di guerra è più che mai relativo – ben più solida appare la posizione di Putin rispetto al suo elettorato. Ma la situazione di stallo non può durare a lungo, come abbiamo già visto. O fornisce l’occasione per aprire varchi a un negoziato di pace, o può preludere ad una ripresa ancora più massiccia  e distruttiva della guerra.7

Il dibattito nel Parlamento italiano sull’invio di armi all’Ucraina

Non si può dire che nel quadro italiano si sia scelta la prima delle due alternative. Nel dibattito parlamentare alla ripresa dei lavori  dopo le festività, il Ministro della Difesa Crosetto ha assemblato dichiarazioni in apparente contraddizione fra loro. Da un lato ha rivelato che esisterebbero le condizioni per una “incisiva azione diplomatica perché si rilevano una serie di segnali importanti che giungono da entrambi le parti in causa” e più precisamente che “le dichiarazioni di diversi interlocutori russi evidenziano una lenta e progressiva maturazione di una disponibilità al dialogo per porre fine alla guerra. In Ucraina  il fronte interno appare meno compatto  che nel passato nel sostenere la politica del presidente Zelensky”.8 Dall’altro lato ha ribadito con forza il sostegno inalterato all’Ucraina – il nostro paese a dicembre ha inviato l’ottavo pacchetto di aiuti in “armi di difesa” a Kiev – considerando un errore strategico fermarsi ora. Ci si sarebbe aspettati dall’opposizione parlamentare e dalla sua maggiore formazione, il Pd, la capacità di introdursi in questa contraddizione della posizione del ministro per allargarla a favore di un cambiamento di linea che puntasse non al rifocillamento armato, ma a una svolta trattativista. Non è accaduto. Anzi. Il Pd ha votato la sua mozione, astenendosi su quella del governo, su cui in passato aveva votato a favore. Nessuna svolta, perché anche la mozione del Pd prevedeva la continuazione dell’invio di armi. Il che non lo ha salvato da una defezione nel voto da parte di una pattuglia di parlamentari corsi in sostegno al governo e alle destre, guidata dall’ex ministro della difesa Lorenzo Guerini che ha rivendicato coerenza con la sua passata attività di ministro. Come dire: la pezza peggio del buco. La sola ex segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso, al Senato si è astenuta sui punti della mozione del Pd che prevedevano l’invio di armi. Non contenti di ciò, esponenti della segreteria hanno assicurato che per tutto il 2024 il decreto governativo di prolungamento degli aiuti riceverà il voto favorevole del Pd. Difficile immaginare una distanza maggiore da quel popolo della pace che si sta rimettendo in cammino.

Il conflitto in Medioriente si allarga

In Medio Oriente non solo tutte le richieste di cessare il fuoco e perfino di tregua umanitaria vengono respinte con grande spregio anche per chi le avanza, ma, come era facilmente prevedibile, la guerra si estende e si allarga. Ormai la dimensione regionale dello scontro è stata raggiunta. Lo Yemen e il Mar Rosso sono pienamente entrati a fare parte del teatro di guerra. I bombardamenti statunitensi, cui si sono aggiunti quelli inglesi si susseguono con sempre maggiore continuità ed insistenza. Non c’è da stupirsi. Guerra chiama guerra. La stampa internazionale parla di risposta agli attacchi alle navi che transitano in quel tratto di mare da parte dei ribelli Houthi. Una foglia di fico per ridare una parvenza di dignità ad azioni di guerra mosse da ragioni economiche e geopolitiche. Difficile infatti definire “ribelli” gli Houthi che ormai governano Sana’a, la capitale – ove decine e decine di migliaia di abitanti (le immagini sono davvero impressionanti) reagiscono ai bombardamenti manifestando contro gli Usa e Israele -, controllano il 70% del territorio yemenita e l’esercito. Il loro legame con l’Iran è esplicito. La guerra contro lo Yemen è quindi un’ulteriore tappa di avvicinamento ad uno scontro diretto con l’Iran, che per il momento nessuno è in grado di sopportare, ma verso il quale, bomba dopo bomba, si sta rotolando.

D’altro canto, quando entrano in gioco nell’immediato enormi interessi economici, le potenze occidentali non si risparmiano rischi per l’intero pianeta. La navigazione dallo stretto di Bab el Mandeb fino a Suez non è più solo minacciata, ma  è praticamente impedita. Questo costringe molte compagnie a scegliere la strada più lunga, la circumnavigazione dell’Africa, con un aggravio di costi considerevole. Lo stretto di Bab el Mandeb è infatti la principale porta di ingresso delle merci europee dirette verso l’Asia, e viceversa; si stima che un terzo delle navi container di tutto il mondo passi da lì. Il prezzo del petrolio è cominciato subito a salire o meglio a essere sottoposto a frequenti e improvvise oscillazioni. Il Brent ha superato gli 80 dollari a barile. Il costo di un container in partenza dalla Cina per l’Europa è di giorno in giorno in ascesa. Le connessioni prodotte dalla globalizzazione, già strappate e messe a dura prova dalla crisi economico-finanziaria di quindici anni fa e dalla recente pandemia, subiscono una ulteriore  lacerazione dalla guerra in corso.

E certamente non è l’attacco anglo-americano allo Yemen che può pretendere di ricucire quegli strappi nel tessuto del commercio internazionale, malgrado che l’obiettivo esplicitamente dichiarato sia quello. Piuttosto ottengono l’effetto di una ulteriore radicalizzazione delle posizioni yemenite, i cui rappresentanti – come il Consiglio politico dello Yemen –  hanno subito dichiarato di considerare tutti gli interessi anglo-americani come obiettivi legittimi su cui scaricare la risposta alle aggressioni subite. La situazione allarma, e pour cause, anche l’Arabia Saudita, che però, come al solito, si limita a chiedere agli Usa moderazione. Gli attacchi statunitensi allo Yemen sono diventati anche oggetto della lunghissima campagna elettorale che si concluderà il 5 novembre negli Usa, poiché i bombardamenti sono stati effettuati senza la minima discussione e tantomeno l’approvazione di Capitol Hill. Non sono solo i repubblicani, per evidenti ragioni strumentali, ad accusare Biden di avere scavalcato la Costituzione, ma anche esponenti progressiste quali  Rashida Tlaib e Cori Bush, e liberal , come Ro Khanna, che ha scritto su X che “Il presidente deve presentarsi al Congresso prima di lanciare un attacco e coinvolgerci in un altro conflitto in Medio Oriente. Questo è l’articolo I della Costituzione. Lo difenderemo, indipendentemente dal fatto che alla Casa bianca ci sia  un democratico o un repubblicano”.9

Cosa intenda fare l’Unione europea rispetto alla situazione nel Mar Rosso non è ancora del tutto chiaro. All’operazione Usa Property Guardian, che ha attaccato lo Yemen nella notte tra l’11 e il 12 gennaio, ha partecipato anche l’Olanda limitatamente ad un appoggio logistico. Si sa che Danimarca e Grecia spingono per un intervento europeo, più prudenti restano gli altri. L’Italia ha due fregate nel Mar Rosso, nel quadro dell’operazione Atalanta contro la pirateria nel Corno d’Africa. Per ora Crosetto s’iscrive tra i prudenti, non volendo aprire un nuovo fronte di guerra “in questo momento”. Ma si prevedono riunioni a livello europeo che potrebbero inclinare verso una linea interventista diretta, in questo caso trascinandosi appresso anche il nostro paese.

Il confine con il Libano diventa sempre più caldo. La situazione sempre meno sotto controllo. Finora Hezbollah si è limitato ad alzare la voce contro le provocazioni tutt’altro che solo verbali degli israeliani. Ma è chiaro che se questi ultimi, nella loro insana bulimia bellica, insistono nelle loro azioni  la situazione non potrà restare a lungo in equilibrio su questo scivoloso crinale. Un’altra strada per cui la guerra ci porta verso  Iran.

Le manifestazioni pacifiste negli Usa

Intanto cresce anche negli Usa, e non solo nelle università, un movimento che chiede il cessate il fuoco e l’avvio di negoziati e percorsi che portino alla pace. In sostanza una politica che affronti e componga le controversie internazionali escludendo in partenza il ricorso alla guerra. Su questa base si sviluppa una critica delle posizioni dell’amministrazione democratica americana e anche i comizi di Biden sono sempre più oggetto di una contestazione  che muove da posizioni pacifiste e di sinistra. Particolarmente significativa è stata la mobilitazione del 7 gennaio a New York, che ha bloccato tutte le strade di accesso a Manhattan per più di un’ora, grazie alla capacità di qualche centinaio di militanti di incatenarsi ai parapetti dei principali ponti, costringendo la polizia ad intervenire in forze per liberarli e naturalmente arrestarli. Ma la cosa più importante, oltre al fatto che sono sufficienti poche decine di persone, se determinate e ben organizzate, a bloccare una intera metropoli, è che questa, come altre iniziative analoghe, hanno visto assieme, come organizzatori e protagonisti fisici, militanti del Movimento giovanile palestinese e del Jewish Voice for Peace. Una efficace critica in positivo alla campagna sull’antisemitismo scatenata, come un riflesso pavloviano in uno stile di stampo neomaccartista, dalla stampa americana, con l’altrettanto sollecito e servile  appoggio di buona parte della  stampa europea e italiana in particolare.

L’accusa è quella di antisemitismo nei confronti di chiunque si mostri anche solo compassionevole verso i palestinesi. Non è una novità si potrebbe dire. Ma questa volta vi è qualcosa di nuovo, non una semplice accentuazione, che andrebbe colto e su cui varrebbe la pena di ragionare. Da un lato imperversano  le dichiarazioni profuse a piene mani dai governanti civili e  militari di Israele secondo i quali il popolo palestinese non esiste – per cui ci si può appropriare impunemente anche dei pezzetti di terra sui quali attualmente risiede o risiedeva –  e dall’altro, e conseguentemente,  viene sostenuto che  criticare e opporsi ad Israele – considerato unico soggetto dotato di identità storica in quella regione mediorientale e che ha prodotto una “legge fondamentale” che definisce Israele quale Stato nazionale del popolo ebraico – significherebbe semplicemente volere cancellare l’identità ebraica in quanto tale. La matrice etnico-religiosa viene così asservita ad uno spirito genocidiario.

L’accusa di genocidio avanzata dal Sudafrica a Israele

Per questo assume un’importanza storica il passo compiuto dal Sudafrica che ha trascinato Israele davanti alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja con l’accusa di genocidio nei confronti del popolo palestinese. Ciò che resta del diritto internazionale, strappato e violato in tutti modi in questi ultimi decenni, può rinascere, se rinasce, dagli esiti di questo di questo processo. Non è solo in gioco la causa palestinese, ma la civiltà umana. Certamente un giudizio di merito  del Tribunale richiederà molto tempo, forse anni. Ora lo scontro legale si sviluppa attorno alla plausibilità del caso sollevato dal Sudafrica, cioè se si ritiene possibile che ci si trovi di fronte a un caso di genocidio, oppure no. Da questo primo pronunciamento potrebbero derivare ingiunzioni che limitano provvisoriamente l’azione di Israele. Autorevoli commentatori hanno avvertito di non cadere in ottimismi infondati sull’esito della contesa. I giudici sono 15 di nomina dei singoli paesi, fra cui i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. “E’ difficile immaginare – ha osservato giustamente Francesco Strazzari – Cina e Russia, accusate di atti genocidiari nello Xinjiang contro gli uiguri e in Ucraina, volere aprire il vaso di Pandora della convenzione sul genocidio.”10 Fra i rappresentanti degli altri Stati vi sono quelli della Germania, dell’Australia, dell’Uganda che sono favorevoli a Israele. Più imprevedibile può essere la decisione di chi rappresenta l’India, la Francia, la Giamaica e il Giappone. Vicini alla causa palestinese sono invece i giudici nominati dal Brasile, dal Marocco, dalla Somalia e dal Libano. Ma non è insensato sperare che ci sia “un giudice all’Aja”. Perché in ogni caso le varie fasi della dibattimento possono aiutare ed essere a loro volta aiutate dalla crescita di un movimento internazionale  a favore del cessate il fuoco e della pace in Medio Oriente.

Intanto il Sud del mondo è tornato a prendere parola. Lo ha fatto in una sede internazionale autorevole, per merito di un paese che, per la sua storia, ha i numeri per rappresentare tutti i popoli del Sud del mondo. Non è un caso che esponenti del governo israeliano si siano accaniti con particolare volgarità nei confronti del governo sudafricano, considerato letteralmente uno strumento in mano ai terroristi. La estrema sensibilità dei protagonisti della lunga lotta antiapartheid nel Sudafrica verso la causa palestinese è nota da tempo. Nelson Mandela considerava la questione palestinese come la questione morale del XXI secolo e ribadiva che “La nostra libertà resterà incompleta senza che siano liberati anche loro”, mentre nessuno ha dimenticato i legami esistenti fra Israele e il Sudafrica bianco e razzista, diventati ancora più stretti dopo la guerra arabo-israeliana del 1973. Fino all’ultimo Israele, anche attraverso la vendita di armi, sostenne il governo suprematista di Pretoria, mentre il resto del continente africano ne prendeva le distanze, anche imponendo sanzioni ai fini di facilitare il suo crollo.

Il Sudafrica ha scelto, come giudice ad hoc chiamato ad affiancare i 15 togati che compongono la Corte Internazionale di Giustizia, un giurista di fama internazionale, Dikgang Moseneke, la cui vita, fin dalla gioventù, si è incrociata con quella di Mandela. Era con lui in carcere, a soli 15 anni, nel 1962 a Robben Island e condivise con Madiba un decennio di reclusione. Netanyahu dal canto suo ha cercato la captatio benevolentiae dell’opinione pubblica internazionale, facendosi rappresentare all’Aja da Aharon Barak, un giurista anziano di fama internazionale, sopravvissuto alla Shoah, che era stato uno dei più decisi oppositori alla controriforma della giustizia voluta dal governo di Tel Aviv. Il che dimostra due cose. In primo luogo quanto il leader israeliano tema il confronto dell’Aja. In secondo luogo che purtroppo  la lotta in difesa della giustizia contro la prevaricazione del governo, che ha visto riempirsi le piazze delle città di Israele per diverse settimane, non si è legata con quella della pacificazione con il popolo palestinese, alla quale peraltro l’azione di Hamas del 7 ottobre non ha minimamente giovato.

Cessare il fuoco, condizione indispensabile per i passi successivi

I due teatri di guerra, quello ucraino e quello palestinese, presentano ovviamente caratteri troppo diversi e richiedono soluzione specifiche. Ma per entrambi i casi non si può che partire dal cessare il fuoco. Non solo perché è impensabile attivare qualunque seria e fattiva trattativa sotto il fuoco delle armi – anche se qualche avvicinamento e progetto di dialogo può essere avviato da subito – ma soprattutto perché la guerra se non viene fermata tende ad estendersi, come è chiarissimo nel caso mediorientale, o a moltiplicare la sua forza distruttrice, come potrebbe avvenire tra qualche settimana sul fronte russo-ucraino. L’idea che si possa intensificare gli armamenti e il loro mortifero utilizzo e nello stesso tempo mandare avanti la diplomazia – che è la giustificazione che assume il governo italiano dopo ogni invio di un nuovo pacchetto di aiuti militari – contraddice i fatti oltre che il senso comune. La diplomazia non marcia sui campi di battaglia. Quindi il “cessate il fuoco” è la condizione indispensabile, come suol dirsi la condicio sine qua non, per avviare negoziati  di pace. Nello stesso tempo  è difficile giungere a un cessate il fuoco senza che maturi l’idea del percorso successivo, per quanto non ancora avviabile.

Per il quadro russo-ucraino è possibile immaginare una soluzione nella quale ciascuno dei contendenti rinunci ad una parte dei propri progetti. Ad esempio prevedendo la Crimea all’interno della Federazione russa e prospettando per le regioni del Donbass una condizione di autonomia, pur all’interno dell’Ucraina, con garanzie da parte di un’autorità internazionale, come l’Onu, per la salvaguardia delle minoranze di ogni tipo, linguistiche, etniche, religiose. In questo caso l’Ucraina dovrebbe rinunciare alla richiesta di ingresso nella Nato, lasciando impregiudicata la possibilità di un ingresso nella Ue.

Sul versante mediorientale il cessate il fuoco dovrebbe escludere in partenza la possibilità per Israele di una rioccupazione della striscia di Gaza. Esattamente quello che vorrebbe fare Netanyahu. Al contrario,  se si vuole da un lato garantire la sicurezza di Israele e dall’altro consentire il ritorno della popolazione palestinese e l’avvio della ricostruzione di Gaza, bisogna puntare a un Mandato affidato all’Onu, che si occupi della liberazione degli ostaggi, se ancora in stato di sequestro, consentendo ad Hamas di svolgere attività politica assieme ad altri soggetti, cessando ogni iniziativa militare. Affidare la striscia di Gaza al governo di un esangue Autorità nazionale palestinese è meno che poco credibile, visto il crollo di consensi che questa ha maturato tra la popolazione. L’eliminazione dalla faccia della terra di Hamas, obiettivo perseguito dal “gabinetto di guerra” israeliano, è impossibile non solo perché odio genera odio, e quindi per ogni combattente abbattuto se ne crea un altro tra le giovanissime generazioni, ma perché Hamas non ha solo una dimensione militare, ma anche politica, come del resto dimostrano i consensi conquistati tra la popolazione  attraverso gli anni e la sua capacità di promuovere iniziative sul terreno sociale.11  L’amministrazione da parte dell’Onu dovrebbe promuovere una sostanziale autonomia e autoamministrazione della Striscia di Gaza. Al contempo    vanno fermate le violenze dei coloni israeliani in Cisgiordania. In questa prospettiva è importante che il nostro paese, e non solo, riconosca quanto prima lo Stato di Palestina.

Quale assetto futuro per la Palestina?

Questa non sarebbe altro che una soluzione ponte verso assetti più definiti che richiedono il maturare di nuove condizioni, fra cui la possibilità che i dirigenti della resistenza palestinese si possano confrontare ed esprimere liberamente. Solo così si potrebbe sviluppare una seria discussione se la prospettiva contenuta nella formula “due popoli due Stati” è ancora sostenibile – ma lungo il tempo ha perduto di forza e credibilità – o se invece non sia meglio puntare alla soluzione di una Confederazione fra due Stati o addirittura ad uno Stato federale, entro cui possano convivere religioni diverse e popoli che finora si sono combattuti.12 Sarebbe indispensabile, per fare solo un esempio ma di grande rilievo, che venga liberato dalle prigioni israeliane, alle quali è condannato a vita Marwan Bargouthi, un dirigente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina che gode di una grande credibilità presso  il suo popolo e da molti viene indicato come il “Mandela palestinese”. Peraltro la sua liberazione sarebbe un atto di distensione e di intelligenza politica da parte delle autorità israeliane, che troverebbe un’eco favorevole nell’opinione pubblica internazionale e presso i governi del Sud del mondo e non solo. Come è evidente che un simile percorso di pacificazione richiederebbe la fine della esiziale avventura politica di Netanyahu e dei suoi governi. Conosco le obiezioni. Come al solito si dirà: vaste programme!. Sì, ma in questo caso il programma massimo è lo sviluppo di quello minimo, o meglio non ce ne è un altro che possa avere l’ambizione anche solo di avviare a soluzione la contesa, senza il massacro della popolazione palestinese e un nuovo esilio – non si sa dove – di quella restante nonché di evitare che la guerra già a dimensione regionale assuma le dimensioni di un nuovo conflitto mondiale, per di più con l’impiego di armi nucleari.

Ci troviamo quindi a pensare e agire nel campo delle utopie possibili e realizzabili. Non si tratta di un semplice  omaggio alla figura retorica dell’ossimoro, ormai parte integrante della cultura e della fraseologia della sinistra, dopo il famoso scritto di diversi anni fa del subcomandante Marcos.13 Si tratta di restituire alla politica il suo vero significato, che più che l’arte del possibile è quello del cambiamento dell’ordine delle cose presenti. Se qualcuno vi vede un’analogia con una famosa frase di Marx, vede bene e non si tratta di un caso.14

 

I sonnambuli

Nel mezzo di questo cruento disordine mondiale, l’Unione europea ha dimostrato tutta la propria inerzia politica adagiata su un atlantismo d’antan. Chi si aspettava qualcosa dalla discussione nel parlamento di Strasburgo su una risoluzione, per quanto in ogni caso non vincolante, che partiva apparentemente con l’intenzione di chiedere un “cessate il fuoco permanente” a Gaza, ha subito un’altra cocente delusione. E’ bastato un emendamento del Ppe, votato dalle destre e anche da diversi “progressisti”, che chiedeva il rilascio immediato e incondizionato degli ostaggi e lo “smantellamento dell’organizzazione terroristica Hamas”, per rovesciare il senso politico dell’operazione. Il capogruppo del Pd Brando Bonifei ha giustamente scritto in un comunicato che “il cessate il fuoco non può essere condizionato al raggiungimento di questi obiettivi”; Manon Aubry, copresidente del Gue, ha parlato di “mano libera lasciata a Netanyahu” e l’eurodeputato Massimiliano Smeriglio, eletto nelle liste del Pd, ha spiegato il suo voto contrario dicendo che si è scritta “una pagina nera per l’Europa”. C’è da augurarsi almeno che a questa si contrapponga una reazione positiva da parte dell’elettorato in occasione del rinnovo del Parlamento europeo nel prossimo giugno.

Intanto la guerra continua e con essa l’incremento delle spese belliche – che verrebbero espunte dai lacci previsti dal nuovo Patto di stabilità europeo –  e così i profitti per le imprese che producono armamenti. L’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma (Sipri) stima che la spesa globale per fini militari è aumentata tra il 2022 e il 2023 per l’ottavo anno consecutivo, portandosi al livello più alto degli ultimi trent’anni, quindi dalla fine della guerra fredda: parliamo di 2.055 miliardi di euro, ovvero il 2,2 del Pil mondiale. L’Italia compare in questa pessima classifica con Leonardo tra le prime 15 industrie militari. Tecnologia, informatica, intelligenza artificiale trovano terreno di sviluppo e campi di applicazione sempre più ampi sul piano militare. Emendamenti proposti dalle destre nel parlamento italiano mirano apertamente ad eliminare ogni informazione utile a capire quali istituti di credito sono operativi nel settore import/export di armi. L’opacità e lo smantellamento di ogni regolazione diventano la regola, quando si tratta di armamenti, affossando di fatto le norme innovative contenute nella legge 185 del 1990.15

Come ogni anno le ricerche del Censis, grazie al loro linguaggio immaginifico, oltre che per la qualità del contenuto, lasciano il segno, spesso racchiuso in una parola o in un’espressione che diventano rapidamente un “tormentone” cui nessuno, o quasi, riesce a sottrarsi. In questo caso il termine usato centra in pieno l’atteggiamento con cui grande parte dei decisori politici e delle popolazioni si stanno avviando verso quello che potrebbe essere un disastro senza ritorno. La parola in questione è “sonnambulismo”, coloro che ne sono affetti sono i “sonnambuli”. Come è noto così si intitola la trilogia di Hermann Broch, scritta tra il 1931 e il 1932, anni cruciali per la storia europea del Novecento. Il teatro in cui si svolge la trama dei tre romanzi è quello della Germania guglielmina, prima nel 1888, poi nel 1903 infine nel 1918. Per l’autore la Germania, lungo quei trent’anni e in quei tre anni in particolare, viene vista come un ambito percorso e scosso da una domanda cruciale: che cosa è l’uomo di fronte a un mondo che si scopre in preda a un processo di disgregazione dei valori?.16

Diversi decenni dopo, lo storico australiano Christopher Clark si impossessa dello stesso titolo per una sua importante ricerca  sulle condizioni e le cause che portarono alla Prima guerra mondiale. Nelle pagine conclusive del suo libro Clark scrive: “ … gli uomini del 1914 sono nostri contemporanei … il primo ministro britannico Herbert Asquith scrisse nella quarta settimana di luglio dell’approssimarsi dell’Armageddon, la battaglia finale. I generali francesi e russi parlarono di una ‘guerra di sterminio’ e della ‘estinzione della civiltà’. Lo sapevano, ma lo percepivano veramente?”. Clark vede qui la differenza tra gli anni precedenti al 1914 e quelli successivi al 1945: “Negli anni Cinquanta e Sessanta, gli uomini al potere e la stessa opinione pubblica coglievano in modo istintivo il significato di una guerra nucleare: le immagini del fungo atomico  sopra Hiroshima e Nagasaki erano entrate a fare parte  anche degli incubi delle persone comuni. Di conseguenza, il più grande riarmo della storia  umana non culminò mai in una guerra nucleare fra le superpotenze”. 17 Ecco, possiamo noi ora nutrire lo stesso velato ottimismo che traspare da queste ultime parole? Il dubbio è più che lecito18. E si tratta di un dubbio carico di orrore.

Alfonso Gianni

  1. Con queste parole, Gideon Levy, editorialista emerito di Ha’retz, commentava nel 2017 il centenario della Dichiarazione Balfour, dal nome del ministro degli esteri britannico, Arthur Balfour che, il 2 novembre 1917, aveva promesso a Lord Rohschild – rappresentante della comunità ebraica britannica e del movimento sionista – la creazione di uno Stato ebraico in una terra ove il numero degli ebrei era dieci volte inferiore agli abitanti arabi (sia musulmani che cristiani).[]
  2. Per uscire dalla stampa mainstream, si veda ad esempio: Vijay Peashad “Israel’s War in Palestine and the Global Upsurge Against it” in Pressenza. International Press Agency, 13 gennaio 2024[]
  3. Tony Judt,  Guasto è il mondo, Laterza, Roma-Bari 2012, pag. 185[]
  4. La dichiarazione di Peskov è riportata in Roberto Ciccarelli “Alla fiera di Davos le diseguaglianze oscene del capitale”, il manifesto  del 16 gennaio 2024[]
  5. L’Institute for the Study of War è un think tank con sede a Washington negli Stati Uniti fondato nel maggio 2007 da Kimberly Kagan, che fornisce ricerche, studi, analisi e rapporti in ambito militare e in materia di affari esteri.[]
  6. Documento segreto tedesco con lo scenario di una guerra Russia-Nato, Redazione Ansa, Berlino, 15 gennaio 2024

    https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2024/01/15/documento-segreto-tedesco-con-lo-scenario-di-una-guerra-russia-nato_7c918e97-1965-4854-9fbe-5565bb3a154f.html[]

  7. Le notizie contenute in questi ultimi paragrafi dedicati alla guerra tra Russia e Ucraina tengono conto (ferma restando la mia responsabilità sulle considerazioni svolte) della corrispondenza intercorsa con il Generale Biagio Di Grazia, che ha ricoperto tutti gli incarichi della gerarchia militare fino a quello di Comandante di Reggimento Bersaglieri, e autore di La Nato nei conflitti europei. Ex Jugoslavia ieri, Ucraina oggi. Prefazione di Domenico Gallo. Delta 3 edizioni, Grottaminarda (Av) 2022[]
  8. Le dichiarazioni del ministro Crosetto, riportate nei verbali stenografici delle camere, sono riportate anche in Andrea Carugati “Ucraina, Crosetto scopre la diplomazia.Il Pd critica il governo”, ove, a volere essere precisi,  l’ultima frase del titolo appare poco rispondente alla realtà e al testo dell’articolo stesso[]
  9. La dichiarazione è riportata in Marina Catucci “’L’attacco è incostituzionale’. Su Biden fuoco amico e non solo” in il manifesto del 13 gennaio 2024[]
  10. Vedi Francesco Strazzari “Da Gaza a Sana’a, l’occidente abbandona la democrazia per le armi” in il manifesto del 13 gennaio 2024. []
  11. Sulla storia di Hamas  è di indispensabile lettura la nuova edizione accresciuta di Paola Caridi, Hamas. Dalla resistenza al regime, Feltrinelli, Milano novembre 2023, pp. 396, euro 20,00[]
  12. Vedi al riguardo Giuseppe Cassini “Confederazione di due Stati, faro di civiltà” in il manifesto del 28 dicembre 2024[]
  13. Vedi Subcomandante Marcos, Il nostro programma: Ossimoro!, aprile 2000

    https://spazioinwind.libero.it/prcrho/marcos0.html[]

  14. Mi riferisco ovviamente alla famosa definizione che Marx ed Engels diedero del comunismo ne     L’ideologia tedesca (1846) “Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.”, trad. it. In Marx- Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 541[]
  15. Il primo comma della legge Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento (GU Serie Generale n.163 del 14-07-1990) recita “L’esportazione, l’importazione e il  transito  di  materiale  di armamento nonché la cessione delle relative  licenze  di  produzione devono essere conformi alla politica estera e di difesa  dell’Italia. Tali operazioni vengono regolamentate dallo Stato secondo i principi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.”[]
  16. Hermann Broch, I sonnambuli, prefazione di Milan Kundera, postfazione di Carlos Fuentes, Mimesis, Sesto San Giovanni 2010, pp. 716[]
  17. Christopher Clark, I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra, Laterza, Bari-Roma 2016, pp. 716, € 28,00[]
  18. Secondo la tradizionale ricerca del Censis, il 60% degli intervistati ha dichiarato di avere paura dello scoppio di una guerra nucleare. Vedi il 57° Rapporto sulla situazione sociale del Paese/2023.   https://www.censis.it/rapporto-annuale/i-sonnambuli[]
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