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I comunisti italiani e l’integrazione europea

di Franco
Ferrari

La posizione dei comunisti italiani nei confronti del processo di integrazione europea ha subito nel tempo una serie di mutamenti ed evoluzioni. L’obbiettivo di questo articolo è di richiamare – sommariamente -alcuni passaggi fondamentali e dilemmi mai del tutto risolti. I soggetti considerati sono, evidentemente, il PCI fino al suo scioglimento e poi successivamente PRC e PdCI come principali formazioni sorte dalla minoranza che si oppose all’abbandono dell’identità comunista. Mi sono avvalso principalmente dei lavori di due osservatori esterni all’esperienza diretta ma non ostili che hanno esaminato il rapporto tra comunisti, sinistra radicale e dimensione europea, Richard Dunphy e Giorgos Charalambous, i cui testi indico nella bibliografia finale, insieme ad altri lavori utili.

Le Comunità europee e la “guerra fredda”

In tutto il periodo che va dalla formazione delle prime comunità europee fino alla firma del Trattato di Roma nel 1957, il Partito Comunista Italiano ha mantenuto un atteggiamento di decisa ostilità verso l’idea di una qualche cessione di sovranità nazionale. Una posizione condivisa dai partiti comunisti occidentali e dall’Unione Sovietica che, nel clima sempre più aspro della guerra fredda, vedevano nel progetto europeista una volontà di subordinazione dell’Europa occidentale al capitalismo americano e uno strumento di minaccia e contrapposizione nei confronti dell’Unione Sovietica.
Particolarmente netto fu il contrasto alla creazione di una Comunità europea di difesa che doveva accompagnare, sul versante militare, le altre Comunità. Questa era vista soprattutto come il cavallo di troia attraverso il quale si sarebbe determinata la rimilitarizzazione della Germania. Un tema che, a pochi anni dalla fine della guerra mondiale, sollevava ancora molte preoccupazioni, tanto più a capo dell’esercito tedesco di trovavano ancora molti generali che avevano combattuto al servizio di Hitler. La CED venne poi affondata dal Parlamento francese, grazie anche alla convergenza di comunisti e gollisti.
Una volta abbattuta la CED, l’attenzione alla dimensione europea risultò piuttosto scarsa, dato che si riteneva che il progetto europeista non si sarebbe più veramente ripreso da quella sconfitta. Quando però viene approvato il Trattato di Roma, l’atteggiamento del PCI nei confronti delle Comunità viene gradualmente rimesso in discussione. Negli anni 1956-57 si prende atto che il processo di integrazione, pur con tutte le sue contraddizioni, non è destinato a svanire nel nulla. Alla fine del 1956 è il sindacalista comunista Bruno Trentin a sollecitare il passaggio dall’opposizione frontale ad un atteggiamento più flessibile.
Trentin scriveva che “la classe operaia non può rimanere indifferente e nemmeno limitarsi ad assumere certe posizioni di principio, pur giuste e necessarie. Essa deve invece agire, con una sua politica, con un suo programma che affronti in generale e di volta in volta i problemi concreti posti in Italia dall’esistenza della Ceca, per influire con la lotta e l’iniziativa politica sugli stessi orientamenti di questo organismo e sulle ripercussioni che esso esercita” (cit. in Dunphy, 2004: 72).
Viene delineata qui una strategia che poi guiderà il partito per un lungo periodo e che viene così sintetizzata da Richard Dunphy: “accettare il processo di integrazione come un dato di fatto ma cercando di coinvolgere il movimento operaio in un’azione politica indirizzata ad ottenere miglioramenti significativi nelle condizioni delle masse popolari italiane” (Dunphy, 2004: 73).
Anche se l’adozione esplicita di questo orientamento avverrà gradualmente, la Direzione del Partito nel gennaio del 1957 approva una risoluzione che sposta l’accento da un’argomentazione prevalentemente propagandistica all’esame concreto delle conseguenze politiche ed economiche che il processo di integrazione ha sull’Italia. La risoluzione del 1957, che inizia a distinguere la posizione dei comunisti italiani da quella dei francesi ed anche dei sovietici, sottolinea la necessità di dedicare una maggiore attenzione alla dimensione europea ed in particolare agli effetti che questa può avere sullo sviluppo delle forze produttive e di non chiudersi in una “sterile posizione di opposizione preconcetta”.
Questa correzione di rotta modifica l’approccio del partito nel dibattito sulla ratifica del Trattato di Roma. Si insiste sulla necessità di modificare la natura “monopolistica e capitalistica” del Trattato proteggendo le piccole imprese, trattando in modo equilibrato industria e agricoltura e concentrando gli investimenti sulle aree depresse del Mezzogiorno d’Italia.
Va detto che, come sottolinea Dunphy, tutto ciò non significa “una conversione al campo dell’integrazionismo europeo o del federalismo”. L’opposizione alla Comunità Economica Europea nata dal Trattato di Roma resta dura ma espressa meno in termini ideologici e più secondo la ricerca di un’alternativa programmatica all’“Europa dei monopoli”.
All’inizio degli anni ’60, il PCI modifica certe previsioni catastrofiste sull’impatto che l’integrazione europea avrebbe avuto sull’economica italiana, riconoscendo invece che questa aveva contribuito al miracolo economico di quegli anni. La posizione dei comunisti italiani anticipa il cambiamento di prospettiva che in quello stesso periodo comincia ad essere assunto dall’Unione Sovietica. Intervenendo ad una conferenza di partiti comunisti a Mosca nel novembre del 1962, il PCI inizia ad esplicitare un giudizio più articolato sul processo di integrazione europea del quale si colgono anche i possibili elementi positivi per la classe operaia italiana.
In queste articolazioni di giudizio si riflette anche un dibattito più generale in corso nel partito tra chi mette l’accento sugli elementi di novità in atto nel capitalismo in generale e in quello italiano in particolare, e sulla sua capacità di risolvere alcune delle proprie tradizionali contraddizioni, e chi invece mantiene un punto di vista sostanzialmente “stagnazionista”. Una differenziazione dalla quale emergono diverse strategie politiche che si andranno differenziando in modo più netto dopo la morte di Togliatti, per essere in parte riassorbite dalla segreteria di Longo.
Questa posizione viene consolidata all’inizio del 1963, quando il PCI abbandona definitivamente l’obbiettivo della dissoluzione della CEE, proponendo invece una revisione in senso democratico del Trattato di Roma. Uno dei timori dei comunisti è che la Comunità europea così com’è rappresenti un ostacolo allo sviluppo di quella che viene ormai delineata come una “via italiana al socialismo”. Questa preoccupazione non impedisce di schierarsi a favore dell’allargamento della Comunità, tema che all’inizio degli anni ’60 riguarda particolarmente la Gran Bretagna, al quale si opporrà per molto tempo la Francia gollista.
A partire dal 1962 e in coerenza con questa maggiore flessibilità, il PCI rivendica il diritto ad avere una propria presenza nella rappresentanza italiana nel Parlamento europeo. Questo è ancora composto per designazione dei parlamenti nazionali e fino a quel momento i partiti di governo hanno mantenuto la “conventio ad excludendum” nei confronti dei comunisti.
In questi anni si vanno progressivamente divaricando le posizioni dei comunisti italiani e dei comunisti francesi anche se entrambi i partiti mantengono la critica all’Europa dei monopoli. Ma mentre i secondi mantengono una opposizione frontale, i primi vedono anche nel processo europeista elementi “obiettivamente progressivi”. Il PCI ritiene che l’integrazione europea, nonostante i suoi condizionamenti determinati dal peso del capitale monopolistico, sia in una certa misura necessaria allo sviluppo delle forze produttive che resta un concetto fondamentale nella visione socio-economica del partito.
Un punto che invece resta comune al PCF è l’opposizione alla creazione di strutture politiche integrate che sottraggano sovranità ai parlamenti nazionali. Queste sono viste come un ostacolo alla concreta possibilità di ottenere significative riforme sociali sul piano nazionale e di far pesare la forza elettorale del partito. Pur rivendicando una propria presenza nel parlamento di Bruxelles e Strasburgo, il PCI non è favorevole all’aumento dei suoi poteri. Tutto ciò è visto come lo slittamento di possibilità decisionali dai parlamenti nazionali elettivi ad una struttura europea che elettiva non è. Tanto più che a livello europeo l’influenza dei partiti comunisti era quasi esclusivamente concentrata in Italia e Francia.

Il PCI entra nel Parlamento europeo

Un evento che modifica l’atteggiamento dei comunisti nei confronti della Comunità europea avviene nel marzo del 1969 quando, mettendo fine alla precedente discriminazione, i rappresentanti del PCI vengono inseriti nella delegazione italiana. Il principale esponente politico impegnato in questa istituzione è Giorgio Amendola, rappresentante di spicco della destra del Partito. I comunisti iniziano a rivendicare una crescita dei poteri del Parlamento europeo su tutte le materie nelle quali la Commissione ha un autonomo potere di decisione come nel caso dell’amministrazione dei fondi di coesione sociale. Una richiesta che però – secondo la ricostruzione di Richard Dunphy – non convince altri membri della delegazione al parlamento europeo come Nilde Iotti, la quale osserva che senza un’elezione diretta del Parlamento non si determinerebbe un vero processo di democratizzazione.
In questa fase lo spostamento dell’equilibrio dei poteri interni alla costruzione europea è la chiave delle richieste comuniste. Ciò significa dare maggiore possibilità decisionali alla Commissione nei confronti del Consiglio dei Ministri, che resta la sede della dimensione intergovernativa, e contemporaneamente più rilevanza al Parlamento europeo attraverso l’elezione diretta dei suoi componenti.
Nonostante questo diverso approccio alla costruzione istituzionale della Comunità, il partito resta molto critico nei confronti del processo di integrazione europea, che continua a vedere come squilibrato a favore dei monopoli economici a discapito della classe operaia e dei ceti popolari. Inoltre il PCI si batte per sottrarre la Comunità alla dipendenza nei confronti degli Stati Uniti per trasformarla in una forza autonoma che favorisca il superamento della contrapposizione tra i blocchi.
L’evoluzione della politica comunista in materia di Europa si incrocia con l’avvicinamento ad Altiero Spinelli, uno dei principali sostenitori della prospettiva federalista, per diversi anni commissario europeo per conto dell’Italia. Spinelli era stato militante del PCI durante il fascismo, partito dal quale era stato espulso. Era uno degli autori del noto “manifesto di Ventotene”, considerato un testo fondamentale di riferimento del federalismo europeista, anche se la sua influenza reale nel processo di costruzione europea è stato pressoché irrilevante.
Ancora negli anni ’70 il Partito Comunista e in particolare proprio Amendola continuerà a proporre un’Europa che andasse dall’Atlantico agli Urali. Una formulazione che rifiutava la separazione del continente in blocchi contrapposti ma che restava difficile tra tradurre in proposte programmatiche concrete. La proposta comunista dovette progressivamente focalizzarsi sulla dimensione dell’Europa occidentale, il contesto nel quale il PCI poteva più direttamente agire. La visione comunista caratterizzava l’integrazione europea più come una confederazione di stati-nazione piuttosto che un assetto di tipo federalistico.

L’avvicinamento al federalismo di Altiero Spinelli

Spinelli venne eletto al Parlamento italiano come indipendente nel 1976 e beneficiò della grande avanzata elettorale del partito di Enrico Berlinguer. L’esponente federalista condivideva la proposta del compromesso storico ritenendola l’unica possibilità per salvare l’Italia dal tracollo. Quando si realizzarono per la prima volta elezioni dirette del Parlamento europeo, nel 1979, Spinelli venne eletto nelle liste del PCI. Il rapporto tra l’esponente federalista e il partito si andava consolidando. Come egli stesso dichiarò i comunisti erano arrivati ad adottare la politica che lui aveva sostenuto per molti anni e che affermava la necessità di andare oltre il momento dell’unificazione economica per porsi l’obbiettivo dell’unione politica europea.
La nuova valutazione della dimensione europea veniva vista dalla sinistra interna del PCI come una risposta necessaria alla perdita di peso dello Stato nazionale. Dichiarava allora Pietro Ingrao: “sono fenomeni che hanno ridotto o mutato profondamente gli spazi di intervento su cui si è fondato per secoli lo Stato-nazione di tipo europeo e su cui si sono foggiate anche le politiche sperimentate e praticate, soprattutto nel secondo dopo-guerra, dalla sinistra europea e dal movimento operaio. In questo senso si può parlare di una connessione tra la crisi delle politiche del Welfare State e queste nuove dimensioni sovranazionali che riguardano ormai questioni fondamentali come l’organizzazione della pace e della sicurezza, la risposta alla sfida dell’innovazione tecnologica, il gravissimo livello che sta assumendo la disoccupazione di massa in Europa e nel mondo, l’organizzazione di sistemi mondiali di informazione, una politica per l’ambiente all’altezza dei problemi e non limitata alla difesa di qualche ‘pezzo’ di natura da conservare indenne” (cit. Dunphy 2004: 79).
Con le elezioni europee del 1979, le prime che vedono la partecipazione popolare, il PCI inizia a delineare una sorta di “via europea al socialismo” e per questo cerca una convergenza con i maggiori partiti socialdemocratici con i quali ritiene di poter costruire un percorso comune. Una strategia che tiene conto del relativo spostamento a sinistra che la socialdemocrazia registra in quegli anni.
Il programma presentato alle elezioni del 1979 segna una scelta europeista più netta. All’Europa si chiede di confrontarsi con la crisi capitalistica attraverso un maggiore controllo delle grandi corporations pur nel contesto di un’economia di mercato. Il PCI cerca di contrapporre ad una integrazione “negativa” che accentua le divaricazioni interne alla Comunità, vista come conseguenza della natura neoliberista del processo europeo in atto, un’idea di integrazione “positiva”. L’armonizzazione sociale viene ormai collegata, in questo avvicinandosi alla visione di Spinelli, alla necessità di una unione politica che consenta il controllo delle forze di mercato nell’interesse dell’economia democratica e sociale. La democratizzazione delle istituzioni comunitarie viene affermata come un obbiettivo fondamentale del partito.
Il peso attribuito al Consiglio dei Ministri viene considerato come un ostacolo al processo di integrazione e soprattutto come uno strumento attraverso il quale prevalgono gli interessi degli Stati più grandi. Un elemento di contraddizione viene individuato nella volontà di accrescere il potere del Parlamento europeo senza ridurre quello dei parlamenti nazionali.
Per raggiungere i propri obbiettivi, i comunisti auspicavano la cooperazione politica più ampia possibile che si rivolgesse non solo ai socialdemocratici ma anche verso forze cristiane e laiche di varia ispirazione. Una ricerca che proiettava nella dimensione europea la strategia (per altro già in crisi) del compromesso storico.
Il partito si dichiarò in favore dell’unione economica e monetaria ritenendo che le barriere monetarie avessero un effetto negativo sullo sviluppo delle politiche industriali ed agricole. Ciò che emergeva dal programma del PCI era una visione della Comunità europea che rompeva con la logica del capitale monopolistico nella direzione di un forte “riformismo sopranazionale” (Dunphy 2004: 81).
Sul piano delle relazioni globali la Comunità europea avrebbe dovuto assumere una posizione che fosse “né antiamericana, né antisovietica”, agendo in autonomia come una forza orientata alla distensione e al disarmo. Netta era l’opposizione ad ogni concezione dell’Europa come nuovo blocco militare. Il PCI accettava l’idea di una politica di sicurezza comune, ma questo non impedì di assumere un ruolo di netta opposizione all’installazione dei missili Usa in Europa. Da questo ruolo della Comunità sarebbe dovuto derivare un rapporto diverso con il Terzo Mondo, in modo tale da superare ogni forma di neocolonialismo.
Su alcune scelte politiche concrete il PCI si differenziò da Spinelli come l’adesione al Sistema Monetario Europeo che per i comunisti andava rinviata per evitare l’impatto negativo sulla struttura economica italiana e, ancora più nettamente, all’installazione degli euromissili. Berlinguer impegnò tutto il partito in prima persona a costruire un vasto movimento per la pace nel quale poterono confluire sensibilità diverse da quella comunista, come quelle derivanti dalla visione nonviolenta a importanti settori cattolici.
Come tenere insieme l’ancoraggio del partito alla dimensione euro-occidentale, l’accettazione della Nato e l’opposizione al militarismo europeo e la caratterizzazione pacifista e di apertura a quello che, al tempo, si chiamava Terzo Mondo?
Molte delle proposte del PCI contenute nel programma elettorale del 1979 sono rimaste parte della politica del partito nel corso del decennio successivo che, soprattutto dopo la morte di Berlinguer, porterà ad un progressivo abbandono dell’identità comunista, sancito poi definitivamente nel 1991, con lo scioglimento del partito e la creazione da parte della maggioranza del Partito Democratico della Sinistra.
Il Partito sosterrà al Parlamento europeo la proposta di Trattato elaborata da Spinelli, che sarà nuovamente eletto nelle liste comuniste nel 1984. Il Pci vedrà negativamente il prevalere di forze che cercheranno di impedire l’unione politica e il riequilibrio del potere tra Parlamento europeo, Commissione e Consiglio dei Ministri. Saranno soprattutto i britannici, seguiti da molti altri, a concepire l’integrazione europea in pratica come la sola creazione di un mercato di beni, servizi, capitale e lavoro. Non mancavano però considerazioni critiche sulla tendenza di Spinelli a concepire il passaggio al federalismo più dome frutto di un lavoro di lobby interno all’élite politica (il “Club del coccodrillo”, così chiamato per il nome del ristorante nel quale si riuniva) che come costruzione di una reale adesione di massa.
Restava una differenza di fondo tra la posizione di Spinelli e quella di Berlinguer. Il primo vedeva nel federalismo europeista un fine in sé, mentre per Berlinguer esso era un mezzo attraverso il quale adeguare l’azione per la trasformazione della società in senso socialista, portandola su un nuovo terreno che teneva conto dei mutamenti del capitalismo e dell’emergere di nuove contraddizioni globali.
Al momento dell’approvazione dell’Atto Unico (che avvenne dopo la scomparsa di Berlinguer), il PCI pur ritenendolo inadeguato a realizzare un vero processo di unità europea decise comunque di approvarlo come un passo da compiere in attesa di ulteriori passi concreti attesi nel futuro. Una politica dei due tempi che ha quasi sempre caratterizzato l’europeismo di sinistra, per il quale la dimensione sociale e democratica dell’Europa, è sempre stata considerata come qualcosa di là da venire. Nel frattempo si accettavano tutte le scelte, considerate provvisorie, che ne rendevano sempre più difficile l’effettiva realizzazione. 
Il PCI nel corso degli anni ’80 ha abbracciato sempre più strettamente il federalismo come concepito da Spinelli considerandolo da un lato necessario allo sviluppo delle forze produttive e del potenziale democratico, dall’altro come condizione per superare le spinte al nazionalismo che sarebbero diventate, come dichiarò Cervetti, un esponente della destra del partito, un “residuo archeologico”. Previsione di cui oggi misuriamo la lontananza dalla realtà.
Era soprattutto la destra interna a premere per la europeizzazione della politica del PCI. Nel 1988 Giorgio Napolitano scriveva che avrebbe avuto effetti molto negativi non “avanzare coraggiosamente sulla strada dell’integrazione”, lasciando alle forze conservatrici la bandiera dell’unità europea. Il Partito propose di attribuire al Parlamento europeo una funzione costituente che avrebbe dovuto fondare l’unione politica dell’Europa. Questa idea fu anche oggetto di un referendum, dal valore puramente consultivo, che si tenne nel 1989 in coincidenza con le elezioni per il nuovo Parlamento europeo.
Per una parte del PCI, che poi si affermerà come maggioritaria, l’europeismo era visto come un mezzo cruciale per riallineare il partito in direzione della socialdemocrazia europea. Unitamente ad un atlantismo sempre più dogmatico, esso era interpretato come un inserimento del partito all’interno dell’establishment dominante e garanzia della legittimazione a governare. Una concezione che ha poi condizionato in modo sempre più vincolante i diversi partiti successori, per i quali la legittimazione a governare è data più dall’affidabilità offerta alle classi dominanti e sempre meno dal legame con le classi popolari.
Nel programma elettorale del 1989 l’unità europea veniva affermata come un pilastro decisivo di tutta la politica del partito. L’Atto Unico doveva essere integrato da politiche sociali. La posizione del PCI nel 1989 viene analizzata come il tentativo di spostare nella dimensione europea alcuni tradizionali obbiettivi socialdemocratici destinati ad un miglioramento del capitalismo, piuttosto che ad una sua messa in discussione (Dunphy 2004: 84). Per molti aspetti la trasformazione in PDS era già largamente anticipata sul piano programmatico.
Il partito espresse pieno sostegno alla proposta di Unione Monetaria e alla costituzione della Banca Centrale Europea che venivano considerate come uno strumento essenziale per una maggiore autonomia dell’Europa dagli Stati Uniti. “Il dollaro – era scritto nel programma – sembra ormai inappropriato a continuare a svolgere il suo ruolo come unico fondamento del sistema monetario mondiale. La valuta di un solo paese, il dollaro USA, amministrata in modo completamente autonomo sulla base dell’esclusivo interesse degli Stati Uniti, non può più essere la sola valuta internazionale per eccellenza”.
Il programma elettorale del PCI del 1989 costituisce l’ultimo importante documento in materia di politica europea prima della fine del partito e della sua sostituzione con il PDS e con il Partito della Rifondazione Comunista. Secondo Dunphy (2004: 86) si tratta di un testo che afferma decisamente la vocazione federalista del partito. Contemporaneamente va considerato come “una classica dichiarazione di un partito socialdemocratico che si propone di gestire il capitalismo in modo più equo, giusto e sensibile di quanto non faccia la destra ma che ha abbandonato una visione di superamento del capitalismo”.

La fine del PCI e la formazione di Rifondazione comunista

Il PDS effettuava una profonda trasformazione e una ricollocazione verso il centro del sistema politico. Un processo che si è affermato dopo la morte di Berlinguer il quale, annota ancora Dunphy (2004: 87) aveva guidato il partito verso una posizione federalista ma manteneva una prospettiva socialista.
Con lo scioglimento del PCI, l’identità comunista venne raccolta principalmente dal PRC anche se una parte di coloro che si erano opposti alla trasformazione nel PDS, decisero di entrare nel nuovo partito animando la corrente dei “comunisti democratici” (Ingrao, Tortorella). La loro influenza sulla politica del partito guidato da Occhetto si rivelò rapidamente molto marginale e i suoi principali esponenti abbandonarono rapidamente l’idea di “restare nel gorgo”, secondo la formula che era stata lanciata da Ingrao nella fase finale del processo di scioglimento del PCI per contrastare l’ipotesi di mantenere in vita un partito comunista separato.
Il PRC fondato nel febbraio 1991 rivendicava la continuità col PCI ma anche una rivisitazione critica della sua politica e della sua organizzazione. Era caratterizzato da una certa eterogeneità dovuta alle differenze che si erano andate rafforzando già all’interno del PCI nel corso degli anni ’80. Eterogeneità ulteriormente accresciuta con l’ingresso di Democrazia Proletaria, anch’essa per altro attraversata da profonde divisioni.
Sul piano della politica europea, il PRC rimise in discussione la linea decisamente integrazionista assunta dal PCI, assumendo un atteggiamento molto più critico sulla natura neoliberista di quel processo. Questa correzione di linea trovò immediatamente la possibilità di esprimersi nell’ottobre 1992 con il voto sul Trattato di Maastricht nel Parlamento italiano. Mentre il PDS votava a favore, pur ripetendo le consuete, quanto inefficaci, critiche sulla mancata unione politica e la scarsa attenzione all’integrazione sociale, il PRC votò contro.
Le critiche fondamentali rivolte al Trattato di Maastricht erano collegate alla sua ristretta concezione monetarista dell’economia che avrebbe prodotto estesa disoccupazione, conseguenze sociali negative e l’erosione del sostegno popolare alla stessa idea di Unione europea. Inoltre concentrava il potere nelle mani di tecnocrati che non dovevano rendere conto a nessuno.
Il PRC effettuava una netta soluzione di continuità con la tradizione del PCI, ritenendo che la democrazia non potesse realizzarsi soltanto a livello europeo ma dovesse attribuire poteri significativi agli stati nazionali. Il partito respingeva l’idea dell’unione federale allo stesso tempo però riconoscendo che la sinistra non avrebbe potuto governare efficacemente l’economia se non ad un livello europeo. L’approccio di Rifondazione Comunista alla questione della sovranità doveva essere “policentrico” rafforzando sia il Parlamento europeo che quelli nazionali e le relazioni intercorrenti tra i due livelli. Si può dire che tutta la politica successiva di Rifondazione Comunista ha cercato di combinare due elementi tra loro in tensione, se non in aperto conflitto. Da un lato la critica radicale al processo di integrazione europea così come si andava via via delineando, dall’altro però il rifiuto di tornare a mettere al centro come autosufficiente lo Stato nazionale.
La critica del PRC alla socialdemocrazia si concentrava sul fatto che questi partiti sbagliavano a sostenere le forme politiche della globalizzazione capitalista e tra queste l’Unione Europea disegnata dal Trattato di Maastricht. Era invece necessario riconnettere economia e politica creando nuove sedi attraverso le quali politicizzare il dibattito economico e contrapporre la democrazia alla tecnocrazia.
Dopo il 1996, quando il PRC dovette sostenere in Parlamento un governo di centro-sinistra che non disponeva della maggioranza assoluta si determinò una inflessione della sua politica europea. Il governo di centro-sinistra aveva come obbiettivo di preparare l’Italia all’ingresso nella moneta unica attraverso una riduzione della spesa pubblica. Il PRC propose, senza riuscirci, un rinvio di qualche anno all’adesione alla moneta unica in modo da allentare la pressione sulla spesa sociale. Ottenne invece una certa salvaguardia a difesa delle pensioni e della spesa sanitaria.
Il Partito si trovò a dover tentare una difficile, anche se non impossibile, operazione di equilibrio; respingere il Trattato di Maastricht come il tentativo europeo di gestione neo-liberista del processo di globalizzazione capitalista senza rinchiudersi all’interno dei confini nazionali, ignorando la necessità di costruire un intervento politico democratico e socialmente progressista nella globalizzazione. Tuttavia la configurazione di questa Europa alternativa è rimasta piuttosto indefinita (Dunphy 2004: 89). 

La divisione tra PRC e PdCI sul Trattato costituzionale

Nel 1998 ci fu la scissione guidata da Cossutta e Diliberto che, oltre a contestare la decisione della maggioranza del PRC di togliere il sostegno esterno al governo Prodi, ha anche rivisto le posizioni precedenti sull’Europa. Pur criticando la deriva neoliberista dei DS (successori del PDS) il PdCI ha recuperato l’impostazione favorevole all’integrazione europea al federalismo dell’ultimo PCI.
In un documento comune con il Movimento Federalista Europeo, il PdCI argomentava che chiunque si schierasse contro l’idea di Europa federale, contro la Costituzione Europea, contro un governo comune dell’economia e della politica estera, rafforzerebbe il “processo di globalizzazione unipolare”. Il PRC veniva accusato di rafforzare il dominio americano abbandonando le posizioni federaliste. Il PdCI chiedeva che la Commissione si trasformasse in un vero governo europeo responsabile di fronte al Parlamento. La posizione di rafforzamento delle istituzioni sovranazionali veniva presentata da Cossutta come in piena continuità con la tradizione comunista di Togliatti e Berlinguer, anche se in realtà si collegava più alle posizioni della destra interna al partito, pur senza inquadrarla nel processo di socialdemocratizzazione auspicato da Napolitano e dalla corrente “migliorista”.
Il PRC partecipò alle elezioni europee del 1999 con una piattaforma che criticava soprattutto la guerra della NATO contro la Jugoslavia e l’accettazione da parte dei governi europei del dominio imperialista degli Stati Uniti. Decisamente anticapitalista nelle sue argomentazioni, il PRC attaccava le basi neoliberiste sulle quali era stata realizzata la moneta unica. In un qualche modo però si spostava l’orientamento dal rifiuto netto ad una posizione più articolata riconoscendo che l’euro avrebbe potuto diventare uno strumento dell’autonomia europea ed anche la base per una politica economica espansiva.
Le riforme proposte potevano essere considerate come una forma di neo-keynesismo. Inoltre si chiedeva una politica più aperta verso i rifugiati ai quali si sarebbero dovuti riconoscere fondamentali diritti di asilo. Andava inoltre rafforzato il Parlamento europeo che avrebbe dovuto avere la possibilità di decidere i contorni della politica economica che la Banca Centrale Europea avrebbe dovuto seguire.
All’inizio del nuovo millennio il partito manteneva una posizione molto critica senza diventare anti-UE, in questo mantenendo un dissenso con altri Partiti Comunisti come quello portoghese. Il PRC auspicava anche che si potesse creare una sorta di federazione europea, al di là delle differenze politiche ed ideologiche, così come già avevano fatto le altre famiglie politiche. Una ipotesi che poi troverà concretizzazione nel Partito della Sinistra Europea, fondato nel 2004.

La dimensione europea della svolta “movimentista”

Nel 2000 il partito era uno degli iniziatori dell’opposizione al Trattato di Nizza e la mobilitazione, a fianco dei Verdi, offrì l’occasione di guardare con maggiore ottimismo ai rapporti con i movimenti. Nei primi cinque anni del nuovo millennio Rifondazione utilizzò l’Europa come tema elettorale per promuovere sé stessa come alternativa al centro-sinistra (Charalambous, 2013: 143).
Il Congresso del 2002 dedicò molta attenzione all’importanza della dimensione europea confermando l’assoluta opposizione del partito alla BCE e al Patto di Stabilità e Crescita e la denuncia della natura antidemocratica del processo di integrazione europea. Contemporaneamente l’analisi del ruolo dello stato-nazione segnalava un riposizionamento della posizione integrazionista. Secondo il partito, la costruzione europea avrebbe dovuto assumere un ruolo autonomo sulla scena globale. Si dichiarava favorevole ad una Costituzione europea che consolidasse il modello sociale europeo e rappresentasse democraticamente gli interessi popolari. In questa visione veniva sottolineata la necessità di costruire un soggetto politico unificato a livello europeo.
L’opposizione del PRC alla Costituzione Europea, così come era emersa dalle trattative, era molto decisa sia a livello nazionale che in sede di UE. Il rigetto del trattato nei referendum di Francia e Paesi Bassi veniva utilizzato come conferma dell’inaccettabilità della Costituzione così come della sua natura elitaria che non teneva conto delle preoccupazioni popolari. La posizione pro-integrazionista non veniva messa in discussione dalla retorica anticostituzionale, al contrario veniva inserita in questo discorso. Bertinotti affermava che il no di francesi e olandesi non era “euroscettico” ma, al contrario, “europeista”. Il PdCI, da parte sua, si pronunciò invece a favore del Trattato costituzionale, valutando negativamente il voto contrario espresso in particolare dai francesi.
Con la decisione del PRC di partecipare alla coalizione di Governo le critiche alle politiche europee nel congresso del 2005 hanno una minore centralità. La partecipazione al governo ha evidentemente creato una certa difficoltà a tenere insieme rivendicazioni politiche e sociali e la sopravvivenza di un governo che disponeva di una maggioranza ristretta in Parlamento.
Rifondazione approvò la Legge finanziaria del 2007, finalizzata a ridurre il deficit italiano per farlo rientrare nei criteri del Patto di Stabilita e Crescita e nello stesso tempo propose di rinviare i tagli all’istruzione e agli enti locali oltra a chiedere di accrescere le tasse per i settori più ricchi della società del 2%. In questa fase Rifondazione ridusse il rilievo dato agli effetti negativi dell’integrazione europea sulla situazione interna. Secondo Charalambous (2013: 146) durante il periodo di presenza di Rifondazione al governo vennero espresse poche critiche al liberismo dell’UE.
Faceva eccezione in questo senso la partecipazione al dibattito per il Trattato di Lisbona. In questo caso Rifondazione non venne limitata dalla presenza nel governo. D’altra parte critiche al Trattato vennero espresse anche dai DS e dal PdCI. Il PRC organizzò o partecipò a numerose iniziative sul tema e particolarmente attivi furono i suoi europarlamentari. Assumendo una posizione analoga a quella relativa alla Costituzione del 2004, il partito basò la propria visione sul trittico di democrazia, giustizia sociale e pace, sostenendo che il Trattato rafforzava la concezione monetarista e imperialista indebolendo il versante sociale e politico, proseguendo in una direzione caratterizzata da neoliberismo, elitismo e militarismo.
La campagna elettorale del 2008, nella quale Rifondazione si presentò all’interno della Sinistra Arcobaleno, le posizioni critiche sull’Europa non ebbero molto spazio anche perché le politiche dei partiti che ne facevano parte erano dissonanti. La componente di Sinistra Democratica (la corrente dei DS che non aveva accettato la trasformazione in PD) era interessata a restare all’interno del Partito del Socialismo Europeo.
A seguito della sconfitta elettorale che porta all’esclusione dal Parlamento, il PRC si divide praticamente a metà. La componente messa in minoranza al Congresso dà vita a Sinistra Ecologia e Libertà (SEL) che poi confluirà in Sinistra Italiana. Nelle elezioni europee del 2009, il PRC si presenta all’interno della Lista Anticapitalista che include il PdCI e altri gruppi minori. Il programma elettorale riprende in larga parte le posizioni espresse dal Congresso di Chianciano. Viene sottolineata l’importanza di collaborare con il GUE/NGL e soprattutto con il Partito della Sinistra Europea; le posizioni critiche verso Maastricht, Lisbona e l’impostazione anti-militarista vengono confermate; viene denunciato il collegamento tra il carattere neoliberista dell’UE e le politiche del governo Berlusconi.
La crisi in corso viene considerata un prodotto strutturale del capitalismo finanziario speculativo che è stato favorito dal Trattato di Maastricht e consolidato dal Trattato di Lisbona. Con la crisi dei debiti sovrani, la dimensione europea è diventata centrale nel dibattito politico. Il governo Monti viene visto come una diretta proiezione della Commissione europea.
Mentre il PD lo appoggia, Rifondazione mantiene una linea di ferma opposizione, anche se meno influente dato che non è più presente in Parlamento, però riesce a creare una certa mobilitazione sociale non priva di successo. L’UE viene accusata di rispondere con una linea “estremista” ai problemi prodotti dalla crisi economica. La critica è rivolta principalmente alle “tecnocrazie finanziarie europee”.
In questa fase il tema dell’integrazione europea viene utilizzato per marcare chiaramente il partito come rappresentante della sinistra alternativa che prefigura una uscita da sinistra dalla crisi. La linea elaborata nel 1996, di accettare l’unione monetaria ma battersi per ristrutturare le sue fondamenta contenute nel Trattato di Maastricht, rimane intatta.
Benché alcuni settori di estrema sinistra comincino ad agitare l’abbandono dell’euro e l’uscita dall’Unione Europea, il PRC non aderisce a questa tendenza, mantenendo un discorso articolato fra posizioni critiche e convinzione della necessità di una dimensione sovranazionale. Questo difficile equilibrio era stato rafforzato dall’emergere del movimento alterglobalista dell’inizio degli anni 2000 che sembrava offrire la possibilità di uno spazio conflittuale europeo non più affidato solo alla dimensione istituzionale.
Il riflusso del movimento e l’esito negativo dell’esperienza greca di Syriza ha per una certa fase alimentato le tendenze radicalmente antieuropeiste. Lo stesso PdCI (che poi ha assunto il nome del PCI una volta che questo è tornato legalmente disponibile) ha capovolto la propria posizione aderendo al movimento “Eurostop” e poi rivendicando l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea. Posizione che per altro il PCI storico non ha mai sostenuto. L’anti-europeismo lo ha portato ad avvicinarsi alla Rete dei Comunisti, le cui origini sono in larga parte rintracciabili nel Movimento per la Pace e il Socialismo di Nino Pasti, che rappresentò negli anni ’80 il tentativo di costruire un’alternativa filo-sovietica al PCI e anche alla stessa corrente cossuttiana.
Nel penultimo congresso il PRC ha definito in una tesi specifica (la terza) la propria valutazione critica sul processo di integrazione europea. Da un lato l’Unione Europea viene definita come “irriformabile”, valutazione dalla quale deriva una strategia basata sulla “fuoriuscita dalle politiche neoliberiste dell’UE” e di rottura della “gabbia dei Trattati”. In questo modo si dovrebbe pervenire ad una “diversa costruzione europea di tipo confederale tra popoli e paesi che comprenda l’area euromediterranea ed i vari meridioni”. A questa prospettiva generale si affianca la richiesta di rilanciare il ruolo dei parlamenti, compreso quello europeo e un mutamento della funzione della BCE che dovrebbe diventare prestatrice di ultima istanza nei confronti degli stati. Resta abbastanza vaga sia la natura della costruzione “confederale” sia come si realizzi il passaggio dall’attuale UE considerata “irriformabile” a questa nuova confederazione.
Nel documento approvato dal XII e ultimo congresso non si riprende il tema della forma confederale, mantenendo tutti gli elementi critici nei confronti di quella che viene definita come “Europa reale”. L’alternativa viene definita in termini generali come un’Europa “della integrazione sociale, delle politiche di occupazione, di crescita dei redditi, di nuovo welfare comprensivo del reddito universale, di libertà ed integrazione per tutti contro ogni discriminazione”, nonché un’Europa democratica. La contraddizione tra “europeisti” e “sovranisti” non è così profonda come si vuole far credere perché entrambi si basano sulla marginalizzazione della democrazia, condividono politiche neoliberiste e quasi tutti anche politiche di guerra.
Per Rifondazione come per gran parte della sinistra radicale europea la dimensione europea resta un terreno sul quale è risultato finora difficile formulare un vero progetto che si affermi con chiarezza come alternativo sia alla tendenza federalista che ai sostenitori del ritorno allo Stato nazionale. Nel primo caso i federalisti di sinistra tendono a diventare subalterni all’europeismo “reale” delle classi dominanti, nel secondo caso i neo-sovranisti aprono spesso le porte a commistioni ideologiche con settori apertamente reazionari. L’esperienza storica più lontana e più recente, indica però che ci sono esperienze e risorse per costruire una prospettiva che tenga insieme i fondamentali di una sinistra alternativa: internazionalismo, classismo e antifascismo.

Franco Ferrari

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