evidenza, interlocuzioni

I centomila #indivisibili non sono soli

di Stefano
Bleggi

di Stefano Bleggi* – «Questa piazza, questa giornata segnano un passo importante, siamo qui dai quattro angoli d’Italia, siamo giunti qui da percorsi sociali e politici molto diversi, e oggi si intersecano per dire No al razzismo di Stato, al sessismo del governo, per affermare a gran voce che il “Decreto Salvini” è ingiusto, e questa piazza ad una sola voce dice che non dovrà mai diventare legge!».

Si è conclusa con queste parole la straordinaria manifestazione che sabato 10 novembre ha portato in piazza centomila #indivisibili, in quella che può essere riconosciuta come la più imponente manifestazione antirazzista degli ultimi anni e la prima contro il governo Salvini-Di Maio.

Una manifestazione più forte dei controlli asfissianti e pretestuosi operati dalla forze dell’ordine per volere del ministro dell’interno, che a onor del vero erano già stati sperimentati lo scorso anno dal predecessore Minniti, costui vero precursore di molte altre politiche del demagogo leghista.

Una manifestazione totalmente autorganizzata, autofinanziata, indipendente, visibilmente meticcia, che è riuscita a “far muovere” pullman da Bolzano come da Catania; oltre 450 tra realtà collettive, di movimento, dell’associazionismo, del sindacalismo di base e di partito hanno deciso di aderire all’appello “Uniti e solidali contro il governo, il razzismo e il decreto Salvini”, promosso da un’assemblea pubblica che si è svolta il 14 ottobre.

Un testo, quello di convocazione, chiaro e diretto al punto: contro un razzismo sempre più becero e brutale che si è fatto Stato; contro il diritto differenziale e il mantra securitario del Decreto Salvini che attacca le libertà di tutti; contro quell’insieme di misure che puntano a reprimere il dissenso sociale e ripropongono in maniera ossessiva la figura del migrante come capro espiatorio, riducendolo a un soggetto ancora più ricattabile e precario, marginalizzato e reso invisibile.

Percorrendo in lungo e largo il corteo, come prima cosa è doveroso soffermarsi sulla composizione sociale che ha deciso di mettersi in cammino. Il lungo serpentone, partito da una piazza della Repubblica straripante, aveva i volti, età e biografie rappresentative della ricchezza sociale e cooperante che resiste all’imbarbarimento della società e ai dispositivi legislativi di precarizzazione violenta e gerarchizzazione sociale. Carico di desideri e di umanità, di narrazioni pregnanti e concrete, come quella espressa dalla caparbietà e dalla gentilezza di Domenico Lucano, o dall’esperienza decennale di percorsi di lotta come quello degli occupanti di casa del movimento per il diritto all’abitare romano o dei braccianti delle campagne del sud Italia, si è mosso scandendo il ritmo di un presente che è possibile provare a costruire, senza attendere che qualcuno lo faccia al suo posto.

Tra i tanti interventi dei vari spezzoni è emerso, fuori da ogni retorica autocelebrativa, la consapevolezza della necessaria ricerca di unità, di provare a creare fronti solidali antirazzisti, mettendo da parte incomprensioni e individualismi perché, molto banalmente, nessuno se lo può più permettere. Siamo arrivati sull’orlo massimo del baratro. Ancora un passo e non ci sarà più nessun appiglio a cui aggrapparsi prima del rovinoso schianto.

Questa molteplicità reale di corpi, cuori e linguaggi è ancorata ad un lavoro territoriale quotidiano e diffuso in tutto il paese, consapevole di essere invisibile e ostile ad una certa modalità di narrazione mainstream, complice dell’ascesa dei populismi in quanto sostenitrice della riduzione della complessità alla mera propaganda. E proprio per alcune peculiarità diverse dal passato è difficile leggere e incasellare con le vecchie lenti della politica o della rappresentanza questo movimento, perché ci troviamo di fronte a un corpo sociale variegato che trova la sua forza nella territorialità e nelle pratiche di solidarietà attiva e giustizia sociale.

E’ evidente che una manifestazione, costruita con scarsi mezzi economici, in poco meno di un mese e che ha fatto i conti con l’oscuramento mediatico, può dirsi riuscita nel momento in cui non solo ha colto che nel paese è presente un’esigenza palpabile di espressione di dissenso e di rifiuto delle politiche di odio del governo, ma è stata in grado di cogliere il tempo “giusto”. La sfida perciò al governo è appena iniziata e la direzione intrapresa è quella più includente.

In primis, è stato azzeccato l’aver scelto di utilizzare un concetto semplice e diretto come #indivisibili che, se da una parte contrasta sul piano dell’immaginario il “prima gli italiani” e la guerra tra ultimi e penultimi di matrice leghista, dall’altra richiama immediatamente a valori condivisi e di uguaglianza e soprattutto alla costruzione di un “comune”.

Oltre a richiamarsi simbolicamente alla piazza antirazzista e antifascista di Berlino, questo hashtag non deve diventare proprietà di nessuno o soggetto politico, ma deve diffondersi in forma virale, producendo contaminazione tra contesti diversi. In secondo luogo, il ritorno nei territori, linfa vitale per qualsiasi movimento che ambisca ad uscire dalla marginalità, è un termometro fondamentale per comprendere come potrà proseguire questo processo, aprendo senza politicismi o titubanze uno spazio comune di confronto in cui la miriade di esperienze territoriali in cui si pratica solidarietà, cooperazione, mutualismo e lotta sociale possano incrociarsi e potenziarsi a vicenda.

Infine la necessità di non fermarsi, ma di proseguire nelle iniziative senza ricorrere allo “scadenzismo”, provando però a inserirsi in tutte le possibili contraddizioni in cui incapperà il governo, sapendo intrecciarsi a quei movimenti, come quello femminista che il 24 scenderà in piazza, che non vogliono limitarsi a incalzare l’esecutivo in modo vertenziale, ma producono processi di emancipazione e autoderminazione.

*Progetto Melting Pot Europa