Le guerre non sono mai finite con “paci giuste”, anche perché questo non è un concetto assoluto, essendo piuttosto suscettibile di essere visto in modo relativamente diverso dalle opposte parti. In definitiva è un concetto più propagandistico che sostanziale. Alla fine di una guerra, c’è sempre chi ha vinto e chi ha perso, nelle varie declinazioni in cui si può leggere una vittoria o una sconfitta. La pace giusta è solo una: quella che discende dalla trattazione diplomatica dei problemi, dall’equilibrio fra potenze, dalla condivisione della sicurezza, dal reciproco riconoscimento, dalle mutue garanzie, dal contenimento del pur necessario strumento militare, dallo sviluppo del dialogo. Questi fattori possono prevenire ed evitare le guerre. Oppure possono ricostruire la pace dopo una guerra. Purché si riconosca la sconfitta, non si perpetuino stragi e devastazioni senza alcuna possibilità di risultato, si elaborino visioni profonde sulle relazioni fra paesi e fra potenze, e si riportino al negoziato i problemi e i nodi che hanno scatenato la guerra. Tutto questo comporta dolore, compromessi, lunghe e talvolta estenuanti trattative; anche necessità di accettare imposizioni, perché non sempre si può negoziare in condizioni di parità. Entro questi termini si evidenziano i numerosi fallimenti dell’Unione Europea negli ultimi decenni, da quando abbandonò l’approccio dialogante che pure si era aperto nell’era Gorbačëv per schierarsi acriticamente sulla logica dell’autoreferenziale allargamento della NATO a guida americana verso le frontiere della Russia. Non la casa comune “da Vancouver a Vladivostock”, auspicata dallo storico leader russo, in sostanza, ma la progressiva e rovinosa caduta da Helsinki al Donbass.
L’Europa ha mancato tante occasioni di crescita, di coesione e di elaborazione di un ruolo internazionale non marginale; avrebbe potuto cercare di resistere (anche se non era facile) alla spinta per l’allargamenti della NATO, valorizzando le logiche e gli strumenti dell’OSCE, di diretta derivazione dal processo di Helsinki; avrebbe potuto promuovere con più forza di quanto pure si tentò un’identità specificamente europea entro l’Alleanza Atlantica; avrebbe potuto lanciare parole e programmi di pace e di arresto dei combattimenti alla vigilia o all’inizio della guerra in Ucraina; avrebbe potuto in qualsiasi momento di questo lungo trentennio riportare l’accento sull’esigenza di concepire la sicurezza europea in termini collettivi. Certamente l’Europa non aveva, e non ha, la forza militare né la coesione politica per imporre tutto questo; ma avrebbe acquisito almeno un’autorevolezza in grado di consentirle un ruolo di interlocutore, negli anni e ora, nel momento in cui si stanno perseguendo ipotesi di cessazione della guerra in Ucraina. Avrebbe potuto ancora adesso, nonostante tutto, recuperare un po’ del tempo e dei messaggi politici possibili e dispersi negli ultimi trent’anni, al fine di riacquistare un minimo di credibilità. Invece ha prodotto i cinque tardivi punti emersi dall’ultimo vertice e l’accordo per una militarizzazione onerosa, rischiosa e priva di progetto.
La dichiarazione del Consiglio Europeo straordinario di Bruxelles dello scorso 6 marzo, approvata a ventisei senza il consenso dell’ungherese Viktor Orban, conferma i principi in cui gli europei si riconoscono per arrivare a una “pace giusta” in Ucraina: a) non possono esservi negoziati sull’Ucraina senza l’Ucraina; b) non possono esservi negoziati che interessano la sicurezza europea senza il coinvolgimento dell’Europa; c) qualsiasi tregua o cessate il fuoco può avvenire solo nell’ambito di un processo che porti a un accordo di pace globale; d) qualsiasi accordo di questo tipo deve essere accompagnato da solide e credibili garanzie di sicurezza per l’Ucraina che contribuiscano alla deterrenza di una futura aggressione russa; e) la pace deve rispettare l’indipendenza, la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina.
Questi principi, che sarebbero stati degni di considerazione e suscettibili di influenza sull’andamento delle cose all’immediato inizio del conflitto, risultano oggi del tutto superati dagli eventi, considerata l’intenzione americana di metter fine alla guerra comunque sia, anche operando con qualche brutalità, e rischiano di apparire fuori tempo massimo e del tutto in contrasto con quello che, piaccia o meno, sta avvenendo. L’Europa non ha infatti, oggi, né la forza né l’autorevolezza per metterli con qualche speranza sul tavolo delle trattative. Probabilmente Kiev, e forse l’Europa, compariranno nella fotografia conclusiva, ma solo dopo che le decisioni saranno state già prese dai comprimari americano e russo. I principi di cui ai cinque punti, sostenuti e più ampiamente modulati verso la metà degli anni Novanta, oppure fermamente proclamati all’inizio della guerra, avrebbero potuto forse aver qualche fortuna. Oggi, purtroppo, si scontrano con una realtà certo sgradevole, alla quale tuttavia l’Europa ha contribuito con la propria ignavia di decenni e con le cieche posizioni adottate all’inizio del conflitto armato.
Il riarmo proposto da von der Leyen soffre della stessa decennale ignavia. La difesa comune europea è un tema importante, cui si sarebbe dovuto pensare già a partire dalla fine della guerra fredda, perché sin da allora era chiaro che gli orientamenti americani di sicurezza si sarebbero progressivamente allontanati dall’Europa (gli atteggiamenti trumpiani, incivili e volgari, non sono che l’accelerazione di un processo cominciato da tempo). La difesa comune, però, non è una semplice questione di quanto investire in armamenti, ma di come collaborare tra paesi, stati maggiori, industrie militari; di quali strutture intergovernative o comunitarie istituire per una gestione di difesa; di quale concetto strategico adottare; di come affrancarci dalle forniture americane facendo crescere una solida e collettiva ricerca e una comune produzione europea.
Ma soprattutto bisognerebbe sapere e decidere al servizio di che cosa sarà messa la difesa europea: di un’Europa unita e coesa, o di una congerie di paesi diversamente uniti e spesso litigiosi? Paradossalmente gli investimenti preconizzati da Von der Leyen, che saranno su base esclusivamente nazionale, non avranno altro risultato che incrementare gli acquisti di armamento americano e di vanificare del tutto la speranza di mantenere nel nostro continente una parvenza di stato sociale. Di più: l’Europa armata secondo le decisioni adottate a Bruxelles, viste le divisioni vigenti fra i membri e l’assenza, se non retoricamente proclamata, di una visione comune, rischia di essere ancora più debole, perché non è detto – finché non si elabori finalmente un vero e proprio progetto unificatore e unitario – che i vari membri metterebbero davvero a fattor comune le armi per fronteggiare insieme le crisi del futuro. Allora tanto varrebbe dire le cose come stanno: aumenteremo i bilanci militari e compreremo più armi dagli americani nella speranza (per ora non garantita) che non ci abbandonino del tutto. Non una grande visione. Non un grande progetto.
Quando si è sbagliato tutto, sarebbe bene ammettere gli errori e ripensare a quali processi avviare per uscire dalla confusione. Goffi tentativi per riparare in pochi giorni agli sbagli di trent’anni aumentano la confusione e incrinano ulteriormente la potenziale autorevolezza che l’Europa nonostante tutto meriterebbe e che deve assolutamente ricostruire. Non certo con le dichiarazioni del Presidente Macron: le duecentonovanta bombe atomiche di cui pare disporre a fronte delle seimila russe, non sembrano sufficienti a una vera politica di deterrenza, peraltro affidata in ultima analisi non a un organismo collettivo ma alla decisione discrezionale dello stesso presidente della Francia. E nemmeno sotto la guida del Regno Unito, il cui percorso storico è stato sempre quello di impedire qualunque crescita dell’Europa. Né appare verosimile l’allarme secondo cui la Russia si starebbe apprestando ad attaccare l’Europa, e dovremmo quindi prendere decisioni in emergenza.
Certamente sulla situazione aleggiano sconvolgenti inquietudini, come il timore dell’interruzione della copertura americana all’Alleanza Atlantica. A questo l’Europa si deve certo preparare, anzi, avrebbe dovuto già cominciare a prepararsi tempo fa. Ma la precipitazione di questi giorni non aiuta. Allora, ecco cinque punti alternativi a quelli del vertice straordinario che nella presente situazione sarebbero certo più produttivi di quelli attuali:
- l’Europa segue con realismo l’auspicata interruzione dei combattimenti in Ucraina e si impegna, a partire da tale interruzione, a dare inizio a un ampio dialogo con Stati Uniti, Russia e la stessa Ucraina al fine di elaborare un progetto di sicurezza collettiva in Europa, collettivamente garantito e volto all’equilibrio e alla pace;
- consapevole del ruolo che dovrà esercitare in futuro per la propria sicurezza e per i pacifici equilibri fra potenze e alleanze, l’Europa darà immediato inizio a un serio processo unitario, in termini di politica generale e di difesa, anche su base parziale dei membri che intendano adottarlo;
- il rafforzamento della difesa europea, da elaborare sulla piattaforma della più ampia condivisione industriale e strategica, non sarà concepito contro alcun avversario che non manifesti intenzioni ostili, ma sarà da intendere come strumento di equilibrio politico e militare fra paesi e gruppi di paesi auspicabilmente interessati al pacifico svolgimento delle relazioni internazionali;
- pur nei meriti propri della difesa, l’Europa metterà lo strumento militare al servizio della diplomazia e dell’approccio negoziale alle relazioni internazionali;
- l’Europa, nel rispetto e nella riaffermazione dei propri principi istitutivi, persegue la pace e la collaborazione, e la necessaria unità d’intenti nella risoluzione dei problemi globali.
In un quadro del genere, che metterebbe insieme l’indispensabile realismo con la nobiltà dei principi, le necessità politiche e militari con l’avvio di un vero progetto unitario, il pragmatismo imposto dai fatti con la visione ideale, bisognerebbe subito avviare un dialogo con americani e russi. Senza l’arroganza della pulce, consapevoli dei minimi termini politici e della marginalità in cui l’Unione Europea è precipitata dopo decenni di insipienza, ma recuperando il bagaglio di idee, principi, attitudine al dialogo che pure l’Europa possiede e del quale ha talvolta dato prova.
Anche perché, pur preparandoci al futuro, e visto che oramai gli avversari dell’Europa stanno di qua e di là, non possiamo che parlare con ambedue, per evitare di finire stritolati; a metterla sul piano del confronto armato, o della deterrenza, e ammesso e non concesso che cominciamo subito a lavorarci, ci vorranno almeno dieci anni.
Mario Boffo
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