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Governo fascista e Stato di polizia

di Luciano
Beolchi

Qualche lettore – come giusto – è perplesso e fatica a scrollarsi di dosso il mito confortante del bravo ragazzo americano, che armato della sua divisa, del distintivo e di una incrollabile fede nell’American Way of Life, combatte contro i cattivi – organizzatissimi – e, solo contro tutti, fa trionfare la giustizia.

Lo Stato compare solo dopo nella persona di Mr. President e del sindaco di Chicago – possibilmente nero – che gli appunta la medaglia. I cattivi vanno in prigione e il film finisce.

In Italia li chiamavano liberatori, in America i Liberators erano gli aerei che verranno a bombardare l’Italia fascista dove i cattivi eravamo noi.

Come se un cattivo prevedesse sempre un buono e non esistesse l’accoppiata cattivo/cattivo.

Un nostro lettore perplesso ci potrà dire: va bene criticare Trump e la sua interpretazione quanto meno personale della democrazia fatta di decreti esecutivi; e realizzata attraverso amici che senza titolo governativo alcuno volano qui e lì a fare da plenipotenziari del Capo a protezione degli interessi dei finanzieri degli Stati Uniti, categoria di cui loro stessi e il Capo sono eminenti rappresentanti. Riconosciamo anche che le centoventotto basi all’estero e le sette flotte in giro per il mondo costituiscono intimidazione e minaccia per chi pensa di intralciare gli interessi americani e abbiano un certo sapore di imperialismo; riconosciamo anche che il modello ideologico sbandierato ogni volta che la bandiera americana garrisce al vento è quello sciovinista – Make America Great Again-. Scassellati in un recente articolo su questa stessa rivista Come nascondere un impero: il disvelamento dell’impero degli Stati Uniti (Transform.Italia del 16 aprile 2025) ci ha spiegato non solo di quanto sangue e violenza grondino le mani che hanno creato l’impero americano, ma anche che è l’unico impero bianco ancora in buona salute – da Porto Rico, a Guam, alle Hawaii, alle Isole Vergini, alle Filippine – che gli sono sfuggite alla fine della guerra mondiale – all’Alaska e a quella buona metà di Messico arraffata con la guerretta d’invasione del 1846; per non parlare di Cuba che da sessantacinque anni disubbidisce agli ordini, ed è stata sottoposta per questo al più lungo assedio della storia.

Ammettiamo che tutto questo giustifichi l’etichetta di imperialismo appiccicata sulla fronte dell’amico americano; ammettiamo pure che l’organizzazione capillare, meticolosa imprescindibile e onnipresente dei media e dell’IA esercitino sulla popolazione quel controllo che nel xx secolo esercitavano i partiti totalitari classici delegati a imporre a far rispettare il pensiero main stream o linea ideologica, che dir si voglia.

Manca però lo stato di polizia, lo stato che insegue e perseguita, che va a prendere la gente a casa di notte e se non trova l’interessato prende al suo posto i familiari. Qualcosa che ci faccia capire che siamo in una situazione simile a “Le vite degli altri” il film del 2006 dove un poliziotto comunista scalzacani si rintana in soffitta per registrare con un’apparecchiatura antidiluviana i detti e non detti di uno scrittore che tutto è tranne che leale al suo paese. Ma vuoi mettere la DDR con gli USA?

E allora eccovi accontentati. Dopo gli attentati dell’11 settembre, ai tempi in cui Bush dichiarava la guerra ai poveri di tutto il mondo compresi quelli del suo paese, per questi ultimi dovette creare una super agenzia di polizia interna almeno per raccapezzarsi tra le diciottomila polizie che agiscono all’interno degli Stati Uniti, tutte con distintivo tutte autorizzate ad arrestare agente. Cominciò allora una guerra che continua tutt’oggi e quanto succede in Palestina ne fa attualmente dei palestinesi la vittima principale. In quei giorni insieme al l’adozione del Patriot Act, fu anche creato un super dipartimento di sicurezza, il DHS. Sotto il diretto controllo del Presidente degli Stati Uniti[1].

L’operazione iniziata da Bush jr. è ripartita su larghissima scala con Trump all’interno dei medesimi Stati Uniti e i principali bersagli al momento sono i tredici milioni di esseri umani che Trump arruola con atto d’imperio nella schiera dei migranti illegali, ma potrebbero diventare quindici o venti fino a quando qualcuno dalla pelle un po’ più scura occupa un posto di lavoro destinato a un bianco-che-vota-Trump e che scoprirà a sue spese quanto valgono, in termini di salario, gli invidiabili posti di lavoro riconquistati alla sua razza. Quasi zero; e servono a far ricchi Trump e i suoi amici e parenti; ma anche i loro omologhi che prosperano all’interno del partito democratico.

Sotto attacco anche le centinaia di studenti stranieri che si sono visti espellere d’ufficio per reati di opinione, in genere istigazione all’antisemitismo, solo per aver manifestato disgusto per il massacro in atto a Gaza con la piena complicità degli USA e quella appena più defilata dell’Europa.

Ad oggi più di seicento visti sono stati revocati senza appello direttamente dal ministro Rubio.

Harvard si è opposta, dichiarandosi non disposta a collaborare, dopo che nei mesi scorsi aveva criticato e licenziato la rettrice Claudine Gay, proprio per non aver sufficientemente stigmatizzato e represso il movimento contro le strage di Gaza. I pro-palestinesi sono solo il primo bersaglio della repressione cui si aggiunge il tradizionale odio dei bianchi per tutte le misure contrarie alla discriminazione razziale; in questo caso la legge che prevede anche per le Università della Ivy League che un certo numero di posti siano riservati ai negri che non vi potrebbero accedere altrimenti, vuoi per mancanza di soldi vuoi per il colore della pelle.

Trump la chiama discriminazione razziale con lo stesso folcloristico trucco con cui chiama razzisti i tentativi del governo sudafricano di cercare un equilibrio tra un 3% dei bianchi che possiedono il 70% delle terre e il 97% dei negri che si affollano sul restante 30%. Un volta si chiamava riforma agraria, ma Trump ha un modo tutto suo di spiegare il mondo. Una cosa che ricorda molto l’escamotage legale con cui l’FBI, ai tempi della repressione antisindacale degli anni venti e trenta, contestava la legge contro il crimine organizzato più ai sindacati che a Cosa Nostra che visse allora uno periodo di vero splendore.

Qualche altro ateneo di grande prestigio che se lo può permettere, ha seguito l’esempio di Harvard rifiutando di cacciare i propri studenti e soprattutto di mettere la propria polizia interna al servizio al servizio del Servizio Immigrazione Statale che è quello di dare addosso ai migranti.

Perché penetrare nelle università può presentare qualche difficoltà, ma al momento opportuno ci può entrare anche con la Guardia Nazionale e sparare sugli studenti come successe all’Università di Kent nel 1968: però è più comodo costringere le polizie interne, che sono migliaia, a mettersi a disposizione del Servizio Immigrazione.

Se università prestigiose, come Yale, Stanford e Columbia, si sono associate ad Harvard nel tentativo di respingere la caccia allo studente voluta da Trump, un blocco di università della Florida e migliaia di università di tutto il paese hanno preferito chinare la testa e si sono adeguate ai divieti di Trump, specie dopo la minaccia che si tagliassero i fondi.

Se le università tremano, la caccia al migrante prosegue indomita in tutto il paese, con arresti nei luoghi pubblici, nelle strade, nelle sagre locali ma anche negli uffici dell’amministrazione e naturalmente nella abitazioni.

Emblematico è stato quello di Moshem Mahdawi, accolto profugo dagli USA nel 2014, iscritto alla Columbia University e titolare della green card, cioè del permesso di soggiorno permanente. Neanche la green card però costituisce una garanzia perché proprio il giorno in cui gli si si doveva concedere la cittadinanza è stato arrestato da Immigration and Customs Enforcement (ICE), pur non avendo alcun precedente penale proprio al momento del colloquio per l’ottenimento della cittadinanza.

L’ accusa è nebulosa ma certamente è stato arrestato per aver protestato a favore della Palestina. Le autorità cercano di tenere nascosto alla famiglia il luogo di detenzione in modo che gli avvocati non sappiano dove presentare il loro appello. In molti casi trasferiscono gli arrestati in distretti lontani dal luogo di residenza e dove la Corte è, per così dire, maldisposta verso i migranti.

Un altro caso che ha fatto scalpore è quello del salvadoregno sposato con un’americana e prelevato a forza davanti alla scuola del figlio per essere immediatamente deportato in Salvador, dove il presidente Nayib Bukele è stato incoraggiato da Donald Trump a continuare la costruzione di carceri di massima sicurezza da cui è impossibile evadere ma da cui è anche molto improbabile essere rilasciati.

L’amministrazione locale statunitense ha detto di essersi sbagliata perché Kilmar Abrego Garcia non doveva essere arrestato e di essersi sbagliata anche nel non dare seguito all’ingiunzione del giudice che vietava la deportazione, ma ora che è in Salvador, non può più far nulla. E nulla può fare il presidente Bukele che, in un colloquio alla Casa Bianca con Trump, gli ha spiegato che, per rispetto dei diritti umani lui non può deportare un cittadino salvadoregno in un altro stato. Il caso è talmente grottesco che si è pronunciata persino la Corte Suprema, giudice, arbitro, parte lesa capitano e giocatore in tutti i casi giudiziari degli Stati Uniti.

Si farà un altro film “Tratto da una storia vera”.

Le polizie degli atenei hanno firmato con l’ICE[2] un accordo (il 2875) in base al quale le polizie dei campus (sono quattromila le università degli stati Uniti) si impegna a dare la caccia a studenti e professori internazionali sospettati di aver violato in qualche modo le leggi sull’immigrazione negli Stati Uniti. Con questo le polizie che possono arrestare mostrando il distintivo diventano 22.000: teoricamente il fermato dovrebbe riconoscere tutti i 22000 distintivi che gli vengono presentati al momento dell’arresto e comunque competerà alle polizie universitarie smascherare, arrestare e consegnare all’ICE. Un’altra congrega di begli elementi è la CBP (Customs and Border Control Police), con 58000 funzionari, qualcosa tra la Polizia di frontiera e la Guardia di finanza che agisce prevalentemente sul confine messicano, ma anche nelle acque territoriali. Già numerosi di per sé, triplicano o quadruplicano i loro effettivi, aggregandosi come volontari organizzazioni locali di suprematisti bianchi – armati, in divisa, attrezzati con ogni tipo di tecnologia (fuoristrada, droni, sofisticati sistemi di comunicazione, reti televisive e naturalmente molte, molte armi), per dare la caccia all’uomo e alla donna di colore.

Oltre a questo ci sono gli sceriffi, veri e propri padroni discrezionali nelle contee in cui sono stati eletti (e dovranno eventualmente essere rieletti), la Municipal Police, la Metropolitan Police, la Polizia Stradale, la Polizia al servizio dell’ufficio del procuratore dello Stato. Vari dipartimenti di ciascuno dei 51 Stati possono avere le proprie polizie: la Capitol police, la, la Water Police, la polizia degli ospedali psichiatrici di stato (!!), i Dipartimenti di correzione, la polizia per la tutela dei beni ambientali, i guardiacaccia

Ce n’è abbastanza per parlare di stato di polizia? Qualcuno dirà di no. Semmai è uno stato che pensa alla sicurezza dei suoi cittadini. Però qualche sospetto perlomeno di stato repressivo, se non di polizia può venire dal fatto che, con meno del 5% della popolazione mondiale, gli USA hanno circa il 25% della popolazione carceraria mondiale[3]. Secondo l’ICPR, di questi 7,2 milioni, 2,3 sono effettivamente in prigione[4]. Ai 2.3 milioni di detenuti nelle carceri federali e statali, si devono però aggiungere altri 800.000 circa detenuti nelle carceri di contea e in altri luoghi di detenzione.

Al secondo posto nella classifica mondiale, con metà dei detenuti degli USA, viene la Repubblica Popolare Cinese con 1,6 milioni di detenuti, ma con una popolazione complessiva oltre quattro volte maggiore di quella degli USA. Gli USA detengono il primato anche per il più alto tasso di incarcerazione: circa 751 persone in prigione per ogni centomila abitanti. [A titolo di confronto, a parità di popolazione, è come se in Italia ci fossero 600.000 detenuti e non circa 60.000 come viene denunciato].

Quella americana di oggi è la stessa percentuale dell’URSS dei tempi dei Gulag, ma per qualche motivo è assai meno citata: e non è che universi carcerari come quello di Angola, una delle più tristemente note prigioni americane, avessero nulla da invidiare ai gulag più famigerati

Prigioni federali, prigioni di stato, carceri di contea, prigioni di massima sicurezza sono una realtà consolidata mentre in rapida ascesa sono le prigioni private, in cui capita spesso di dimenticarsi i prigionieri perché il giudice addetto ai rilasci ha diviso il costo giornaliero della detenzione – pagato dallo stato -con l’azienda, che non si può permettere di tenere posti vuoti.

La giustizia americana è quanto di più inquietante, pericolosa e discriminante conosca il diritto moderno. Una giustizia in cui l’imputato negro, qualunque sia la sua posizione in rapporto al reato contestatogli, non può dichiararsi not guilty, come pure gli consentirebbe la legge, se non vuole che il poliziotto, che ha titolo, a norma di legge, di suggerire al magistrato l’entità della pena, non gliela faccia decuplicare[5].

Di casi di persecuzione individuali, di drammi e tragedie è piena la filmografia americana: dal genere crime, al genere legal, al genere prigione, al genere libertà provvisoria.

Senza dimenticare le vere campagne di massa, in base a operazioni come Cointelpro che letteralmente sterminò le Pantere Nere, con metodi che oggi si chiamano rispettosamente extragiudiziali. Nel caso delle Pantere nere si arrivò al fatto grottesco che in numerose sezioni del piccolo partito, che non arrivò mai a superare qualche migliaio di iscritti, gli agenti infiltrati dell’FBI, gli agenti provocatori e gli informatori erano più numerosi dei membri “normali”. Di queste campagne gli Stai Uniti ne hanno conosciute parecchie, giudiziali ed extragiudiziali. Da quella che seguì l’emancipazione dei negri alla fine della guerra civili e che diede il via alla secolare stagione dei linciaggi: cinquemila delitti di folla ai quali, se la vittima era un negro, la giustizia non seppe trovare un solo colpevole.

E ancora le campagne contro gli anarchici- specie tedeschi – a fine Ottocento e contro i comunisti negli anni ’30 e negli anni cinquanta’50, quest’ultima tristemente famosa come Maccartismo e quella della contro i sindacalisti della IWW (Industrial Workers of the World) nella prima metà del Novecento.

Parlare di giustizia in America obbliga anche chi non vorrebbe a parlare di giustizia di classe. Pensiamo a Black Lives Matter, il punto forte della giustizia extragiudiziale del suprematismo bianco che continua a godere della più generosa tolleranza delle autorità, a partire dal Ku Klux Klan che è ancora vivo e vegeto, ma che negli anni ’30 aveva più membri dei sindacati.

Bisognava festeggiare quando uscì Albert Woodfox, delle Pantere Nere, condannato 43 anni fa per un omicidio cui era assolutamente estraneo, l’ultimo superstite dei tre di Angola, o era meglio aspettare l’uscita del film? E anche per Leonard Peltier graziato da Biden dopo cinquanta anni di ingiusta detenzione sarà meglio aspettare il film?  Tutti bei film commoventi e civili, ci potete giurare, come già lo è stato Hurricane del 1999 sul campione negro di pugilato vittima di uno sfacciato complotto della polizia e della magistratura smascherato solo dopo trent’anni patiti in carcere dalla vittima.

Diversamente dalle esperienze europee la straordinarietà del caso americano consiste nel fatto che lo stato di polizia pre-esisteva al governo fascista. Trump non si è neanche dovuto prendere il disturbo di creare la sua Gestapo, la sua Ovra la sua Pide. Erano già belle e pronte e soprattutto ampiamente sperimentate

 

[1]             Il Dipartimento della Sicurezza Interna degli Stati Uniti d’America (DHS) (United States Department of Homeland Security) è un Dipartimento federale del governo degli Stati Uniti d’America responsabile per la pubblica sicurezza sul suolo degli Stati Uniti d’America. Si occupa di: anti-terrorismo, sicurezza delle frontieresicurezza informatica oltre che prevenzione e gestione dei disastri naturali. Istituito ai sensi dell’Homeland Security Act del 2002 è, per dimensioni, il terzo dipartimento del governo statunitense dopo quello della difesa e quello degli affari dei veterani.

Le politiche del DHS vengono coordinate dalla Casa Bianca all’interno dell’Homeland Security Council.

L’attuale segretario sotto l’amministrazione Trump è Kristi Noem.

[2]             L’ Immigration and Customs Enforcement (ICE) come del resto il Customs and Border Control Police rispondono direttamente al presidente USA attraverso il DHS (vedi nota precedente).

[3]              Adam Liptak, Inmate Count Dwarfs Other Nations’New York Times, 23 aprile 2008.

[4]             World Prison Brief curato dall’Institute For Crime & Justice Policy Research (ICPR), del Birkbeck College dell’Università di Londra.

[5]             Rosanna Gambini Musso. Il processo penale statunitense. Soggetti ed Atti. Ed. G. Giappichelli, Torino, 2009.

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